Storia moderna e contemporanea. II. Dalla rivoluzione inglese alla Rivoluzione francese
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Storia moderna e contemporanea. II. Dalla rivoluzione inglese alla Rivoluzione francese

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Storia moderna e contemporanea. II. Dalla rivoluzione inglese alla Rivoluzione francese

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Fra le rivoluzioni inglese e francese, l'Europa scopre la via del potenziamento illimitato delle proprie risorse materiali ed economiche, del rafforzamento dello Stato, della possibilità, anzi della necessità di convivere e di competere con le opinioni e le culture dell'Altro, vicino e lontano. Cosí facendo, gli europei incrementano la loro straordinaria capacità aggressiva nei confronti di ogni parte del mondo. Ancora piú di prima diventano pericolosi per se e per gli altri.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
ISBN
9788858422335
Argomento
Storia

Capitolo decimo

L’Inghilterra e l’industria. L’America e la sfida rivoluzionaria

Lo sblocco del sistema politico dell’Europa settecentesca non venne dal riformismo illuminato, cioè dalla ragione di governo finalizzata alla felicità pubblica, ma dalla libertà: dallo spontaneo sviluppo della società civile, che si realizzò nel mondo anglosassone.
Se la libertà riuscí a creare rinnovamento e crescita, là dove non riusciva la ragione delle monarchie riformatrici, ciò fu dovuto a due grandi avvenimenti rivoluzionari di matrice anglosassone: la rivoluzione industriale inglese e la rivoluzione democratica americana. Queste due rivoluzioni sono state indipendenti l’una dall’altra, e hanno anche riguardato ambiti molto diversi. Ma entrambe hanno prodotto un’irresistibile tendenza all’allargamento: della base produttiva la prima, e del consenso politico la seconda.
Fino al Settecento i sistemi politici, sia monarchici sia repubblicani, si erano fondati sulla chiusura, sulla conservazione delle gerarchie e della ricchezza, sull’esclusione dei non privilegiati. La svolta impressa dalle due rivoluzioni anglosassoni settecentesche, poi ripresa ed amplificata dalla Rivoluzione francese, fu dunque epocale. Anziché escludere e conservare, diventò necessario includere ed innovare, in un’espansione che per i due secoli a venire è sembrata senza confini, verso il raggiungimento di due obiettivi fondamentali: il progresso e la democrazia.
1. «Whigs» e «tories», «court» e «country».
L’Inghilterra era uno dei pochi paesi europei ad aver mantenuto la propria «assemblea di stati»: il Parlamento bicamerale, con una camera di privilegiati della grande aristocrazia e del clero, i «Lords», e una elettiva, i «Comuni». Nel Seicento, sul Parlamento e su tutta la società inglese si era abbattuta la tempesta della rivoluzione; ma il Parlamento aveva superato la prova, e anzi aveva rafforzato il proprio ruolo. Ormai non aveva piú soltanto la funzione arcaica di consentire le imposte e di discutere con il re gli indirizzi generali della politica; ma approvava in esclusiva le leggi: aveva dunque il monopolio del potere legislativo. Era ormai sovrano, a pari merito col monarca. Quella inglese era quasi una diarchia: del re e del Parlamento; si diceva, proprio per tenere unita la sorgente del potere, del re in Parlamento.
L’Inghilterra aveva attraversato, dopo la restaurazione del 1660, un periodo di ricostruzione della convivenza fra coloro che avevano fatto la rivoluzione e quelli che l’avevano osteggiata o ne erano stati vittime, e il Parlamento fu il luogo di questa ritrovata convivenza. Da allora si affermò come l’istituzione principale dell’equilibrio britannico: lo spazio in cui le opposte parti politiche furono costrette ad incontrarsi, e quindi a legittimarsi a vicenda. E cosí il Parlamento fece un passo in piú, oltre lo stesso potere legislativo recentemente conquistato: diventò l’arbitro del diritto di governare, il luogo dal quale si cominciò a controllare il potere esecutivo. Il centro della diarchia si spostò in direzione del Parlamento, là dove si determinava l’equilibrio politico fra le forze che gestivano il paese.
Due nomi: whigs e tories, designarono i partiti contrapposti. Furono i nomignoli dispregiativi usati, ciascuno dei due, dalla parte avversa. Tories erano gli insorti cattolici irlandesi, e indicavano quanti, secondo i loro avversari, inclinavano verso il «papismo» e l’assolutismo monarchico. Per chi difendeva i valori della rivoluzione – la libertà di coscienza, il dissenso religioso – il pericolo era rappresentato da quanti volevano riportare l’Inghilterra sotto il tallone dell’assolutismo filocattolico; erano nemici stranieri (irlandesi) ignoranti e rozzi: i tories, appunto. Whigs erano invece briganti scozzesi, cosí tenacemente attaccati alla tradizione tribale e presbiteriana, da non volerne sapere di integrarsi nella cultura anglicana. Per quelli che consideravano indispensabile riportare l’Inghilterra sotto l’ordine monarchico, il pericolo veniva da altri rozzi stranieri che seminavano la divisione e il disordine, scozzesi, in questo caso: i whigs. Ciascuno dei due termini denunciava dunque l’eccesso, la barbarie in cui la parte avversa rischiava di far cadere il paese agli occhi dei propri avversari politici.
Sarebbe del tutto anacronistico definire i tories di destra e i whigs di sinistra, e anche attribuire ai tories un’anima aristocratica e ai whigs una rappresentanza degli interessi borghesi. I termini «destra» e «sinistra» sarebbero nati un secolo piú tardi, con la Rivoluzione francese: la destra avrebbe difeso l’ordine, l’autorità, la gerarchia, la tradizione; la sinistra sarebbe stata invece fautrice del progresso, dell’uguaglianza, dell’allargamento della cittadinanza, di esperimenti nuovi per il futuro.
I tories e i whigs non erano ancora due parti politiche caratterizzate da questa contrapposizione passato/futuro, gerarchia/uguaglianza, ordine/sperimentazione. Erano due schieramenti politico-ideologici, due stratificazioni di fedeltà, clientele ed appartenenze, come ce n’erano altrove in Europa. È vero però che la ricchezza e la complessità ideale dei loro dibattiti erano senza confronto, e che il loro radicamento nella società permetteva loro, meglio che in qualunque altro paese, di esprimere esigenze e contrasti sociali. È vero ad esempio che la city di Londra, cioè il luogo degli interessi capitalisti, era prevalentemente di parte whig, e che la maggioranza degli ambienti che guardavano con nostalgia e rispetto alle gerarchie minacciate dalla rivoluzione era tory. Ma solo retrospettivamente si può osservare che una parte del pensiero whig sarebbe poi confluito nel patrimonio ideale della sinistra, e che nelle concezioni tory si trova una delle radici culturali della destra europea.
Dal punto di vista tory, solo il re, legittimo depositario della sovranità, rappresenta l’unità del paese e garantisce dalla tragedia della ribellione, della guerra civile. I sudditi gli devono obbedienza, e il Parlamento esiste per permettere ai loro rappresentanti di dialogare con il sovrano, non di governare al suo posto. Secondo la visione whig invece, il monarca può regnare soltanto a partire da un contratto stipulato con i sudditi, i quali concorrono dunque pienamente alla realizzazione dell’equilibrio e della pace fra le parti. Il Parlamento è il luogo in cui questo contratto è stato negoziato, si garantisce e viene fatto rispettare. Per i tories, il Parlamento è uno spazio di mediazione dei contrasti, ma il centro del paese è il re. Per i whigs, il re è a capo della nazione, ma il suo centro è il Parlamento.
Nella dialettica fra tories e whigs riemergeva un dibattito secolare europeo fra il punto di vista monarchico e quello repubblicano. Secondo il primo, un paese non si accorda, non si governa, non si riforma, se la responsabilità non si concentra su una linea successoria voluta da Dio. Dal punto di vista repubblicano invece, un paese esprime la propria armonia solo nel negoziato fra le parti, fra le élites naturali, fra le rappresentanze, le quali esprimono, eleggono, o almeno accordano il loro sostegno ad un capo. In Inghilterra la rivoluzione aveva arricchito e complicato questa contrapposizione ideologica. Nel partito whig confluivano le tendenze repubblicane, ma in generale tutti i «vecchi presbiteriani», cioè quelli che esigevano la libertà per i protestanti dissidenti, che non si riconoscevano nella Chiesa anglicana. Confluiva la protesta sociale che era emersa nella rivoluzione, ma anche la nuova aristocrazia, grande e piccola, con le sue clientele, che con la rivoluzione si era arricchita, insieme agli interessi mercantili urbani. Nel partito tory restava la nobiltà piú antica e tradizionalista, anch’essa con le sue clientele, e il grosso della Chiesa anglicana.
La crisi fondatrice della contrapposizione fra i due partiti avvenne nel 1680 sulla questione dell’esclusione di un principe cattolico dalla successione: prima Giacomo II (1633-1701, re dal 1685 al 1688), poi suo figlio Giacomo Edoardo (1688-1766). I whigs crebbero in questo scontro, riuscendo a tenere insieme parti molto diverse della società britannica, divennero la prima forza politica organizzata dell’Inghilterra, e furono loro alla fine a prevalere. Giacomo II, figlio di Carlo I e fratello di Carlo II, fu ammesso alla successione finché non ebbe un figlio maschio; poi, alla nascita di Giacomo Edoardo, battezzato cattolico, fu cacciato con la Gloriosa Rivoluzione del 1688. Cattolico voleva dire, per i whigs, filoassolutista e antinazionale: suddito del papa, alleato di Luigi XIV. Un re «papista» lasciava prevedere la fine della tolleranza per il dissenso protestante, e la fine della centralità del Parlamento. Per decenni, dopo la «Gloriosa», i whigs mantennero l’egemonia della politica inglese, sperimentando un originale modello misto fra monarchia e repubblica, che affascinò Montesquieu e Voltaire, e finí poi per creare il prototipo del costituzionalismo parlamentare che ha conquistato il mondo.
Prima della Gloriosa Rivoluzione, i tories erano naturalmente il partito della corte, il court party. I loro avversari whigs erano il country party, rappresentativo del paese, dell’aristocrazia provinciale, e per questo forte ai Comuni. La governabilità era «court», innovatrice, decisionista e fonte di corruzione. «Country» era l’opposizione whig, custode della morale e delle antiche libertà. Invece, con l’avvento al trono di Guglielmo d’Orange tutto cambiò, e intorno alla nuova casa reale si affollarono i vincitori whigs, ideologicamente piuttosto lontani dalla vita di corte, ma che dalla nuova situazione politica erano spinti ad assumere gli stili, le regole e la mentalità «court». Viceversa, i tories impararono ad andare fra la gente e ad interpretarne i risentimenti contro il nuovo monarca, assumendo un punto di vista d’opposizione, «country». Una maggioranza degli scontenti gentiluomini di campagna era ormai country tory; il clero anglicano – non i vescovi nominati dal governo, quindi whigs, court whigs, ma il basso clero, i pastori delle parrocchie – era depositario dell’ideologia tory, ma anche una nuova espressione del punto di vista country.
Il panorama politico si confuse e si arricchí. Il grande partito whig divenne una confederazione di interessi diversi, court e country. L’opposizione tory, relegata in un ruolo country, riteneva però che non i partiti corrotti, ma solo il re, «un re patriota» potesse rappresentare gli interessi del paese. Guglielmo d’Orange aveva ricevuto il trono inglese dai whigs. Ma personalmente (tranne che in campo religioso, poiché era calvinista anziché cattolico) non era poi cosí lontano dalle idee di Giacomo II, che era suo zio (fratello di sua madre) e suocero. Nel suo paese, l’Olanda, era un principe quasi regnante; però di una repubblica, la quale, nella sua parte mercantile e patrizia urbana, aveva avversato la sua famiglia d’Orange, portatrice di tendenze monarchiche. Guglielmo si circondava della parte court dello schieramento whig, o di quei tories che non indulgevano troppo a velleità country. Dopo la sua morte, gli successe sua cognata Anna, un’altra figlia di Giacomo II, la quale finí per governare coi tories.
La regina Anna ebbe diciassette figli, che però morirono tutti da piccoli, cosa allora non infrequente, neppure negli ambienti sociali piú privilegiati; e il Parlamento decise che la corona andasse ad un principe protestante tedesco, Giorgio I (1660, 1714-27), elettore di Hannover, marito di una nipote di Giacomo II, e non al cattolico Giacomo Edoardo, il bambino che era nato nel 1688 e aveva causato l’allontanamento del padre Giacomo II. Giorgio I aveva piú di cinquant’anni e non sapeva una parola di inglese. Suo figlio Giorgio II (1683, 1727-60) era arrivato in Inghilterra a trent’anni, e rimase un principe tedesco. Per quasi mezzo secolo dunque il re fu una presenza assente, e la politica inglese rimase nelle mani del partito whig, ormai solidamente di governo, e di corte. Il principe Giacomo Edoardo Stuart, in esilio a Parigi e dai francesi riconosciuto come legittimo re d’Inghilterra, godeva di appoggi in patria da parte dei tories oltranzisti, che furono chiamati «giacobiti». Tentò senza successo uno sbarco in Scozia nel 1715. Anche suo figlio Carlo Edoardo «il giovane pretendente» tentò uno sbarco in Scozia, nel 1745.
Ovviamente, le cospirazioni giacobite screditarono ulteriormente i tories, confinandoli in un ruolo country, lontano dal potere. E i whigs, diretti dal primo ministro Robert Walpole (1676-1745), diventarono incontrastati arbitri di un regime court, una confederazione di clientele aristocratiche e di interessi mercantili, una grande macchina corrotta, che fece rapidamente sbollire gli entusiasmi filobritannici dell’Illuminismo europeo, e per contrasto rilanciò il prestigio dell’altro grande modello di governo settecentesco: il dispotismo riformatore, che guardava alla Prussia o all’Austria, e perfino alla Russia.
2. Il sistema politico britannico e la «gentry». La «rappresentanza virtuale».
Su due aspetti fondamentali, il sistema istituzionale inglese evolveva in un senso molto diverso da quello degli altri paesi europei: introduceva il governo di un primo ministro espresso dalla maggioranza parlamentare, e manteneva nelle mani dell’aristocrazia il controllo periferico, anziché affidarlo ad una burocrazia statale, professionista e stipendiata. La grande innovazione era nel sistema politico centrale, al vertice; mentre alla base si lasciava che la società fosse governata dai suoi signori tradizionali, aristocratici e proprietari terrieri. In tutto il resto dell’Europa si partiva dalla legittimità di diritto divino per innovare e razionalizzare i meccanismi periferici delle tasse, della giustizia, dell’istruzione, dell’amministrazione, mirando alla costruzione della felicità pubblica. In Inghilterra invece si partiva dalle libertà politiche della classe dirigente, per lasciare che le gerarchie sociali amministrassero e giudicassero come meglio credevano. Altrove si conservava il sistema politico per migliorare la società, a Londra si migliorava il sistema politico per conservare la società.
L’idea fondamentale whig era che la libertà è una prerogativa inglese, antica e consolidata, un’espressione naturale dei rapporti sociali; perciò deve essere conservata, contro le tendenze assolutiste e dispotiche, estranee alla tradizione britannica, ma sempre in agguato. I tories erano piú pessimisti: pensavano che la libertà da sola non produca né giustizia né armonia, ma prepotenza dei forti, delle volpi lasciate libere nel pollaio. Preferivano nettamente correre il rischio di un arbitrio monarchico.
Il regime whig era fortemente oligarchico. Una settantina di famiglie governavano il paese. I capifamiglia sedevano ai Lords, mentre i cadetti erano eletti ai Comuni e ne controllavano la maggioranza. Il governo prese la forma del «consiglio di ministri», presieduto da un «premier» che aveva la fiducia del Parlamento, era cioè espressione dell’oligarchia whig. I ministri avevano tutti un seggio ai Comuni, con i quali stabilivano un forte grado di intimità. Per tutto il ventennio in cui fu primo ministro, Walpole rifiutò di passare fra i Lords, la Camera alta, ereditaria, priva di contatti col paese. Quando invece accettò il seggio di conte di Oxford, smise di fare il primo ministro. I governanti whig sapevano che la loro forza profonda non era nella corte e nella Camera alta, ma nel paese che li eleggeva: erano un’oligarchia fondata sul consenso, sul radicamento country. Whigs e tories su questo punto si assomigliavano, condividevano questa regola, che era ormai la base del sistema politico britannico: l’aristocrazia non ha altra legittimazione a governare, se non il controllo che riesce ad esercitare sul paese.
L’oligarchia manipolava ampiamente le elezioni, facendo largo uso della corruzione. Inoltre le circoscrizioni elettorali erano state tracciate due secoli addietro, e alcuni centri erano decaduti e svuotati di popolazione, «imputriditi»: erano detti rotten boroughs. Capitava che un deputato fosse eletto con pochissimi, perfino con un solo voto. Le clientele dominavano totalmente l’elettorato, e il signore di un «borgo imputridito», o anche di una qualunque sonnolenta cittadina di campagna, aveva la certezza di manipolare il consenso e di far eleggere il suo candidato ai Comuni.
Comunque queste regole con cui l’oligarchia si manteneva al potere non vennero violate; e quando il nuovo re chiamò al governo i tories, e questi riuscirono a trovarsi una maggioranza parlamentare, i whigs andarono all’opposizione, dopo quasi cinquant’anni di potere incontrastato. E non vi furono colpi di stato come in Svezia, né «confederazioni» polacche (vedi cap. VIII, § 6. Trasformazioni nell’Europa del Nord. L’ascesa della Russia), né appelli allo straniero, né congiure. Gli oligarchi andavano a chiedere i voti della gente comune ogni sette anni, e si inchinavano, non solo formalmente, alla volontà degli elettori, che erano manipolati, corrotti e comprati, ma pur sempre sovrani. Quando i tories, con l’appoggio del re, divennero piú bravi ad interpretare l’anima country, e la loro battaglia contro la corruzione whig persuase gli elettori, i whigs persero la maggioranza ai Comuni, e quindi il governo. Da allora la lotta politica fu per la riforma elettorale, per la revisione delle circoscrizioni e l’eliminazione dei collegi elettorali nei borghi imputriditi, cosa che si raggiunse solo nel 1832.
Non c’era piú in Inghilterra equilibrio di poteri fra legislativo ed esecutivo, poiché la sovranità completa era ormai della Camera dei Comuni, cioè dell’oligarchia che la sapeva controllare. Benché i tories invocassero il ritorno di un monarca sulla scena politica, i re della casa di Hannover – sia Giorgio I sia Giorgio II – si erano lasciati in sostanza esautorare, e per mezzo secolo furono pressoché assenti. La componente court della politica inglese si era dunque indebolita fino a farsi sommergere dall’elemento country. Dall’opposizione, i tories avrebbero voluto ripristinare la separazione fra i due massimi poteri, e denunciavano la corruzione indotta dai partiti, che da grandi e nobili raggruppamenti animati da profonde motivazioni religiose si erano trasformati in macchine corrotte e corruttrici. Assumevano una posizione antipolitica, se la politica è contrattazione e mediazione fra interessi e appartenenze, anziché puro esercizio dell’autorità e della forza, e invocavano un potere alto e pulito, che limitasse la capacità pervasiva dell’aristocrazia whig.
Questo potere di controllo, che i tories invocavano dal re, veniva invece dal basso e dalla periferia, dalla radice country del sistema istituzionale. In periferia il potere, sia giudiziario che di governo, era nelle mani della nobiltà provinciale proprietaria terriera: quella stessa che poi manipolava le elezioni, e che a sua volta era subordinata alle grandi famiglie, le quali dominavano il Parlamento. Ma l’aristocrazia provinciale non era asservita, e aveva un alto concetto del proprio ruolo.
La rivoluzione del Seicento aveva smantellato la burocrazia statale, che dovunque in Europa si andava invece rafforzando. In Inghilterra non c’erano funzionari, di nessuno dei due tipi correnti di là dalla Manica: né proprietari della loro carica, né nominati dal governo centrale e stipendiati; e lo Stato non si andava costruendo come una macchina impersonale e finalizzata all’efficiente amministrazione, come in Prussia e altrove. La figura centrale in provincia era il «giudice di pace»: un gentiluomo che assumeva gratuitamente la funzione di rendere giustizia al primo livello, di mantenere l’ordine pubblico, di raccogliere le imposte, di garantire il reclutamento, controllare i prezzi e assicurare il buon andamento dell’assistenza ai bisognosi.
Il giudice di pace non si riteneva un servitore dello Stato, ma della legge, il che cambia totalmente il punto di vista. La legge inglese mantiene un impianto consuetudinario: è la volontà legislatrice del Parlamento, interpretata ed applicata dalla magistratura, le cui sentenze entrano a far parte del diritto. Il giudice di pace aveva quindi un alto grado di autonomia nell’interpretare e proteggere le tradizioni locali. Poteva pronunciarsi contro il governo, a difesa degli interessi particolari. Il controllo reciproco e l’equili...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Storia moderna e contemporanea. II. Dalla rivoluzione inglese alla Rivoluzione francese.
  3. Storia moderna e contemporanea II. Dalla Rivoluzione inglese alla Rivoluzione francese
  4. I. Le rivoluzioni inglesi del Seicento
  5. II. La Francia del Seicento: il trionfo dello Stato assoluto
  6. III. L’Italia del Seicento
  7. IV. I confini dell’Europa
  8. V. L’Europa fuori d’Europa. Il mondo delle colonie
  9. VI. Scienza e cultura. Nuovi orizzonti
  10. VII. L’Europa d’Antico Regime
  11. VIII. Le guerre del Settecento. La politica e lo sviluppo economico
  12. IX. L’apogeo dell’assolutismo. L’Illuminismo e le riforme
  13. X. L’Inghilterra e l’industria. L’America e la sfida rivoluzionaria
  14. XI. La Rivoluzione francese
  15. XII. L’Europa fra controrivoluzione e lotta per la libertà
  16. XIII. L’Impero napoleonico
  17. Appendice
  18. Bibliografia
  19. Elenco dei nomi
  20. Il libro
  21. L’autore
  22. Dello stesso autore
  23. Copyright