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Una filosofia per l'Europa

  1. 256 pagine
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Una filosofia per l'Europa

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Nel cuore di una devastante crisi economica due eventi tragici venuti dall'esterno, come l'ondata immigratoria e il terrorismo islamico, hanno mutato radicalmente il profilo e il significato dello spazio che chiamiamo Europa. In presenza di un simile salto di paradigma, la riflessione filosofica è in condizione di esercitare la propria potenza inventiva piú di altri saperi. Ma solo se è capace di oltrepassare i propri confini lessicali, volgendo lo sguardo fuori di sé. È quanto, rompendo con il linguaggio delle filosofie della crisi primonovecentesca, hanno fatto alcune traiettorie di pensiero, tedesche, francesi e italiane, capaci di imporsi all'attenzione internazionale. Analizzati da questa prospettiva inedita, i grandi testi di Adorno e Derrida, di Foucault e Deleuze, ma anche quelli dei pensatori italiani piú recenti, ricevono una nuova luce. Dal loro rapporto e dalla loro tensione, ricostruita con straordinaria sensibilità teoretica da uno dei protagonisti della filosofia contemporanea, può nascere un pensiero all'altezza delle sfide cui è sottoposta oggi l'Europa. Teoria critica, filosofie della differenza, biopolitica costituiscono, nel loro confronto e nel loro attrito, scandagli decisivi per mettere a fuoco i tratti del nostro tempo e profilare i contorni di quanto ci aspetta.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
ISBN
9788858422465

