Il denaro, il debito e la doppia crisi
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Il denaro, il debito e la doppia crisi

Spiegati ai nostri nipoti

  1. 208 pagine
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Il denaro, il debito e la doppia crisi

Spiegati ai nostri nipoti

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«Quel che vorrei provare a raccontarvi è per certi versi la storia di una sconfitta politica, sociale, morale. Abbiamo visto scomparire due idee e relative pratiche che giudicavamo fondamentali: l'idea di uguaglianza, e quella di pensiero critico».
Causa fondamentale della sconfitta dell'uguaglianza è stata, per Gallino, dagli anni Ottanta in poi, la doppia crisi, del capitalismo e del sistema ecologico, strettamente collegate tra loro. La stessa crisi del capitalismo ha molte facce: l'incapacità di vendere tutto quello che produce; la riduzione drastica dei produttori di beni e servizi; il parallelo sviluppo del sistema finanziario al di là di ogni limite. A questa crisi il capitalismo ha reagito accrescendo lo sfruttamento irresponsabile dei sistemi che sostengono la vita - il «sistema ecologico». Il tutto con il ferreo sostegno di un'ideologia, il neoliberalesimo, che riducendo tutti a mere macchine contabili dà corpo a una povertà dell'azione politica quale non si era forse mai vista nella storia.

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Informazioni

Capitolo quinto

Alla ricerca di alternative

1. Il sentiero si traccia camminando. Ma bisogna camminare nella direzione giusta.
La doppia crisi che stiamo attraversando richiede a ciascuno di noi di compiere delle scelte – posto che anche decidere di non far nulla, o sostenere che la crisi non esiste, o è finita, costituiscono scelte precise e gravide di conseguenze. Secondo il quadro sin qui tracciato, pare davvero che la formazione economico-sociale del capitalismo si stia avvicinando alla fine. Dopo aver impiegato oltre due secoli ad affermare il suo dominio in tutto il mondo, la doppia crisi manifestatasi a partire dagli anni Settanta è lí a provare che le sue contraddizioni interne l’hanno ormai condannata all’estinzione. Lasciata a se stessa, la fine del capitalismo potrebbe essere rapida o lunga, pacifica o cruenta, parziale (cioè regionale) o globale: nessuno può dirlo. Ma essa è inevitabile, perché il capitalismo sta danzando sulla «fenditura ecologica», la seconda crisi da esso provocata. Potrebbe magari reggere per un altro secolo, da una crisi alla successiva, ove non fosse quasi certo che a quel momento non ci sarebbe piú un’umanità gratificata dai suoi benefici, perché il crollo dell’uno o dell’altro sottosistema di quelli che sostengono la vita, già oggi in cattive condizioni, l’avrebbe in gran parte spazzata via. Nel caso ciò non bastasse, nel suo attuale stadio di crisi il sistema economico e sociale capitalistico appare profondamente iniquo, paurosamente irrazionale, e del tutto incapace di uscire dalla crisi strutturale iniziata negli anni Settanta.
Di fronte a un simile quadro storico, nel quale si intrecciano previsioni circa un futuro piú o meno prossimo e giudizi di valore, ciascuno di noi che non rientri nell’1 per cento della popolazione formato dall’oligarchia dominante (la famosa classe di Davos) o nel 10 per cento di coloro che fungono da suoi volenterosi assistenti, si trova dinanzi ad alcune scelte, o se vogliamo «prese di parte». Sono scelte al tempo stesso cognitive e politiche. In sintesi: uno decide A) di schierarsi attivamente fra i difensori del capitalismo, a fianco della classe di Davos, magari con l’aggiunta di qualche forma di negazionismo della crisi, ovvero si colloca passivamente fra coloro per i quali, tutto sommato, esso va bene cosí com’è; B) uno non dubita che il capitalismo sia un sistema economico e sociale pessimo, per giunta in grave crisi, ma decide di star seduto sulla riva del fiume ad aspettare il suo crollo; C) uno decide di adoperarsi in qualche modo per rendere la transizione a un sistema economico e sociale diverso, non importa come si chiami, un po’ meno lontana, e un po’ meno gravida di caratteri sgradevoli. Vediamo queste scelte piú da vicino.
A) A parte la classe di Davos, formata da coloro che anche nel nostro paese difendono attivamente il capitalismo perché essi sono il capitalismo, vi sono i suoi difensori passivi. Fra loro rientra la maggioranza della popolazione, quella che viene informata e anzi – quanto a opinione politica – formata dalla Tv, piú una quota che legge anche un quotidiano. La sua difesa passiva del capitalismo nasce da un dubbio: ma esso merita davvero i giudizi negativi espressi dai suoi critici, compresi quelli formulati in questo libro? Dopotutto, le nostre strade sono piene di automobili, la maggior parte di noi ha una casa confortevole, gode di un livello di vita incomparabilmente superiore a quello dei nonni, lavora mille ore di meno all’anno, e ovunque legge o vede che centinaia di milioni di individui in Asia, Africa e Sudamerica vivono al presente assai meglio che non due o tre generazioni fa. Non sarebbe allora piú sensato cercare di porre riparo ai difetti del capitalismo, anziché auspicarne o prevederne la fine, o addirittura adoperarsi per affrettarla?
La risposta a una simile obiezione del pro-capitalista passivo è: dipende dal giudizio che uno formula su come funziona l’economia del mondo – caso mai riesca a costruirsi in merito a questa un minimo di giudizio indipendente. In essa, alla nostra epoca, alcune migliaia di operatori finanziari si affannano ogni giorno unicamente per trovare un’occupazione al piú ansioso e impaziente dei disoccupati: il denaro. È una delle vittime della crisi: gli è diventato difficile trovare un lavoro. Questo disoccupato ha preso da tempo forma di centinaia di miliardi di liquidità che i clienti mettono a disposizione giorno dopo giorno affinché gli operatori specializzati gli trovino un lavoro decente. Il denaro deve lavorare, ma non può accontentarsi di una remunerazione da povero: vuole il 15 per cento e piú del proprio valore di scambio all’anno (non è un dato inventato). Intanto che la quasi totalità degli operatori economici è impegnata a trovare un lavoro a questo disoccupato bisognoso, di cui ogni telegiornale ci dà notizia con le quotazioni di borsa, soltanto a livello Ue si registrano 25 milioni di individui senza lavoro, almeno altrettanti con un’occupazione precaria e malpagata, e 125 milioni a rischio povertà.
A livello mondo, lo stesso sistema spende 1500 miliardi di dollari all’anno tra pubblicità e marketing, allo scopo di vendere ai benestanti prodotti in gran parte superflui, laddove un miliardo di persone soffre la fame perché non dispone dei pochi dollari a testa – che ammonterebbero poi in tutto ad alcune centinaia di miliardi all’anno con un Pil globale di 65 000 miliardi – necessari per mangiare qualcosa due volte al giorno. Sempre al capitalismo odierno si deve se 35 milioni di individui al mondo detengono una ricchezza equivalente a piú di una volta e mezzo il Pil globale, ossia 116 trilioni di dollari, circa 3,3 milioni di dollari in media a testa, a fronte di tre miliardi di individui la cui «ricchezza» totale – inclusi il pagliericcio su cui dormono e una pentola per cucinare – non arriva a 3000 dollari, cioè oltre 1100 volte di meno1. In sintesi, il capitalismo ha prodotto un’immensa ricchezza, che però si dimostra del tutto incapace di impiegare a vantaggio del maggior numero. E ciò è accaduto sia perché il maggior numero degli abitanti del pianeta è stato espropriato da un numero cento volte piú piccolo – il solito 1 per cento – dei frutti del suo lavoro e/o della sua terra, sia perché la finanziarizzazione dell’economia ha offerto a quest’ultimo, e soltanto a questo, la possibilità di accumulare montagne di denaro fittizio.
Non bastassero questi dati per far nascere qualche dubbio nella mente dei pro-capitalisti passivi, si potrebbe aggiungere che bisogna essere storicamente piuttosto ingenui se si pensa che le convulsioni del capitalismo durante il XX secolo – vedi la crisi del 1929 – non abbiano nulla a che fare con i 70 milioni di morti causati dalle due guerre mondiali soltanto in Europa, e in soli trentun anni. Piú i milioni di civili massacrati da nazisti, fascisti e in Urss, da comunisti per motivi razziali e politici. E occorre pure essere alquanto sprovveduti sul piano della storia economica ove non si tenga conto che la crescita del capitalismo e del livello di vita delle masse, nel primo terzo del secolo negli Usa e dopo la Seconda guerra in Europa, è stata resa possibile da circostanze economiche e tecnologiche – quelle di solito riassunte in espressioni quali «fordismo», «società industriale», «società di massa» – ma anche geopolitiche, quali la presenza dell’Urss – straordinarie e irripetibili. Resta il fatto che se tramite consimili argomenti o altri non si arriverà a far cambiare idea a una quota consistente della maggioranza, che per ora è pro-capitalista non per convinta affiliazione di classe, come sono invece i membri del partito di Davos, ma perché sono quasi soltanto i media a formarne l’opinione, il «nuovo soggetto» (di cui al paragrafo finale) non arriverà mai.
B) Rientrano in questo gruppo coloro che dell’irrazionalità e iniquità del capitalismo sono convinti, e vorrebbero quindi che quest’ultimo fosse superato a favore di una società piú equa. Nondimeno si limitano a prevedere sul piano teorico un evento estremo: il capitalismo è destinato a crollare a causa delle sue contraddizioni interne. Coloro che la pensano in questo modo sono sicuri che la doppia crisi del capitalismo finirà prima o poi per rivelarsi terminale e condurre al collasso del sistema; tuttavia, non pongono limiti alla durata temporale di essa. È il caso di molti studiosi marxisti, i quali compiono analisi della crisi e delle sue cause di incomparabile vigore e sottigliezza, ma quanto al fatidico «che fare» propongono in sostanza di star seduti sulla riva del fiume in attesa di veder passare il cadavere del capitalismo. Ecco cosa dice al riguardo uno dei testi piú importanti apparsi negli ultimi anni, che rappresenta assai bene questa posizione: la crisi strutturale del capitalismo, che si basa su un’espansione inaudita del capitale fittizio (non appoggiato cioè ad alcun reale valore d’uso) «minaccia una grossa catastrofe […] Si potrebbe deviarla soltanto nel caso in cui si riuscisse a sviluppare e affermare sul piano globale un’alternativa sociale al di là della produzione di merci»2. Uno ringrazia per la preziosa diagnosi, rendendosi mestamente conto che alla domanda cruciale riguardante il «che fare?», preferibilmente qui e ora, siffatte analisi non offrono alcuna indicazione praticabile. Porterò altri esempi di questa posizione nell’ultimo paragrafo.
C) D’altra parte bisogna ammetterlo: coloro che vorrebbero cambiare il capitalismo in un sistema sociale che non abbia i suoi vizi, e possibilmente non sia peggiore, ossia avviare quantomeno la «trasformazione» di cui tanto si parla, sono di fronte a un’impresa terribilmente difficile. Potrebbe risultare alla lunga un po’ meno ardua se chi volesse impegnarsi in qualche modo a tale scopo muovesse dal riconoscimento di due presupposti. Il primo è che la crisi del capitalismo e la crisi ecologica non sono due eventi che si possano affrontare separatamente. Sono due facce di una stessa medaglia. La crisi ecologica non può venire trattata in modo indipendente dalla crisi del capitalismo, poiché è la medesima crisi considerata da un’angolazione diversa. Quella che è stata chiamata (da John Bellamy Foster e altri) la guerra del capitalismo contro la Terra è un aspetto intrinseco della sua necessità vitale di perseguire l’accumulazione del capitale tentando di trasformare ogni elemento della natura in denaro, e questo in capitale. Allo scopo di ottenere tale risultato il capitalismo deve assegnare a ciascun elemento un valore di scambio negoziabile in ogni momento su un mercato. La finanza del carbonio, di cui ho parlato (vedi il secondo capitolo), illustra questo intento in modo preclaro. Il problema è che molti aspetti della natura non si prestano per niente all’assegnazione di un valore di scambio. Ad esempio, se in una data regione l’acqua potabile scarseggia e la sua scarsità rischia di provocare decine di milioni di morti, qual è il valore di scambio dell’acqua – o, se si preferisce un altro metodo di calcolo – dei milioni di vittime? E se i mari non riescono piú a smaltire le enormi quantità di rifiuti che le attività umane riversano quotidianamente in essi, qual è il valore di scambio comparato di tot chilometri cubi dell’Atlantico e di tot ettari di New York, ovvero, rispettivamente, del Mediterraneo e di Genova? Sono casi estremi, d’accordo, ma aiutano a capire qual è la direzione in cui il capitalismo sta spingendo non tanto la Terra quanto l’umanità: della quale, ricordiamolo, alla Terra non importa un bel nulla. La sua velocità di rotazione su se stessa o attorno al Sole, per dire, non varierebbe di un millesimo di secondo se l’unica popolazione rimasta ad abitarla fossero i topi. Il che vale anche a ribadire che etichette quali «sviluppo sostenibile», «economia verde», ecc., se formulate come criteri di revisione del capitalismo utili a farlo sopravvivere per altri due secoli, sono contraddizioni materiali e concettuali irrisolvibili.
Il secondo presupposto da cui muovere è che capitalismo e crisi ecologica implicano una distribuzione tra la popolazione, non importa se di un paese ovvero del pianeta intero, delle risorse prodotte dal suo lavoro materiale e immateriale, la quale procede tendenzialmente dal basso verso l’alto. Tale tendenza può venire attenuata per brevi periodi storici, ma poi si riafferma in modo inesorabile. Ciò avviene perché l’oligarchia dell’1 per cento spesso citata è immensamente ricca e potente, anche sotto il profilo politico, non in quanto possiede eccezionali capacità professionali utili all’umanità di cui il restante 99 per cento è privo, ma piuttosto perché ha espropriato quest’ultimo delle risorse economiche e del potere politico a cui avrebbe diritto perché ha prodotto con il suo lavoro le prime e in ogni essere umano incorpora il secondo.
Non esito a dire che se dopo aver riconosciuto la validità dei due presupposti di cui sopra uno si ferma attonito dinanzi all’immensità del compito, e del fatto che il denaro e il potere stanno tutti dall’altra parte, per cui decide di non provarci nemmeno, limitandosi al piú a ripetere con il poeta «il sentiero si traccia camminando», sarebbe del tutto giustificato. Ciò nonostante, commetterebbe un grosso errore. Il punto veramente critico consiste sí nel tracciare il sentiero camminando, a condizione però di muovere passo dopo passo nella direzione giusta, quella che nel giro di qualche decennio piuttosto che di un secolo o due dovrebbe portare il viandante, tutti noi, a superare insieme il capitalismo e la crisi economica. Può sembrare una scelta minimale, ma è decisiva. Lo è, per intanto, perché dovrebbe indurre a lasciare da parte ogni tentativo di arginare, domare, rendere sostenibile il capitalismo come lo conosciamo, visto – il tentativo stesso – come una sorta di soluzione definitiva. Sappiamo che nel corso del Novecento il capitalismo è stato pur domato un paio di volte, in America per sconfiggere la grande Depressione del 1929 e nell’Europa occidentale subito dopo la Seconda guerra mondiale; però si trattava di sentieri tra...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nipoti
  3. Prefazione. Perché la crisi non è quella che vi raccontano
  4. I. La doppia crisi del capitalismo e del sistema ecologico
  5. II. Il ruolo della finanza: com’è e come dovrebbe essere
  6. III. Unione europea. L’austerità come progetto politico
  7. IV. Italia. Perché la nostra crisi è peggio delle altre
  8. V. Alla ricerca di alternative
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright