Storia moderna e contemporanea. I. Dalla peste nera alla guerra dei Trent'anni
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Storia moderna e contemporanea. I. Dalla peste nera alla guerra dei Trent'anni

  1. 520 pagine
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Storia moderna e contemporanea. I. Dalla peste nera alla guerra dei Trent'anni

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Nel Trecento una grande crisi mise in forse la sopravvivenza della società europea: la Peste-Nera ne fu il volto piú terribile. Ma si trattò di un processo che coinvolse poteri e istituzioni, assetti sociali e culturali. Ne uscirono trasformate le forme del potere, con lo scontro fra la radicata realtà della Chiesa cristiana e la nuova presenza dello Stato. I conflitti interni di potere e di cultura raggiunsero una portata devastante con le guerre di religione e le lotte per il predominio europeo, mentre ai confini si faceva incalzante l'avanzata dell'Impero ottomano. E tuttavia, proprio mentre l'Europa viveva lacerazioni e conflitti estremi, dal suo interno veniva avviato il processo di unificazione delle culture umane. D'altra parte, lo scatenarsi dell'intolleranza non fermava la scoperta dei diritti della coscienza individuale, e la riaffermata centralità dei valori religiosi non impediva la nascita della scienza moderna.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858421918
Argomento
Storia

Capitolo quinto

Riforma e riforme del cristianesimo e della Chiesa

I. DALLO SCISMA ALLA DIETA DI WORMS.
La religione cristiana doveva essere riformata? e che cosa significava «riformare»? si trattava di cambiare il modo di vivere – la morale, il comportamento concreto – o il modo di pensare, le idee, le nozioni astratte, le dottrine? e, per cambiamento, si intendeva l’introduzione di novità o il ritorno a forme antiche che erano state abbandonate o alterate nel corso del tempo? Per piú di due secoli – dal 1417 al 1648 – il mondo europeo fu percorso da discussioni, polemiche, vere e proprie guerre che ebbero la loro causa nella questione della «riforma» della religione. Il cristianesimo è una religione storica, con un fondatore e una Chiesa originaria o «primitiva» che, per essere stata governata dagli apostoli e per le condizioni di povertà e di esemplarità dei suoi membri, ha costituito un modello costante per le epoche successive: per questo, si può dire che la «riforma» in quanto desiderio o progetto di tornare alla «forma» originaria considerata come perfetta è una costante della sua storia. Ma c’è un’epoca specifica in cui la forza di quel modello e i modi in cui fu interpretato trasformarono profondamente la struttura del cristianesimo europeo, tanto che l’epoca intera va sotto il nome della Riforma. Quest’epoca comincia con l’evento «grande scisma», che vede un papato diviso fra piú pretendenti in un’Europa che rimane unita dal punto di vista ecclesiastico e religioso, e termina con un’Europa divisa tra piú chiese e sette cristiane, mentre il papato conferma e rafforza la sua autorità sulla Chiesa che gli è rimasta obbediente. Dunque, all’inizio di questo processo l’Europa è unita e al termine è profondamente divisa.
Per oltre un secolo, la cultura e la vita religiosa europea sono percorse dall’appello alla «riforma». Una crisi di fiducia attraversa il rapporto fra la società e il corpo ecclesiastico nel suo insieme. La crescita economica e demografica, l’espansione urbana, le nuove dimensioni della ricchezza e del piacere di vivere dell’affluente società cittadina scatenano movimenti pauperistici, di smarrimento e di critica. Dopo che una serie di movimenti pauperistici e di penitenza avevano già reso familiari gli annunci di prossime, terribili punizioni divine al mondo immerso nei piaceri della vita e dimentico dei «novissimi» – la morte, il giudizio di Dio, l’inferno –, ecco che, terrificante e improvvisa, si scatenò la spaventosa peste nera del 1348. Come abbiamo visto, si trattò di una terribile mazzata. Ondate successive di epidemia e di carestia fecero regredire le città, aumentarono la turbolenza delle campagne, l’insicurezza dei traffici, i toni aspri della vita. Ma per chi viveva il sogno beato di una bella vita terrena e di un progresso senza limiti nelle bellissime città medievali, la scossa fu terribile. La meditazione angosciosa della presenza della morte come limite delle opere umane si avverte anche nell’ansia rinnovata con cui si pose il problema di un ritorno alla purezza perduta del cristianesimo primitivo. Questo fu il senso generalmente condiviso dell’idea stessa della «riforma»: nella concezione cristiana della storia, il momento iniziale, apostolico, della Chiesa appariva come quello perfetto: su quell’inizio, il tempo e la malizia umana avevano poi insinuato deviazioni dalla «forma» originaria – delle deformazioni. Sul tronco di una pianta nata dal sacrificio di Gesú, erano cresciuti polloni devianti, che bisognava tagliar via: questo era il «riformare», un tornare alla forma originaria. Con lo sguardo rivolto al passato, la società cristiana medievale si muoveva verso il futuro. Le immagini della vita vegetale, col suo ciclo stagionale di morte e di vita, suggerivano intanto un termine analogo per connotare un fenomeno culturale complesso: il «Rinascimento», cioè il ritorno in vita dei modelli dell’arte classica. Si deve tener conto di questo nuovo fattore di complicazione dell’universo culturale e religioso dell’età della Riforma: la rinascita del paganesimo antico, la rinnovata circolazione di modelli di vita e di pensiero che prescindevano dalla tradizione cristiana.
1. I problemi del papato e delle istituzioni ecclesiastiche. Da Bonifacio VIII alla disputa sulle indulgenze.
La crisi del papato ha un momento di grande drammaticità nella fine traumatica del pontificato di Bonifacio VIII, papa della famiglia romana dei Caetani, successore di Celestino V e deciso rappresentante di un’ambiziosa concezione del potere pontificio come potere supremo in terra quale era stata proposta dai papi Gregorio VII e Innocenzo III, autori di una vera e propria «rivoluzione papale». Dopo di lui, le ragioni della forza si fanno evidenti nella subordinazione del papato alla monarchia francese. Il potere politico chiama all’obbedienza il corpo ecclesiastico: ma, se non era riuscita l’affermazione dell’autorità imperiale sul papato durante la lotta per le investiture, non ebbe miglior successo nemmeno il tentativo francese che si concluse con lo scisma tra diversi pontefici e diverse istituzioni ecclesiastiche. La situazione apparve cosí grave e cosí intollerabile che le supreme autorità politiche – l’impero in primo luogo – dovettero assumersi il compito di convocare un concilio per risolvere il problema di fondare una legittima autorità nella Chiesa. Nei concili di Costanza prima (1414-1417) e poi di Basilea (1430), continuando a Ferrara e a Firenze, fu l’autorità del concilio a offrirsi come quella suprema, superiore al papato e agli episcopati nazionali. La costituzione formale della Chiesa cristiana d’Occidente fu modificata: il decreto Sacrosancta del concilio di Costanza riconobbe nel concilio l’autorità suprema della Chiesa. Un altro decreto (Frequens) stabilí che il concilio venisse convocato da lí in poi a scadenze regolari e che nel concilio si regolassero le questioni fondamentali. Era la nascita del «conciliarismo», una dottrina che fu sempre avversata dal papato. Ma le cose andarono diversamente. Il papato, che aveva perso ogni autorità morale infeudandosi a protettori potenti, trovò un’inattesa capacità di ripresa grazie a due condizioni: a) la restaurata sovranità su di un territorio dell’Italia centrale – lo Stato della Chiesa – reso potente dalla frammentazione politica della penisola; e soprattutto b) l’instaurazione di un rapporto diretto di scambio con le monarchie nazionali europee grazie alla «politica dei concordati». Il concordato è un patto speciale, nel quale le due parti rinunciano ad alcune pretese per accordarsi su di un compromesso accolto e ritenuto soddisfacente. Nel caso specifico, i concordati operarono uno scambio di favori tra un papato bisognoso di appoggio politico e casate regnanti affamate di denaro e di posti per legare a sé le élites sociali dei loro stati. Il papa, al quale la dottrina canonistica elaborata da giuristi di obbedienza romana assegnava il diritto di disporre dei benefici ecclesiastici in tutta la cristianità, rinunciava a parte dei suoi diritti a favore del re di Francia o di quello d’Inghilterra o del duca di Savoia o del duca di Milano; in cambio, duchi e re si legavano politicamente al papa e ne riconoscevano la supremazia sull’intera Chiesa. La fame di denaro che caratterizza i nascenti poteri centrali delle grandi monarchie europee è all’origine del tentativo di appropriarsi delle rendite e dei beni del clero.
Fu un processo di grande importanza per l’assetto futuro dell’Europa: le grandi famiglie feudali e i sovrani degli stati europei, ma anche le famiglie mercantili in crescita di potere nelle città italiane e fiamminghe, chiedono e ottengono di disporre di benefici ecclesiastici a favore di parenti e alleati. E questo potere viene loro riconosciuto in cambio dell’appoggio e del riconoscimento della suprema autorità papale sulla Chiesa. Nei regni di Francia e d’Inghilterra, nei regni cattolici di Spagna, questo significa che il corpo ecclesiastico viene scelto dal potere politico, su basi nazionali, ed è dunque fedele al sovrano: nell’età della Riforma protestante, quando intere province ecclesiastiche si staccarono da Roma per seguire decisioni di autorità politiche, si vide come quelle scelte consumate per ridare potere al papato si risolvessero nell’indebolimento della sua autorità sugli episcopati nazionali.
Un’altra conseguenza di quella politica fu l’enorme crescita dell’apparato burocratico e finanziario della Curia romana, che si venne organizzando in molte e diverse diramazioni: la Cancelleria, per svolgere l’enorme mole della corrispondenza politica tra il papato e gli stati; i tribunali e gli uffici per seguire le pratiche relative ai benefici ecclesiastici (Dataria), per risolvere i litigi fra i contendenti, per sciogliere i fedeli da censure e condanne ecclesiastiche, come ad esempio le scomuniche (Penitenzieria), per raccogliere e investire il denaro che affluiva a Roma per i piú vari motivi: decime e altre tasse ecclesiastiche, offerte per l’organizzazione di crociate, vendita di indulgenze, multe pecuniarie irrogate da tribunali ecclesiastici (Camera apostolica). Tutto ciò rese Roma una meta ambita per chi aveva ingegno e cultura e cercava impiego, come pure per banchieri e finanzieri che volevano una piazza internazionale di grande circolazione di uomini e capitali. Chi era esperto nella scrittura di eleganti epistole in latino, chi aveva buona cultura giuridica, chi andava in cerca di potenti protettori, chi – avendo protettori in patria – cercava di afferrare a Roma un beneficio ecclesiastico redditizio, chi disponeva di abilità artigianali – dipingere, scolpire – si recava a Roma. Qui, si incontravano figure di papi umanisti, come il senese Enea Silvio Piccolomini, papa Pio II: scrittore raffinato, eresse alla sua famiglia e a se stesso il monumento di una città costruita secondo i moduli ideali del nuovo gusto umanistico – Pienza.
I cardinali, membri di quel Senato cardinalizio che aveva il potere di eleggere il papa, divennero capi di vere e proprie corti principesche dove artisti e letterati offrivano con le loro opere motivi di attrazione a un osservatorio internazionale. Lo sfarzo della vita romana era il risultato di una sapiente canalizzazione di capitali e di potere: tutto questo non poteva certo incontrare l’approvazione di chi pensava ai modelli evangelici del cristianesimo. Ma c’erano altri aspetti e conseguenze di quel processo, che offendevano le coscienze anche nelle periferie piú remote dell’Europa cristiana. Ne dobbiamo ricordare almeno due, che furono poi all’origine di due momenti fondamentali dei movimenti e dei programmi di riforma della Chiesa:
a) La separazione tra beneficio e ufficio, tra rendite corrispondenti all’ufficio (parroco, vescovo, abate) e l’esercizio dei doveri di cura d’anime per i quali quelle rendite erano state istituite. Di fatto, le rendite di parrocchie, vescovati, abbazie venivano assegnate a cortigiani o a studenti o a figli cadetti di grandi famiglie a titolo di ricompensa di servigi politici; una piccolissima porzione di quelle rendite serviva a pagare cappellani o vicari, in genere di scadente preparazione e capacità, ai quali era affidato il compito di amministrare i sacramenti e di assicurare una parvenza di «cura d’anime». I benefici piú ricchi e ambiti finivano cosí nelle mani di potenti personaggi; principi e sovrani, grazie ai diritti loro riconosciuti dai concordati col papato, si impadronivano delle proprietà accumulate nel corso di secoli da grandi abbazie, monasteri e sedi vescovili. Anche le antiche repubbliche cittadine, come Venezia, si assicuravano la fedeltà politica delle città del loro dominio col sistema di far eleggere al seggio episcopale membri di famiglie dell’aristocrazia dominante. Il risultato, dal punto di vista delle popolazioni, era che non si vedevano quasi piú i vescovi nelle diocesi; che i curati erano sostituiti da cappellani ignoranti e concubinari; che i frati, tutelati dai moltissimi privilegi concessi loro dal papato, amministravano la predicazione e la confessione senza che nessuna autorità ecclesiastica locale ne controllasse gli errori e gli eccessi. Prepotenza e privilegi dei frati erano avvertiti soprattutto nella gestione dei monasteri femminili, dove le famiglie concentravano le figlie per tutelare la consistenza del patrimonio domestico. Sulla crescente popolazione femminile dei conventi, il governo dei frati portava l’ombra di scandali minacciando l’onore familiare e facendo crescere il malcontento contro i meccanismi della Curia romana.
b) La crescita smisurata dei meccanismi giudiziari e finanziari della Curia, conseguente al nuovo corso della politica papale dei concordati. Di fatto, per compensare il venir meno delle decime e delle entrate ordinarie concesse, a titolo di favore, ai sovrani dei vari stati, si ricorreva alla pratica di sanare con multe («composizioni») in denaro ogni irregolarità canonica, col risultato sostanziale di vendere benefici spirituali (indulgenze, privilegi e bolle per farsi assolvere da tutti i peccati e cosí via). Questo meccanismo si saldava spesso con quello precedente, nel senso che si poteva dare il caso di persone che sanavano con offerte in denaro l’irregolarità in cui erano caduti cumulando piú benefici curati. Non si perda di vista il quadro di guerre continue offerto dal panorama del Cinquecento europeo e la presenza attivissima del papato nelle alleanze militari. Per armare eserciti, occorreva denaro: e spesso, come si è visto, il denaro che mancava a metà di una campagna militare comportava che le milizie mercenarie smettessero di combattere o si scatenassero in saccheggi. Ora, per far denaro i sovrani potevano ricorrere a prelievi e tasse sui sudditi, sfruttare i commerci internazionali e i metalli preziosi americani, farsi imprestare capitali dai grandi banchieri. Il papato si trovava in una condizione speciale: poteva ricavare ben poco denaro dallo Stato della Chiesa, dominato e sfruttato da signori feudali, ma poteva però monetizzare il suo potere spirituale su tutta la cristianità. Se i sovrani temporali vendevano uffici statali e titoli nobiliari, i papi potevano fare altrettanto nel campo loro proprio. Anche se si incorreva nelle accuse di «simonia», non si poteva fare a meno nei momenti piú difficili di vendere, ad esempio, i titoli cardinalizi ai migliori offerenti per rimpinguare le casse papali. Ma la via migliore e piú semplice era quella di ricorrere a multe («composizioni») in denaro per sanare eventuali irregolarità o infrazioni al diritto canonico. Particolarmente ricco di occasioni era il terreno delle penitenze e delle remissioni delle pene. Se il cristiano che rompeva la disciplina della comunità era, in antico, condannato a forme di espulsione materiale dalla vita collettiva («scomunica») e a dure pene afflittive, commisurate alla gravità della colpa, che rimanevano da scontare anche se la «colpa» era cancellata con la confessione, da secoli questo genere di sanzioni erano state riassorbite in forme di perdono totale erogate in circostanze eccezionali: la crociata fu l’occasione per convogliare verso l’impresa della riconquista della Terrasanta gruppi sociali di violenti, perfino di criminali o comunque di persone colpevoli di gravi mancanze, offrendo loro il perdono totale delle colpe e la cancellazione completa delle pene («indulgenza»). Se poi qualcuno voleva godere dell’indulgenza senza correre i rischi della crociata, poteva farlo pagando una somma adeguata, che consentisse di assoldare un uomo d’arme al suo posto. La crociata scomparve presto dall’orizzonte delle realtà effettive, ma rimase a lungo come idea, aspirazione collettiva, mito. Rimasero anche i pagamenti per la crociata che si trasformarono da tasse «una tantum» a versamenti frequenti e regolari. Le decime per la crociata furono raccolte nei paesi cristiani da collettori papali: su di esse, si esercitò la politica dei concordati e delle alleanze tra papato e monarchie europee. Rimasero anche le indulgenze, che dilagarono nella prassi penitenziale con la diffusione della nuova nozione teologica del Purgatorio come stato intermedio tra Inferno e Paradiso e con l’idea che l’indulgenza potesse cancellare le pene non solo dei vivi ma anche dei morti. La dottrina del supremo potere papale e della pienezza della giurisdizione ecclesiastica su peccati e crimini dei cristiani era il fondamento teorico di tale pratica.
L’indulgenza dunque non è un fatto marginale, un’occasione secondaria della nascita del movimento luterano e della frattura dell’unità cristiana in Europa. In essa si riassumono e confluiscono aspetti strutturali dell’evoluzione medievale del cristianesimo e delle contraddizioni tra potere centrale politico-religioso del papato e vita delle comunità cristiane. Nacque cosí il caso che dette occasione alla protesta di Lutero: il 13 settembre 1517, una bolla di papa Leone X concesse l’indulgenza plenaria a quanti, confessi e pentiti, versavano un’elemosina adeguata ai loro mezzi. Ma il meccanismo della raccolta delle elemosine, cosí come quello della raccolta di altre tasse, era troppo lento per sovvenire in tempo utile alla fame di denaro fresco. Si dava cosí luogo a forme di appalto: chi si assumeva il compito della predicazione di indulgenze pagava subito una certa cifra alla Camera papale, facendosela anticipare dalle banche, e poi si rivaleva – con largo margine di guadagno – sui fedeli che acquistavano l’indulgenza. Questo tipico meccanismo del sistema fiscale fu dunque sperimentato su larga scala per una tassa dello spirito. La sostanza finanziaria del traffico rivelava cosí il suo volto piú squallido proprio ai fedeli che accorrevano per cogliere l’occasione eccezionale di saldare i loro conti (e quelli dei loro cari defunti) con Dio.
Fu questo il caso dell’appalto dell’indulgenza leonina assunto dal nobile tedesco Alberto di Brandeburgo. Era costui arcivescovo di Magonza e Magdeburgo; il diritto canonico vietava il cumulo di due benefici ecclesiastici che avessero l’obbligo di cura d’anime, per la semplice ragione che un solo vescovo non poteva risiedere contemporaneamente in due diocesi per esercitarvi il governo spirituale. Ma la giurisprudenza dei tribunali romani aveva risolto il problema sulla base della dottrina del potere assoluto del papa in materia di benefici: dunque, se il papa era padrone dei benefici poteva anche consentire quel che il diritto vietava. Pertanto, Alberto poté tenersi i due vescovati pagando una forte somma; ma, poiché non aveva il denaro necessario, si fece anticipare la somma dalle banche. E le banche lo fecero volentieri perché Alberto ottenne da Roma l’appalto della predicazione dell’indulgenza leonina per la Germania; quell’appalto valse come garanzia per i banchieri. Era una complessa operazione bancaria, che portava denaro fresco nelle casse papali, prometteva ricche rendite future e notevole potere anche politico ad Alberto (che diventava uno dei principi elettori dell’impero) e lasciava ai semplici cristiani, in cambio del loro denaro, la promessa di non dover soffrire le pene del Purgatorio.
Come abbiamo già visto (cap. I), l’indulgenza era una pratica nata ai tempi in cui la penitenza imposta a chi rompeva le norme morali della società cristiana comportava gravi sanzioni pubbliche: la nascita del diritto civile e delle sanzioni penali portò a una distinzione fra colpa morale e reato e alle autorità ecclesiastiche rimase la possibilità di emanare sanzioni e penitenze di tipo spirituale. L’indulgenza si trasferí in tal modo dalle pene di questo mondo alle pene da scontare nell’altro, prima di godere della vita eterna: nel Purgatorio, luogo che i teologi vennero definendo nel tardo Medioevo, si dovevano scontare pene di maggiore o minore durata e intensità a seconda dei peccati commessi, grazie a una distinzione tra «colpa» (rimessa a chi, pentito, se ne confessava) e «pena» come sanzione da scontare per la colpa. Nell’epoca delle prime crociate, per invogliare la gente ad affrontare i rischi della guerra contro i musulmani, il papato concesse forme di perdono completo (indulgenza plenaria) per tutte le colpe a chi, pentito, si offriva di versare il sangue per la riconquista della Terrasanta. Quella pratica, una volta avviata, dilagò: e si estese anche ai morti, per i quali i vivi potevano «lucrare l’indulgenza» applicandola ai loro cari defunti, sui quali il papato estendeva il suo potere.
Cosí, nella Germania di Lutero cominciò l’attività oratoria del monaco domenicano Tetzel che, per invogliare i tedeschi a pagare il costo della lettera di indulgenza, recitava una poesiola che diceva: «appena il soldino tintinna nella cassa, l’anima dal purgatorio in paradiso balza». Tutto questo era un meccanismo abbastanza consueto; ma il caso era destinato a diventare celebre perché dette occasione alla protesta del dottor Martin Luther, un giovane monaco agostiniano, professore di teologia all’università di Wittenberg, di recente creata e dotata dal principe elettore di Sassonia. E da questa occasione prese avvio l’azione pubblica di Lutero: essa fu diretta contro l’autorità papale e questo le conferí uno straordinario e lacerante potere. Questo è il principale e piú evidente filone della Riforma: lotta contro la corruzione della dottrina, richiamo alla purezza teologica, appello al Vangelo contro dottrine criticate come strumento di potere del papato romano.
L’altra tendenza a una riforma della Chiesa prese come obiettivo la corretta applicazione delle regole esistenti, battendosi contro la separazione tra beneficio e ufficio e tutta una serie di altri abusi, senza tagliare la radice della costituzione della Chiesa. Si trattò di una tendenza alla riforma morale e disciplinare della Chiesa, che raccolse molte esigenze vive e radicate e riuscí a ottenere anche qualche risultato prima che la protesta luterana spostasse completamente la questione.
2. Tendenze di riforma morale e disciplinare.
Non erano pochi quelli che aspiravano alla riforma come ritorno alla forma originaria della Chiesa apostolica. A Roma piú che altrove si andava sciogliendo l’amalgama tra eredità romana e religione cristiana su cui era cresciuto il mondo medievale. Se per Dante Alighieri, Virgilio e san Tommaso potevano andare d’accordo, per gli uomini del secolo XV la rinascita della pura arte classica – il latino di Cicerone, gli edifici e le arti della Roma imperiale – andava di pari passo con l’aspirazione a un cristianesimo puro ed essenziale, riscoperto sulle fonti scritturali. Un crescente disagio li allontanava dallo sfarzo e dai costumi morali della corte romana, che certo non corrispondevano alla morale evangelica, come pure dalla cultura giuridica che si respirava nei tribunali ecclesiastici e nella casistica morale a cui si ispiravano confessori e moralisti.
La grande crisi dello Scisma, con la presenza di piú papi che si contendevano la tiara, sembrò il momento decisivo di svolta. Il potere nella Chiesa doveva trovare finalmente un’autorità non soggetta ai rischi a cui era esposto un solo individuo – rischi di errori morali o dottrinali. E, poiché nell’incertezza su chi fosse il vero papa ci voleva un’autorità superiore che decidesse – il concilio –, si cercò di rendere permanente questa autorità. Ci voleva un concilio veramente universale con la rappresentanza delle varie «nazioni» in cui era articolata la cristianità medievale e con la presenza dell’imperatore, grande protettore della fede.
Tuttavia, prima della crisi, ci fu tempo per una lunga e fervida stagione di speranze e di progetti. Sul...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Storia moderna e contemporanea. I. Dalla peste nera alla guerra dei Trent'anni
  3. Storia moderna e contemporanea. I. Dalla Peste Nera alla guerra dei Trent’anni
  4. Preambolo. L’eredità del Medioevo
  5. I. La grande crisi del Trecento
  6. II. I Turchi
  7. III. L’Umanesimo, la stampa, le nuove geografie mentali
  8. IV. L’unificazione del mondo
  9. V. Riforma e riforme del cristianesimo e della Chiesa
  10. VI. LE GUERRE D’ITALIA E L’ASSETTO POLITICO DELL’EUROPA
  11. VII. I POTERI, LA SOCIETÀ: LO STATO
  12. VIII. LA MONARCHIA FRANCESE DALLA CRISI DELLE GUERRE DI RELIGIONE ALLA MONARCHIA ASSOLUTA
  13. IX. LA SPAGNA IMPERIALE
  14. X. GUERRA CIVILE TEDESCA E CONFLITTO EUROPEO
  15. XI. EUROPEIZZAZIONE DEL MONDO, MONDIALIZZAZIONE DELLA STORIA
  16. Appendice
  17. Bibliografia
  18. Elenco dei nomi
  19. Il libro
  20. L’autore
  21. Dello stesso autore
  22. Copyright