Capitolo quarto

Italian Thought

1. Il potere e l’immediato.
Sono diversi i motivi che impediscono di istituire un rapporto simmetrico tra Italian Thought, German Philosophy e French Theory. Essi attengono tanto all’aggettivo, “italiano”, quanto al sostantivo, “pensiero” – oltre che al composto che ne deriva. Quanto al primo termine, non mi riferisco solo al carattere non nazionale che va a esso attribuito. Ciò vale ugualmente per gli aggettivi “German” e “French”, entrambi privi di risonanze territoriali ed espressivi piuttosto di un certo stile concettuale. Ma nel pensiero italiano questo elemento di non-nazionalità è ancora piú marcato. La sua tendenza alla contaminazione ne rende impossibile una definizione autoctona, centrata intorno a un nucleo identitario. Abbiamo visto come la categoria, decisiva per l’Italian Thought, di biopolitica provenga dalle ricerche di Foucault. Ma un debito analogo il pensiero italiano lo contrae nei confronti della filosofia tedesca in una modalità che spesso si sovrappone alla matrice francese. Autori come Benjamin o Schmitt non risultano meno influenti, nella costituzione del pensiero italiano attuale, di Foucault e Deleuze. Ciò che anzi in piú di un caso si determina è un circuito lessicale in cui autori tedeschi e francesi s’incrociano in una giuntura cui l’interpretazione italiana fornisce effetti di particolare intensità teoretica.
Questo non vuol dire affatto, come pure è stato sostenuto, che l’Italian Thought sia dipendente dal pensiero francese e tedesco. Non solo perché si è andato sviluppando in una maniera originale e a volte critica nei loro confronti; ma anche perché, se la percezione della sua identità è recente, la sua genesi reale risale agli anni Sessanta. Esso è dunque contemporaneo, e in qualche caso antecedente, agli esordi della teoria francese e alla massima diffusione della filosofia critica francofortese. La difficoltà di delinearne il profilo nasce anche da questo scarto temporale che lo pone in una sorta di controtempo, insieme prima e dopo paradigmi elaborati altrove. Per un verso il pensiero italiano appare piú giovane, e piú immaturo, rispetto alle due tradizioni filosofiche con le quali si confronta. Mentre queste già negli anni Ottanta sono definite nei loro contorni e per certi versi perfino esaurite nei loro effetti, il pensiero italiano è in una fase costitutiva e dunque largamente incompiuta. Ancora oggi si deve dire che esso sia non solo ciò che è stato, ma soprattutto ciò che saprà essere, se avrà la forza di svilupparsi ulteriormente. Per altri versi l’Italian Thought coglie elementi della contemporaneità – soprattutto relativi all’orizzonte della politica – in maniera precoce e anche piú incisiva di altre genealogie filosofiche. Per cui si può affermare che al contempo le segua e le preceda, immettendo in esse qualcosa che è loro mancato. Come è accaduto in passato, da un lato la filosofia italiana ha anticipato tratti significativi del pensiero europeo, dall’altro, nel suo piú recente segmento, li ha portati a sintesi in una forma piú densa.
Tale scarto semantico riguarda anche il sostantivo scelto per caratterizzarlo – “pensiero”, differente, nel suo senso e nelle sue risonanze, dai lemmi “filosofia” e “teoria”. Si è visto come questi ultimi, almeno nella formulazione tedesca e francese, vadano intesi. E anche la distanza, o quantomeno il dislivello, che sperimentano nei confronti della prassi politica. Nel suo complesso il pensiero italiano rovescia tale tendenza, trovando nell’azione politica un radicamento essenziale. Mi riferisco soprattutto all’operaismo degli anni Sessanta, con le sue differenti proiezioni nel decennio successivo. Che esso nasca dall’impegno militante dei suoi protagonisti non costituisce un dato secondario, o solamente interno alle loro biografie, ma il nucleo costitutivo di tale vicenda1. “Pensiero”, da questo punto di vista, va interpretato come qualcosa che, anziché precedere la prassi, nasce da essa in una forma che oltrepassa sia l’autonomia della filosofia sia la neutralità della teoria. A differenza della filosofia, e della teoria, il pensiero è in quanto tale sempre “in atto”, attivo e attuale, cosí come ogni atto porta dentro di sé una traccia di pensiero. A definire quello italiano è spesso il rapporto, storicamente pregnante, con un processo collettivo che sfonda i limiti del filosofico e del teorico, per calarsi nelle dinamiche e nei conflitti politici. Da questo lato potremmo dire che il movimento del “fuori”, nella riflessione italiana contemporanea, coincida con il terreno del “contro”, in una tensione di natura politica. Diversamente che a Parigi e a Francoforte, l’esteriorità, nell’Italia degli anni Sessanta, non si apre ai confini esterni della scena sociale, ma al suo interno.
Ma questo rinvio alla prassi – come ciò che il pensiero italiano a un tempo contribuisce a orientare e da cui emerge – non è riducibile all’ultimo mezzo secolo. Esso rimanda a una linea di ben piú lunga durata, che da Machiavelli arriva a Gramsci, includendo le successive esperienze dell’umanesimo civile, dell’illuminismo riformatore, dello hegelismo napoletano, della resistenza al fascismo. Del resto lo scontro con il potere, politico ed ecclesiastico, ha segnato l’intera storia del pensiero italiano già da Bruno, Galilei e Campanella. La morte violenta di Gramsci e Gentile ai lati opposti della medesima barricata in difesa del proprio pensiero conferisce a questo un’intensità politica difficilmente rintracciabile in altre culture nazionali. Naturalmente la dialettica tra potere e resistenza è parte integrante di ogni dinamica intellettuale e, piú in generale, di qualsiasi contesto storico. Ciò non esclude però, in merito a essa, una peculiarità del pensiero italiano. È come se da noi il momento della resistenza precedesse, o fosse contemporaneo, al potere che fronteggia. Per usare il lessico di Nietzsche, si direbbe che essa non si riduca alla reazione a una sfida esterna, ma costituisca un’azione volta a modificare in anticipo i rapporti di forza dati. Tale rovesciamento è al centro di quella strategia operaista che vede nella soggettività operaia il motore della trasformazione del capitale, ma anche di una nozione di biopolitica che non a caso ha assunto una tonalità affermativa. Perfino il femminismo italiano, che può ben essere considerato parte dell’Italian Thought, è caratterizzato dal progetto esplicito di «partire da sé» – dunque di affermare la propria soggettività in forma diretta, non come opposizione a qualcos’altro2. Se la filosofia francofortese si è caratterizzata come “negativa” e se la teoria francese, almeno nel suo versante decostruttivo, produce un effetto di neutralizzazione, possiamo affacciare l’ipotesi che la categoria modale del pensiero italiano sia l’affermazione. Naturalmente, vista l’eterogeneità dei suoi autori, a tale termine occorre conferire un significato estremamente variegato. Ma ciò non toglie che in tale timbro affermativo si condensi un elemento differenziale nei confronti di altri stili di pensiero.
Se ciò è vero, può venir meno il contrasto ermeneutico tra coloro che interpretano l’Italian Thought in chiave sincronica – come pura risultante delle lotte politiche degli anni Sessanta e Settanta3 – e chi lo cala in una diacronia ben piú profonda, risalente alle origini della filosofia italiana4. Naturalmente non è ininfluente, per la sua caratterizzazione, accentuare l’uno o l’altro aspetto. Ma mi pare che il dato piú rilevante, per la collocazione dell’Italian Thought, si situi proprio all’intersezione di queste due linee interpretative – nel punto in cui l’attualità si espone a uno sguardo di lunga gittata che ne rappresenta insieme l’orizzonte e il dispositivo di criticità interna. Del resto proprio questa relazione, critica e antinomica, tra originario e attuale costituisce un nucleo centrale del pensiero italiano. In tutti i suoi autori, da Machiavelli a Vico, esso si affaccia su questa soglia, interrogandosi insieme sul carattere contemporaneo di ciò che proiettiamo all’origine e sul nucleo arcaico situato nel cuore dell’attualità. Non è certo un caso la presenza di figure arcaiche, o comunque di provenienza greca e romana – come bios, sacertas, communitas, persona, imperium –, nella ricerca di diversi interpreti italiani.
Tutto ciò ha qualcosa a che vedere, oltre che con la politica, anche con la storia – con il significato che ha assunto nella nostra riflessione la questione della storicità. Ma anche, per altri versi, con la natura, intesa appunto non come il contrario della storia, ma come il limite da cui essa scaturisce e che la taglia lungo tutta la sua estensione. La natura, potremmo dire, è l’elemento non storico presente nella storia, come la storia il luogo a partire dal quale la natura acquista una tensione che la spinge oltre se stessa. Tale complesso di questioni è operante nel modo in cui la filosofia italiana ha pensato la crisi in una forma assai diversa da quella dei suoi teorici novecenteschi – e anzi in rottura con essa. Ma anche nella maniera in cui ha elaborato il paradigma di “secolarizzazione”, sottraendolo a un’identificazione indebita con quello di “laicizzazione”, assai piú semplificato e irriflesso del primo. Da entrambi i lati – quello del rapporto tra storia e crisi e quello della relazione tra secolarizzazione e teologia politica – la riflessione di Vico, ma anche di Cuoco e Leopardi, ha influito potentemente sulla discussione aperta in Italia a partire dagli anni Settanta.
Ma la relazione tra storia e natura – tra il “proprio ora” e il “già da sempre” – tocca un’altra questione di fondo che riguarda il rapporto col linguaggio. Si è detto che il pensiero italiano è esterno – da un lato lo precede, dall’altro lo eccede – a ciò che altrove ha assunto il nome di linguistic turn. Se con questo termine si intende l’idea, diffusa nel quadrante novecentesco, del carattere trascendentalmente linguistico dell’esperienza, la riflessione italiana assume una movenza, se non contrapposta, certo diversa, che la pone in una posizione eccentrica rispetto alle filosofie analitiche, ermeneutiche e decostruttive. Neanche il pensiero cosiddetto postmoderno ha conosciuto in Italia l’egemonia che per piú di un ventennio ha esercitato altrove, nonostante l’ampia diffusione del “pensiero debole” che ne ha costituito la versione italiana5. È vero che la lingua, intesa come facoltà di parlare, è talmente tipica dell’essere umano da caratterizzarne la natura, come fin da Aristotele si è sostenuto. In questo senso non esiste un’esperienza umana prelinguistica. Non si diventa uomini senza, o fuori dal, linguaggio, come non esiste soggettivazione che non passi per tale medium. Ma se non si è umani senza linguaggio, non vi è linguaggio senza un corpo umano che gli dia voce. In questo senso non può esistere precedenza del linguaggio rispetto al corpo degli uomini e al bios che lo vivifica6. Ciò, se interrogato nei suoi presupposti, ci riporta alla questione della relazione tra storia e natura – al modo in cui esse s’intrecciano in una forma che non solo non è possibile sciogliere, ma che acquista sempre nuova intensità. In questa direzione Paolo Virno ha osservato che proprio oggi il linguaggio, come anche altre invarianti biologiche della specie umana, è messo direttamente a lavoro nel processo produttivo. Ciò significa che la natura umana, oltre che il presupposto trascendentale della prassi storica, ne è divenuta il contenuto prevalente. Le prerogative naturali – come appunto la capacità di linguaggio, la neotenia, la flessibilità – dell’animale-uomo hanno acquisito un rilievo decisivo anche nella prassi storica. La produzione, insomma, come d’altra parte la politica, si rapporta sempre piú immediatamente alla vita7. Un altro cantiere di ricerca tra eredità biologica e costruzione dell’identità individuale è stato aperto da Remo Bodei. Dopo aver analizzato la dinamica delle passioni e le esperienze del delirio nella loro genealogia moderna, egli si è concentrato sulle potenzialità, ma anche sui rischi, delle tecniche di ingegneria genetica, che hanno reso plasmabili le coscienze, frantumando il carattere unitario della personalità. Ciò ha determinato da un lato una moltiplicazione dei profili...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Da fuori
  3. Introduzione
  4. I. Il dispositivo della crisi
  5. II. German Philosophy
  6. III. French Theory
  7. IV. Italian Thought
  8. V. Una filosofia per l’Europa
  9. Elenco dei nomi
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Dello stesso autore
  13. Copyright