Vittime e carnefici
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Vittime e carnefici

Nel nome di «dio»

  1. 184 pagine
  2. Italian
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Vittime e carnefici

Nel nome di «dio»

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Padre Giulio Albanese ha vissuto per diversi anni in Africa. Di fronte agli abomini perpetrati nelle zone «calde» del pianeta, e alla testimonianza dei martiri del nostro tempo e delle loro comunità, ha sentito l'urgenza di scrivere questo libro, che denuncia come la fede possa essere distorta a fini ideologici, politici ed economici, per ottenere i quali si uccide, o si creano le condizioni per farlo, nel nome di un dio minuscolo, feticcio d'interessi faziosi. «L'edificio era sventrato e il campanile diroccato. La mensa era stata spezzata in due tronconi. Il vecchio sacrestano mi spiegò che era comunque riuscito a salvare i registri dei battesimi e li custodiva gelosamente nella sua abitazione. Gli domandai se avesse contatti con le religiose che vivevano nella capitale. Mi disse che almeno una volta al mese riceveva i flaconi delle medicine, contenenti le particole. Prima di partire, gli regalai una coroncina del rosario. Si mise a piangere come un bambino e mi chiese di benedirlo. Poi lo nascose in una bisaccia su cui era scritto «Allah Akbar». Mi spiegò, a bassa voce, che per lui quella scritta si riferiva al Dio dei cristiani, ma non lo sapeva nessuno».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
ISBN
9788858422458
Categoria
Religion

Alcuni scenari delle persecuzioni contemporanee

Diversi paradigmi

Come abbiamo visto finora, a volte le persecuzioni sono apertamente e unicamente contro i cristiani, altre volte coinvolgono le minoranze religiose di un determinato scacchiere, altre volte, infine, queste vessazioni si verificano all’interno delle stesse comunità religiose o tra comunità che non includono necessariamente i cristiani, come nel caso del Myanmar, dove i musulmani Rohingya hanno subito ripetute violenze, a sfondo etnico-confessionale, dalla maggioranza buddista. Dunque è evidente che i paradigmi delle persecuzioni di matrice religiosa sono molteplici, comunque eversivi, variano a seconda dei contesti e sono sempre in via di rimodulazione e ridefinizione, adattandosi alle contingenze geopolitiche dei singoli scacchieri. La religione, perciò, rappresenta spesso, in molti contesti, il pretesto per affermare interessi egemonici, contrari al riconoscimento della dignità della persona umana.
Ma qual è la situazione realmente sul campo? Alla luce della mia personale esperienza di vita, posso dire che i cristiani, non meno di altri, si trovano spesso ad affrontare situazioni difficili determinate da una pluralità di fattori di ordine sociale, politico e religioso che in alcuni casi possono degenerare in vera e propria persecuzione o comunque in uno stato di aperta ostilità. È il caso di alcune comunità cristiane nei Paesi a maggioranza musulmana dove, ad esempio, il dialogo interreligioso appare spesso come una sorta d’utopia, mentre i problemi derivati dalla mancanza di comprensione, dopo i tragici fatti dell’11 settembre 2001, acuiscono le differenze degenerando in violenze indiscriminate, unitamente al fenomeno migratorio che costringe i battezzati a trovare riparo in altri continenti. Per non parlare delle limitazioni imposte dai vari sistemi giurisprudenziali, che riducono fortemente le facoltà dei cristiani nell’ambito lavorativo e piú in generale del «diritto civile».
Sta di fatto che questi fenomeni, con varie accentuazioni e sfumature, si riscontrano dal Marocco, dove la cristianità è ridotta a un «piccolo resto» senza pretesa alcuna di proselitismo, tassativamente proibito dall’ordinamento vigente nel Paese, all’Algeria, terra di martiri, avendo in questi anni la comunità cristiana pagato a caro prezzo il suo tributo contro il terrorismo accanto alla popolazione inerme. Basti pensare all’eroico sacrificio dei sette monaci trappisti di Nostra Signora dell’Atlante a Tibhirine. Nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, un commando armato formato da una ventina di uomini fece irruzione nel monastero sequestrando i religiosi di nazionalità francese. Un mese dopo l’atto criminale venne rivendicato da Djamel Zitouni, leader del Gruppo islamico armato (Gia), tramite un comunicato in cui proponeva al governo di Parigi uno scambio di prigionieri. Il mese successivo, un secondo comunicato del gruppo terroristico annunciava la morte dei religiosi: «Abbiamo tagliato la gola ai monaci». Era il 21 maggio 1996. Nove giorni dopo vennero ritrovati i corpi. Al loro sacrificio è stato dedicato un film uscito nel 2010 dal titolo Uomini di Dio (Des hommes et des dieux), diretto da Xavier Beauvois. Il titolo originale, tradotto letteralmente «Uomini e dèi», si riferisce a una citazione biblica presentata all’inizio della pellicola: «Io ho detto: “Voi siete dèi, siete tutti figli dell’Altissimo, ma certo morirete come ogni uomo”» (Sal 82.6-7). Il film, un autentico capolavoro, ha vinto il Gran premio speciale della giuria al 63º Festival di Cannes.
Altra figura straordinaria è quella di monsignor Pierre Lucien Claverie, vescovo di Orano, ucciso ad Algeri il 1º agosto del 1996, il quale nonostante le minacce dell’islamismo estremista aveva continuato a visitare le comunità cristiane, incoraggiando i fedeli a operare per la pace. Stava rientrando da una cerimonia in ricordo dei sette monaci trappisti di Nostra Signora dell’Atlante, quando perse la vita assieme al suo autista. Un ordigno venne fatto esplodere nel cortile del vescovado con un congegno a distanza. La sua spiccata sensibilità nel dialogo con il mondo islamico lo aveva portato a ricoprire l’incarico di membro del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. Inoltre egli aveva contribuito alla creazione della prima Lega algerina per i diritti umani e non esitava a prendere posizione sui problemi della società, oltre che della giustizia e dei diritti delle donne. A differenza di quanto era accaduto per i monaci di Tibhirine, l’attentato contro monsignor Claverie non è mai stato rivendicato. La matrice appare comunque chiara: un gesto contro il riavvicinamento tra Algeria e Francia, che la visita ufficiale dell’allora ministro degli Esteri francese Hervé de Charette veniva a riconfermare proprio in quel giorno. Ed è insieme a lui che il vescovo di Orano era andato a rendere omaggio alle tombe dei monaci uccisi.
Ma i cristiani non erano i soli a morire in Algeria. Lo ricordava frequentemente monsignor Claverie, invitando i missionari e le missionarie a restare: «Anche se volessimo partire, non potremmo piú farlo. Il nostro sangue si è mescolato». Lo ricordò allora il cardinale Bernardin Gantin, prefetto della Congregazione per i vescovi, celebrando le esequie funebri in rappresentanza di Giovanni Paolo II: «La sua morte è tragica. Essa va ad aggiungersi a quella dei diciotto religiosi che figurano sulle pagine di questo martirologio moderno. Essa si aggiunge anche a quella delle centinaia di algerini che muoiono quasi ogni giorno in questo Paese lacerato dalla violenza che nessuna causa saprebbe giustificare. E tanto meno la religione».
Anche nel moderato Egitto il cristianesimo copto è soggetto ai condizionamenti giuridici sanciti dalla Costituzione che, pur garantendo la libertà religiosa, proclama l’islam come principale fonte legislativa, condannando l’apostasia alla pari di un reato per alto tradimento. Sempre in questo Paese, considerato filo-occidentale, sotto il nuovo corso inaugurato dal generale Abd al-Fattah al-Sisi, la costruzione di un luogo di culto per i cristiani necessita di un lungo e spossante iter burocratico. Particolarmente pesanti sono state le vessazioni perpetrate in questi anni contro i cristiani in Sudan, dove fin dall’indipendenza i vari regimi che si sono alternati al potere hanno esercitato azioni coercitive nei confronti delle minoranze religiose, imponendo l’applicazione della legge islamica. Sempre in questo Paese, soprattutto negli anni Novanta, si sono verificati episodi di schiavismo, con la connivenza delle autorità locali, che hanno coinvolto prevalentemente le popolazioni nilotiche di tradizione animista, e anche alcune componenti cristiane.
Ma non v’è dubbio che la terra in cui i cristiani hanno sperimentato i maggiori patimenti è la Somalia, un Paese «senza Stato» dalla caduta del regime di Siad Barre, nel lontano 1991. Qui l’intolleranza verso i cristiani si può far coincidere con l’assassinio del compianto monsignor Salvatore Colombo, vescovo francescano di Mogadiscio. Il 9 luglio 1989 un gruppo armato entrò nella cattedrale, aprendo il fuoco contro il presule, mentre si stava cantando l’Agnus Dei durante la celebrazione eucaristica. Monsignor Colombo era unanimemente considerato il simbolo della Chiesa in Somalia. Aveva scelto di testimoniare il Vangelo promuovendo fattivamente le «opere di carità» per il bene comune di un popolo che si era sempre dimostrato amico.
Successivamente, con l’estendersi della guerra civile, la Chiesa in Somalia, che comunque è sempre stata un piccolo gregge in un Paese a stragrande maggioranza musulmana, ha vissuto un vero e proprio accerchiamento. Era problematico anche uscire di casa per i missionari. La stessa cattedrale della capitale è stata piú volte saccheggiata, per poi essere demolita e rasa al suolo. Una sorte analoga è toccata praticamente alla quasi totalità dei luoghi di culto cristiani presenti in altre località. L’insicurezza ha determinato un vero e proprio esodo dei cristiani, famiglia dopo famiglia, chi alla volta degli Stati Uniti, chi in Canada, chi in Europa. Oltre a monsignor Colombo, hanno perso la vita in questi anni altri eroici missionari; l’ultima in ordine cronologico suor Leonella Sgorbati della Consolata, uccisa il 17 settembre del 2006 all’esterno del reparto di pediatria del «Villaggio dei bambini Sos», assieme alla sua fedele guardia del corpo di religione islamica.
In considerazione della diffusa insicurezza che regna a Mogadiscio e dintorni – un territorio che è stato paragonato dai cronisti di guerra a una vera e propria «Stalingrado africana» – l’attuale amministratore apostolico di Mogadiscio e vescovo di Gibuti, monsignor Giorgio Bertin, esclude per il momento la possibilità di un ritorno dei missionari stranieri in Somalia, non essendovi ancora le condizioni per garantire l’incolumità dei religiosi. Da rilevare comunque che in Somalia come in altre aree africane, dove le vessazioni contro i cristiani da parte degli estremisti islamici sono state maggiormente evidenti nella cosiddetta fase post-coloniale, lo stile evangelico dei missionari non è mai apparso intransigente o schierato in opposizione ai loro persecutori.
Emblematiche le parole di monsignor Claverie, secondo cui la sua vita missionaria dipendeva «dalla capacità d’essere donata». I cristiani in questa prospettiva dovevano comunque rimanere in Algeria e negli altri Paesi islamici, perché andarsene «avrebbe sancito il rigetto definitivo delle nostre differenze».
Altri Paesi dove certamente sono state riscontrate in questi anni azioni criminali contro i cristiani sono il Kenya e la Nigeria, dove però la fenomenologia merita un approfondimento a sé stante in questo saggio.
Sempre in Africa, le Chiese hanno a volte sperimentato un vero e proprio stato persecutorio per essersi schierate apertamente in difesa dei diritti umani, come espressione qualificata della società civile; una sorta di forza d’interposizione pacifica tra governativi e ribelli. Straordinario l’esempio di monsignor Christophe Munzihirwa, arcivescovo martire di Bukavu, nell’est tormentato della Repubblica democratica del Congo (ex Zaire), il quale denunciò fino alla fine le vessazioni perpetrate contro i civili dai militari ruandesi. Venne freddato la sera del 29 ottobre 1996 con un proiettile alla nuca. La sua fede e quella di tanti altri martiri congolesi, ugandesi e di altre nazioni africane segna inequivocabilmente, in una prospettiva evangelica, la «vittoria dei vinti».
Storie simili sono riscontrabili anche in altri continenti. Basti pensare al sacrificio di tanti cristiani e missionari stranieri nello Stato indiano dell’Orissa o nelle Filippine meridionali. Una figura emblematica è quella di padre Tullio Favali, mantovano, missionario del Pime (Pontificio istituto missioni estere). Una figura che anche Giovanni Paolo II ricordò nel 2000, quando in occasione del Giubileo tenne al Colosseo la commemorazione dei martiri del XX secolo. Venne ucciso l’11 aprile 1985 nel villaggio de La Esperanza a Tulunan, nella diocesi di Kidapawan a Mindanao. Vi si era recato per soccorrere i catechisti e i responsabili della comunità, minacciati dal clan dei Manero in quegli anni difficili, al crepuscolo dell’èra Marcos.
Non v’è dubbio che riflettendo su queste vicende, cosí spiritualmente avvincenti e cariche di umanità, l’esperienza religiosa diventa un punto di riferimento autorevole che si trasmette attraverso parole e opere. D’altro canto scriveva Ludwig Wittgenstein: «I confini del mio linguaggio sono i confini del mio mondo»1, affermando che solo attraverso il linguaggio e solo per mezzo di esso noi veicoliamo i nostri pensieri e, di conseguenza, il nostro agire. Eppure, vi sono parole alle quali siamo talmente abituati da finire paradossalmente, quasi per assuefazione, per dimostrare di non conoscerne appieno il significato. È il caso del cosiddetto «fondamentalismo», che rappresenta, con diverse sfumature, il movente delle vessazioni sopra descritte, un termine che troviamo sovente impresso a caratteri cubitali nei titoli sulle prime pagine o evocato a dismisura da coloro che intendano discettare su questioni religiose. Come ricorda Youssef M. Choueiri in un suo illuminante saggio sulla matrice islamica di questo fenomeno, il fondamentalismo «indica quella posizione intellettuale che pretende di derivare i principî politici da un testo ritenuto sacro»2. Piú in generale potremmo dire che il fondamentalista, per presunzione o ignoranza, partendo dall’assunto che nell’esistenza umana esista un unico modello di riferimento, è convinto che la sua visione del mondo debba essere imposta prepotentemente a ogni libera coscienza.
In questa prospettiva, allora, il fondamentalismo non può certo essere circoscritto al mondo della Mezzaluna, essendo presente sotto varie etichette e con diverse sfumature in numerosi sistemi di credenza.
Tra l’altro giova ricordare che il termine «fondamentalismo» nasce in ambito cristiano, negli Stati Uniti, durante il cosiddetto «processo della scimmia» del 1925 a Dayton, Tennessee, quando contro quanti volevano insegnare nelle scuole la teoria dell’evoluzione si schierarono i creazionisti in nome, appunto, dei fondamenti della Bibbia. Ne uscirono sconfitti, ma l’attuale situazione politica statunitense, con particolare riferimento all’influenza dei cosiddetti teo-com, dimostra che le loro posizioni restano fortissime e che non solo nell’islam, ma anche in Occidente, non smette di serpeggiare la tentazione di una nuova alleanza fra Stato e religione, fra trono e altare, nel cui nome si sono consumate nefandezze lungo tutta la Storia.
Gli ammazzamenti perpetrati in Orissa, cosí come certa intransigenza nell’ambito di alcune sette cristiane, tendono a una concezione ottusa dell’esistenza, assoggettando ogni alterità fino quasi a soffocarne, consapevolmente o piú spesso inconsapevolmente, ogni dimensione che parta da paradigmi differenti. Amos Luzzatto, già presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, ha dato prova di quella libertà di spirito e onestà intellettuale che dovrebbe sancire il dialogo interreligioso affermando coraggiosamente che «non tutti i musulmani sono terroristi, non tutti gli americani sono imperialisti, non tutti i laici disconoscono i principî altrui, non tutti i cattolici sono impositori della loro fede, non tutti gli ebrei sono ricchi o straccioni, torturatori dei palestinesi o vittime di bombe umane, né tutti i palestinesi sono occulti seminatori di morte»3. Sergio Zavoli, introducendo questo virgolettato di Luzzatto, da attento analista del palcoscenico della storia contemporanea, osservava quanto importante fosse scongiurare la radicalizzazione del confronto tra Oriente e Occidente sostenendo che «aprirsi a ciò che pensano e sentono gli altri non solo è augurabile ma è anche necessario, se non vorremo parlarne, nella solitudine, con sommarietà e arroganza reciproche»4.
Anche perché di questo passo, come rileva sempre Luzzatto, «finiremmo col trovarci sull’orlo di un baratro che stiamo scavando con le nostre stesse mani»5. D’altronde, avvertiamo un po’ tutti che spesso le forzature sono a trecentosessanta gradi e vanno ben oltre la sfera religiosa, riguardando le stesse civiltà e culture attraverso atteggiamenti impositivi che vogliono l’omologazione a tutti i costi, contrariamente a quanto si vorrebbe far credere.
Detto questo, proviamo ora a entrare nel dettaglio esaminando alcuni contesti geografici in cui il termine «persecuzione» si manifesta con tutta la sua carica di complessità, rendendo la comprensione, per i non addetti ai lavori, alquanto ostica.
1 Cfr. W. Hofmann, I fondamenti dell’arte moderna, trad. di C. Cardamone, Donzelli, Roma 2003, p. 229.
2 Y. M. Choueiri, Il fondamentalismo islamico: origini storiche e basi sociali, a cura di E. Pace, Il Mulino, Bologna 1993.
3 Cfr. S. Zavoli, La questione: eclissi di Dio o della storia?, Mondadori, Milano 2007, p. 217.
4 Ibid.
5 Ibid.

Isis, mannaia del terzo millennio

L’Isis è un concentrato di malvagità: uccide, tortura e violenta sistematicamente bambini e famiglie di gruppi minoritari. Per comprendere la gravità di questo fenomeno basta leggere uno dei tanti rapporti in circolazione. Mi riferisco in particolare a quello pubblicato il 5 febbraio del 2015 dalla Commissione Onu sui diritti del fanciullo riguardante l’Iraq. I militanti dell’Isis, riporta il documento, vendono i bambini iracheni rapiti come schiavi del sesso, li utilizzano come produttori di bombe, informatori o scudi umani per proteggere alcune strutture contro gli attacchi aerei della coalizione guidata dagli Usa. Oltre che come attentatori suicidi, quelli che si usa chiamare kamikaze, con una ulteriore riprova di come i termini possano subire forzature culturali: i kamikaze giapponesi erano soldati che combattevano contro altri soldati, aviatori disposti a morire perché sapevano di non avere carburante per tornare alla base dalle missioni contro la flotta statunitense nello sterminato Pacifico; non erano gente che si fa esplodere tra donne e bambini su un autobus o in un mercato. In molti casi i bambini dall’Isis vengono addirittura «crocifissi», «decapitati» e «sepolti vivi». Il comitato delle Nazioni Unite sui diritti dei bambini, in quella circostanza, lanciò un laconico appello affinché le forze di governo irachene si impegnassero maggiormente per proteggere quella povera gente indifesa.
Naturalmente, quest’orda criminale ha anche destabilizzato la vicina Siria soffocando nel sangue ogni forma di dissidenza. Alcune testimonianze che chi scrive ha raccolto nell’ambito della cooperazione missionaria fanno davvero venire la pelle d’oca perché rivelatrici di un pensiero diabolico. Il fatto stesso di essere cristiani o musulmani moderati costa la vita. I jihadisti dell’autoproclamato Stato islamico hanno imposto, ad esempio, la rimozione di croci e crocifissi dalle chiese di Tel Hamis, una località a maggioranza cristiana nel nordest della Siria.
Viene pertanto spontaneo domandarsi cosa ci sia dietro il delirio di onnipotenza dell’Isis. Da un lato ci sono riscontri, evidenti a tutti gli «addetti ai lavori», che il loro nucleo militare sia composto in gran parte da ex membri della guardia presidenziale di Saddam Hussein, mai integrati nell’Iraq seguito alla caduta e alla successiva esecuzione di quest’ultimo. Ma dall’altro si tratta di un piú generale fenomeno, davvero senza precedenti nella storia contemporanea, determinato perlopiú dal fallimento della politica araba.
La sua progressiva deriva ha generato sistemi totalitari che hanno congelato ogni possibilità di sviluppo per le popolazioni a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Vittime e carnefici
  3. Nota dell’Autore
  4. Un fenomeno complesso
  5. Lo scontro delle civiltà
  6. La grammatica evangelica delle persecuzioni
  7. Alcuni scenari delle persecuzioni contemporanee
  8. Scenari occulti delle persecuzioni
  9. Postfazione
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Dello stesso autore
  13. Copyright