Cosa pensano le ragazze
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Cosa pensano le ragazze

  1. 144 pagine
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Cosa pensano le ragazze

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Una mappa per decifrare le ragazzedel nostro tempo, un amuleto per non perdersi, un antidoto alla paura.«Ho parlato per due anni con mille donne, da sei a novantaseianni. Soprattutto adolescenti, giovani donne. Ho posto a tuttele stesse domande: cosa sia importante nella vita, come ottenerlo, come fare quando quel che si aspetta non arriva. Nelle risposteil tema centrale è sempre l'amore. L'amore e il sesso, l'amoree il desiderio, il tradimento, la famiglia, l'impegno, il corpo, l'amoree i soldi. Una sinfonia di voci raccolte davvero, ascoltate davvero: occhi visti con gli occhi, risate e lacrime, confessioni e segreti.Un'orchestra di strumenti diversi, una sola musica.Da questo coro di parole sono nate le mie storie: prendonooccasione dalla realtà ma si aprono alla libertà di immaginare, da un frammento di verità, vite e mondi».
Concita De Gregorio - Quando lui dice ciao tu allunghi la mano
e gli spegni il motore.
- Io spengo il motore della sua macchina?
- Certo. Se non lo fa lui lo fai tu.
- E se ha la marcia ingranata?
- Ma che c'entra. Non siete mica a scuolaguida.
- E dopo?
- Dopo te l'ho già detto. Ripeto?

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
ISBN
9788858423288

Parte terza

Regina

Una mattina di maggio di quaranta, forse cinquanta anni fa la scolaresca di Monte Compatri in gita a Venezia sbarcò dal vaporetto al Lido dopo un viaggio lungo un giorno e facendo molto piú chiasso di quello che i professori pensavano di poter tollerare, camminò in eccitata fila per due fino al meublé Regina, che di tutte le pensioni era risultata l’unica che potessero permettersi. Era un edificio in parte chiuso, con le persiane pericolanti sigillate, un’ala ancora praticabile e un piccolo giardino incolto tutto attorno. Le stanze erano immense e Vanna fu accompagnata in una camera grande come la casa dove, in paese, abitava. Era al secondo piano, aveva una finestra piú alta di lei che guardava sul mare. Si vedevano le tamerici, la spiaggia deserta, tutta quell’acqua senza fine. Faceva freddo. Vanna pensò che fosse un castello, il piú bello che si potesse immaginare e disse a sé stessa che se avesse avuto una figlia l’avrebbe chiamata cosí. Regina.
Passarono gli anni. Il sesto figlio di Vanna fu un altro maschio. Tre mesi dopo era di nuovo incinta. Esausta, accolse le felicitazioni della suocera e delle vicine con una determinazione sconosciuta. Faccio una femmina, questa volta – disse subito. Regina nacque di maggio.
– Io voglio giocare a rugby.
– Cos’è rugby.
– È un gioco che mi piace. È come il calcio ma con la palla lunga.
– A calcio giocano i maschi.
– Chi l’ha detto? Comunque non è calcio, è diverso.
– Hai detto tu: come il calcio.
– Era per dire, mi sono sbagliata. È molto diverso.
– Va bene per le femmine?
– Sí mamma. Ci vado da sola, non mi devi accompagnare. Costa poco. Ti prego.
– Regina, tanto alla fine fai sempre come vuoi tu. Parlane con tuo padre.
– No mamma. Ne parlo con te. A papà che gliene importa. Vado lunedí, dopo la scuola. Servono venti euro per iscriversi.
– Sono tanti, venti euro.
– Li scali dalla paghetta per due mesi.
A scuola i ragazzi dicevano Regina somiglia a Timon, l’animaletto del Re Leone. Quello che ride sempre, quello con gli occhi grandi, quello che canta Hakuna Matata. Senza pensieri, la tua vita sarà. Che animale è Timon? Suricata, ha detto la prof. Una specie di topo gigante che sta in piedi. Regina sembra un topo, Regina sembra un topo. Ma lo sai che Regina gioca a rugby? Che roba è? Dài, rugby, una cosa da maschi. E poi lo sai che va a portare da mangiare ai barboni della chiesa e si mette lí a parlare con loro? L’ho vista, ci va la domenica mattina presto. È matta. Regina è matta.
Regina cresceva bellissima, estranea, solitaria. La piú brava a scuola, sempre vestita coi vestiti dei fratelli. Mai un suo paio di scarpe, mai un trucco. Capelli lunghi, neri e lucidi, gli occhi piú grandi della faccia, il viso bianco, la bocca rosa. Una principessa.
– Mamma, io vado a vivere a Roma.
– Ma che dici?
– Voglio studiare Lingue orientali.
– Che lingue? Lingue di cosa?
– Orientali. Ho trovato un lavoro, mamma. Una ragazza che mi ospita. Io vado.
– Parlane con tuo padre, non capisco cosa dici.
– Non importa mamma. Ho diciotto anni, mi sono diplomata. Qui al paese non resto. Io vado. Con papà ci parli tu.
Assistenza domiciliare. Perfetto. Un lavoro perfetto. Cosa devo fare? Stare con loro, sentire cosa serve. Benissimo. Allora cominci mercoledí. C’è una bambina, Anna, che non parla. Vai tre volte a settimana e le fai compagnia. Ci giochi. Benissimo, vado.
«Anna era una bambina autistica. Al principio non sapevo cosa fare, cosa dirle, dove mettere le mani. Poi piano piano mi sono messa a guardarla, ad ascoltarla. Non devi avere fretta, devi essere pronta all’insuccesso. Un passo avanti, due passi indietro. Però sono belle le cose semplici. Correre, fare le bolle di sapone. Siamo diventate molto amiche. Quando rideva mi sentivo cosí felice. La gioia pura. Abbiamo fatto milioni di bolle di sapone. Ho lasciato Lingue orientali, ho deciso che volevo capire Anna. Stava in un mondo persino piú affascinante e solitario del mio. Mi sono messa a studiare per fare l’operatrice sanitaria. Qualsiasi cosa, avrei studiato, per restare con Anna».
Passò altro tempo. Regina era terza linea della nazionale di Rugby, operatrice sanitaria, Anna la sua migliore amica. In autobus, tornando a casa una sera, conobbe Marco. Sei la ragazza piú bella che abbia mai visto. Smettila, non dire scemenze. Ti porto a mangiare una pizza. Smettila, non ti conosco.
A gennaio nacque Pietro. A dicembre dello stesso anno Brando. Due figli in un anno solo.
«Un tunnel. Ero disperata. Volevo partire per l’Africa, mi avevano scelta per una missione che avevo desiderato tantissimo. Ci sarei andata anche con un figlio di sei mesi, ma poi non ci potevo credere: il secondo, subito. Un po’ l’ho odiata, quest’altra gravidanza. Non la volevo. Poi però ora che hanno cinque e quattro anni penso ma che donna sarei senza di loro? Davvero, sono la meraviglia del cielo. Si picchiano tutto il giorno, io li guardo e rido. Urlo, certo, anche. Ma soprattutto rido. Quando Brando aveva tre mesi sono tornata in campo, una partita di campionato. Mi sono rotta il crociato. Non te lo posso raccontare cos’è stato stare ingessata con un figlio di tre mesi e uno di un anno. Non ci sono le parole. Mi sono messa un brillantino nel naso, in quelle settimane. Ho cominciato a studiare swahili, perché prima o poi in Africa ci vado. Ora va meglio. Ora sono grandi».
– Regina è la piú brava di tutti, al lavoro, mi hanno detto.
– Ma cosa fa, esattamente?
– Sta coi bambini infelici.
– Cosa ci fa tua figlia coi bambini infelici? Ne ha già due suoi, sani. Che bisogno ha?
– È anche tua figlia, non solo mia figlia.
– Vabbè, tanto sapete tutto voi. Cose di donne, roba vostra. Lasciami in pace, che sono stanco.
«Una sera ho sognato mia nonna. Se potessi riportare in vita una persona vorrei indietro lei. Vorrei mangiare la pizza al taglio sul divano del soggiorno con la tv accesa, e parlare di cose cosí. Qualsiasi. No non è un pensiero triste. È un pensiero bello. Io non sono mai davvero proprio triste. A momenti, ma mi passa. Mi piace la vita, tutta, proprio cosí com’è».
L’estate scorsa i bambini erano insieme al campo scuola e Regina pensò guarda: due settimane libere. Cosa potrei fare, d’agosto? Marco le disse ti porto a Venezia, cerchiamo una pensione che costa poco e andiamo a vedere la città sull’acqua. No dài ti prego, Venezia no, andiamo in montagna. Sai cosa mi piacerebbe davvero? Imparare ad arrampicare. Andiamo a scalare, insieme? Con le corde, i chiodi. Non sarebbe fantastico?
«Sai cosa mi è successo? Quando ti insegnano ad arrampicare ti dicono subito che ci sono cose pericolosissime, che non devi fare assolutamente. E io per tutto il tempo pensavo: e se le faccio? E se invece decido di fare proprio quelle? Non te lo so spiegare è strano. Mi immaginavo di precipitare, e avevo paura. Ma non paura di cadere: paura di desiderarlo. Paura di perdere il controllo, di decidere di fare una cosa proibita che mi avrebbe fatto cadere. Era affascinante e fortissima, quella possibilità. Pericolosa da morire. C’è stato un momento che proprio ero in trance. Guardavo giú, uno spettacolo. Poi Marco mi ha chiamata. Urlava. Regina Regina Regina. Tre volte. Non lo so. Detto cosí sembra inspiegabile. Ma dopo la nascita dei figli, insieme a quello, è stato il momento piú bello piú vero e piú forte della vita».
– Dov’è tua figlia, in montagna? A fare cosa?
– Non lo so, parlaci tu. Chiamala.
– E i bambini? Con chi ha lasciato i bambini?
– Sono al centro estivo.
– Che roba è?
– Non lo so, una vacanza di città. Parlaci tu, ti ho detto.
– Io non ci parlo. È tempo perso. Siete matte. Affari vostri. C’è un guasto, nella testa delle donne.

Antigone

Agnese, se tu potessi passare una serata con una persona a tua scelta – anche se non la conosci, anche se è morta – chi sceglieresti?
– Antigone.
Antigone? Come mai?
– La vorrei guardare negli occhi e chiederle dove ha trovato il coraggio.
Dove la porteresti?
– Al parco, noi due da sole. Sedute sotto un albero a parlare. Le farei raccontare tutta la storia. Poi le farei delle domande, ma solo alla fine.
Le hai già pensate, le domande?
– Sí. Vorrei sapere come ha fatto a non aver paura del giudizio della gente, delle autorità, dei parenti, del re. Come ha fatto a fregarsene di tutti e fare la cosa giusta. Vorrei anche sapere come ha fatto a sapere con certezza che quella era la cosa giusta. Come te ne accorgi, da sola.
Questo. Come si fa a non avere paura quando prendi una decisione cosí.
E se ti dicesse che ha avuto paura?
– Infatti. Ma la sua ragione era un po’ come una forza inevitabile. Sai chi mi ricorda?
Chi?
– Ilaria Cucchi, hai presente?
Ho presente.
– Il fratello, la polizia, la gente intorno che giudica. La legge. Non è proprio la stessa storia. Ma simile, no? Come certi la prendono in giro, per esempio. Io penso che anche Antigone devono tanto averla presa in giro, derisa. Devono averle detto ma chi te lo fa fare, ma lascia perdere, non ti conviene. Queste cose qui.

Un elefante

Ogni giorno in quel lontano e caldo mese di luglio la vecchia Zaynab svegliava sua nipote molto presto, prima delle sette, le serviva una tazza di latte sul tavolo di legno della grande cucina vuota, le diceva prendi la stuoia, Tasnim, e cosí, con sua nipote di cinque anni per mano, la stuoia a righe logora e pulita – la lavava ogni sera con un pezzo di sapone e la stendeva ad asciugare al filo teso fra l’orto e la casa – camminava per quasi un’ora lungo un sentiero stretto, attraversato da lucertole fulminee, fino al lago. La bambina è molto pallida, non cresce, mamma – le aveva detto sua figlia al principio dell’estate. È meglio che sia con te al campo, le uova da te sono piú grandi e l’aria piú pulita. Puoi tenerla? Zaynab, che viveva da sola, disse certo, portala e lasciala. Tasnim non parlava quasi mai, né sua nonna del resto. La vecchia faceva, la bambina guardava.
Al lago di Tabariyya, ogni mattina alle otto, la vecchia si toglieva il vestito scuro e restava con una tunica di tela cruda tesa all’altezza del ventre. Cosí entrava in acqua e nuotava. Con larghi gesti a semicerchio delle braccia si allontanava fino al largo, Tasnim aveva sempre paura che non riuscisse a tornare, ma – al suo ritorno – taceva. Aveva vergogna della sua paura. Le porgeva la stuoia, la guardava asciugarsi con gesti bruschi e rapidi, rimettersi il vestito nero. Insieme, in silenzio, tornavano a casa. Il sentiero in salita era piú faticoso, l’aria a quell’ora piú calda. Una mattina, quando la nonna tornò a riva, le disse: mi insegni a nuotare, baba? Non ancora, è presto. Sei troppo debole. Quando avrai mangiato abbastanza e avrai la forza ti insegnerò. Intanto guarda.
L’estate dopo Tasnim non tornò dalla nonna. Sua madre decise che avrebbe viaggiato con suo padre, piuttosto. La vecchia e la bambina non si rividero piú.
Passarono molti anni. Ci fu la guerra, ci furono i morti, le case furono bombardate e distrutte.
Passarono altri anni e Tasnim, a venti, si innamorò e seguí in Sicilia, a Trapani, quel ragazzo bruno che aveva conosciuto un giorno per strada con una macchina fotografica al collo, la sera le aveva detto faccio il fotografo di guerra, tre giorni dopo avevano fatto l’amore, un mese dopo lui doveva ripartire e le aveva detto vieni. Dài, vieni a vivere con me. Ti porto in un’isola bellissima.
«No io non somiglio a mia mamma. Somiglio a mia nonna. La mia famiglia mi dice cosí. Che sono uguale a mia nonna. Di lei ricordo meno di quello che vorrei. Che era bella, grassa. Che ballava per strada nelle feste e per me era incredibile vedere mia nonna, vecchia, che ballava per strada. Ho imparato da lei la dabke, la nostra danza. La sera tornavo a casa e provavo da sola, in camera, a rifare i gesti che le avevo visto fare nella musica. E poi mi ricordo che mi portava al lago di Tiberiade, sai quello dove Cristo ha camminato sull’acqua?, e lei cosí vecchia, con una pancia cosí grande, nuotava troppo bene, andava lontanissima».
– Mamma sei tu? Non sento bene. Pronto mamma.
– Tasnim, mi senti?
– Non ti sento, mamma. Dimmi come stai.
– Bene, non preoccuparti. Qui stiamo tutti bene.
– E la zia come sta?
– …
– La zia? Come sta?
– Non so, Tasnim, sai che è al campo e non si può parlare con lei. Ma dimmi di te, invece. Come stai tu, com’è l’Italia, sei felice?
«Che domanda, cosa mi rende felice. Tante cose. L’odore del caffè la mattina. Il suono dei tamburi lontani. Quando parlo con mia mamma e lei mi fa gli scherzi al telefono per farmi ridere. Alessio che costruisce una panca in giardino. Quando ballo da sola».
Un giorno a Trapani certi amici le hanno detto sei bellissima, ma proprio bellissima. Vuoi fare un film? Tasnim ha fatto un film. Poi è tornata a curare i limoni nella casa della campagna di Trapani. È lei che la notte se ci sono rumori si alza. È lei che se bisogna calarsi nel pozzo a ripescare qualcosa, scende. Tasnim è invincibile, non ha paura di niente – dicono i ragazzi con l’accento siciliano e la birra in mano. Che fortuna, essere come Tasnim. Essere fidanzati con Tasnim. Avere Tasnim, dicono al suo ragazzo, Alessio. Lui le sussurra all’orecchio qualcosa in arabo – sono io a essere fortunato, sei tu che hai me – lei gli sorride, gli altri non capiscono.
«Io non ho paura di niente. Dopo che hai visto la morte niente ti fa piú paura. Ho vergogna. Di essere qui mentre mia zia è sotto l’assedio, o in una tenda di un campo profughi senza acqua né cibo, né occhi di persone che la amano. Vorrei mia madre con me. Mia madre si chiama Hala, che in arabo è il cerchio che circonda la luna di notte. Lei è cosí, un cerchio di luce. Vorrei mio padre, che da bambina mi leggeva il Corano per addormentarmi. Non c’è piú da tanto tempo. Vorrei il mio amico piú caro, porto la sua lettera nel portafogli sempre, è una lettera che mi protegge. C’è scritto sto arrivando, vengo in Italia da te. Di lui mi è rimasta solo la sua lettera. È tutto distrutto, dove sono nata. Non c’è piú niente, solo dolore. Però non bisogna pensare troppo al dolore. Cullarlo come un bambino a volte sí, ma anche poi lasciarlo dormire nella culla. C’è Alessio, che amo. Voglio avere tanti figli con lui. Voglio una casa circondata di ulivi, di aloe vera, di limoni. Voglio che i nostri amici vengano ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Cosa pensano le ragazze
  3. Parte prima
  4. Parte seconda
  5. Parte terza
  6. Parte quarta
  7. Parte quinta
  8. Nota al testo
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright