Sperimentiamo di continuo il potere, esercitandolo o subendolo. Per noi, il potere è l’attitudine a fare o a far fare: se sono in grado di fare ciò che voglio, insomma ne ho la capacità e la forza, e non sono arrestato da un ostacolo piú forte, è potere; se posso far fare ad altri ciò che voglio facciano, è potere. Ha dunque luogo un confronto tra le nostre potenzialità, siano esse fisiche o morali, e gli ostacoli che possono incontrare. È il caso piú semplice (teoricamente) di esperienza della libertà: noi in mezzo al mondo e all’universo, le nostre modestissime forze di fronte a innumerevoli ostacoli. Ma sia nel fare, sia nel far fare, ci confrontiamo anche subito con la libertà altrui. Non c’è una nostra sola mossa che non interferisca in qualche modo con le mosse degli altri (progettate o in fase di attuazione); e quando decidiamo di far fare, è sicuro che interveniamo – nei modi piú vari e piú variamente giudicabili – sull’altrui libertà di agire. Cosí, è difficile descrivere, persino negli aspetti primigeni, l’uomo, se non si tiene conto del fatto che è inserito in una comunità ed è libero solo nel rispetto delle compatibilità generali.
Per questo, gli scritti sul potere riguardano prevalentemente il potere politico. La cui origine nel tempo è naturalmente inattingibile, anche se ne possiamo simulare le modalità di affermazione. E purtroppo le simulazioni mettono subito in luce disuguaglianze congenite e vizi umani forse ineluttabili. Perché se gli uomini avessero identiche doti fisiche e mentali, e se non ci fossero la prepotenza, l’avidità, l’invidia, ecc., gli esseri umani potrebbero tranquillamente convivere, cordiali «coinquilini» entro un pezzo di mondo. Succede invece che il piú forte o il piú intelligente incomincino, anche istintivamente, a prevaricare sui deboli di corpo e di mente, e sottraggano loro parte dei beni, parte della libertà (o magari tutta).
Nella lotta di tutti contro tutti per il possesso di ogni cosa, a un certo punto il potere di un singolo o di un gruppo viene riconosciuto dalla comunità, al fine di bloccare almeno gli altri che concorrono alla conquista dello stesso potere. Il potere, cui si ritiene di aver affidato una funzione ordinatrice (la forza diventa diritto), sarà poi esercitato piú o meno umanamente, ma sempre con una dose di sopraffazione; sinché altri aspiranti, magari sostenuti dalla folla dei deboli, si candideranno alla conquista dello stesso potere, ed eventualmente se ne approprieranno.
Un’altra simulazione è quella democratica. I «coinquilini» si accordano per distribuire a qualcuno mansioni organizzative, cedendo agli eletti dosi misurate del proprio potere, con l’intesa che la cessione è temporanea, e può comunque essere dirottata su un altro individuo, sempre scelto dalla comunità. La prepotenza e i vizi saranno sempre in opera, ma in teoria dovrebbero essere controllati dalla comunità, pena la mancata conferma degli eletti.
Lasciando stare le molte altre simulazioni possibili (e storicamente realizzate), va notato che le forme di potere sociale, in qualunque modo siano messe in atto, operano sempre, in prima istanza, tramite la comunicazione. Sudditi e principi, elettori ed eletti, esprimono la loro volontà mediante discorsi o, piú concisamente, attraverso simboli. Si tratta infatti di contratti sociali, spesso non scritti, ma presenti alla mente di chi comanda e di chi obbedisce. La comunicazione implica il consenso di tutti sul significato di parole e simboli. Le leggi, soprattutto, funzionano solo grazie alla loro generale comprensibilità.
L’esercizio del potere appare sino a questo punto una necessità, con aspetti negativi che possono anche essere pesantissimi. Ma questo esercizio può diventare mostruoso quando violi il contratto sociale, e perciò giunga a disporre arbitrariamente delle cose e della vita dei membri della comunità cui il potere dichiara di voler provvedere. Ciò che accade nei regimi totalitari. Quello che trovo interessante, in questa sede, è il mutamento che si realizza nell’esercizio della comunicazione.
Il totalitarismo si afferma proprio attraverso la comunicazione. L’aspirante dittatore è abile nel farsi portavoce degli istinti, degli oscuri timori, degli egoismi diffusi nella comunità; ma anche nel trasformare in luoghi comuni i propri istinti, i propri timori, i propri egoismi. Tutto ciò viene trasmesso alla comunità, nelle dittature, attraverso l’uso sempre piú raffinato degli strumenti della comunicazione; cosí si spiega il consenso iniziale (non sono poche le dittature installate a furor di popolo).
Ma quando il potere è rassodato, il dittatore continua sí a comunicare, nello stesso modo di prima, ma a poco a poco istituisce al di sotto della comunicazione ufficiale forme di coercizione e di violenza che, fatti salvi gli obiettivi, possono risultare incoerenti e incomprensibili. Le ingiunzioni si fanno contraddittorie; le finalità appaiono indecifrabili; e proprio questa indecifrabilità, potenziando il terrore e inducendo a un atteggiamento di passività, diventa la vera comunicazione. A questo punto la comunicazione normale diventa pura ecolalia; mentre la comunicazione vera è costituita dal cumulo di arbitri, ingiustizie, prevaricazioni, eccidi, tanto piú efficaci quanto piú tenebrosi, incomprensibili. Del resto, questo potere diventato strapotere favorisce lo sviluppo di una volontà di servire insita nell’animo umano.
Ci sono però altri poteri che non fanno riferimento a un patto sociale negoziato fra gl’interessati: sono poteri legati alla nostra stessa natura. Pensiamo per esempio all’autorità paterna e materna. I genitori ci hanno dato la vita e sovrintendono, per un assenso socialmente indiscusso, alle principali fasi del nostro sviluppo, sinché non raggiungiamo l’autonomia. Nelle leggi di molti paesi, essi hanno su di noi un diritto di vita e di morte. Si tratta d’un potere apparentemente illimitato, ma contenuto nella realtà dall’affetto, e soprattutto dall’istinto che ha l’uomo di protendersi nel futuro attraverso i figli. Patto e comunicazione si sviluppano nel corso stesso della formazione del bambino: è anzi in questo modo che l’assieme delle tradizioni e convenzioni della comunità viene trasmesso da una generazione all’altra. È dunque inevitabile che il patto familiare (parte del patto sociale) e le regole della comunicazione passino attraverso un feedback.
Ma questo schema va precisato; e può essere compromesso dalle consuetudini relative ai rapporti di forza tra i genitori. Anzitutto occorre ricordare che nella nostra civiltà il portatore delle leggi è il padre. In secondo luogo è esperienza quotidiana il fatto che i rapporti tra genitori e figli siano spesso conflittuali; il conflitto piú potente è, come indicato da Freud, il complesso edipico. Quale che sia l’intensità del conflitto, è certo che anche la comunicazione risulta compromessa. Il figlio può non accettare, persino non comprendere, le disposizioni o le ingiunzioni del padre; la logica discorsiva dell’uno non coincide con quella dell’altro. Il padre, invece di apparire un buon principe, assume l’aspetto del dittatore.
Questa situazione è approfondita nel famoso Brief an den Vater1 [Lettera al padre] di Kafka, del quale trascuro qui le molte pieghe personali, drammatiche. Mi basta sottolineare affermazioni di questo genere: «Du bekamst für mich das Rätselhafte, das alle Tyrannen haben, deren Recht auf ihrer Person, nicht auf dem Denken begründet ist» (p. 169) [«AcquistasTi ai miei occhi un alone misterioso, come tutti i tiranni, il cui diritto si fonda sulla loro persona, non sul pensiero» (trad. it., p. 645)]; «Und nicht nur [ti udivo] schimpfen, auch sonstige Tyrannei» (p. 186) [«Ti udivo soltanto sbraitare, vedevo anche altre manifestazioni di tirannia» (trad. it., p. 659)]; «Das Misstrauen, das Du mir [...] beizubringen suchtest [...] war es in Wirklichkeit vielleicht nur ein Emblem des Herrschers» (p. 196) [«La diffidenza che cercavi di istillarmi [...] forse in realtà era soltanto un simbolo della tirannia» (trad. it., p. 667)].
Nel Brief an den Vater è anche definito perfettamente il contrasto tra il potere (ora negli aspetti legislativi) e la soggezione, che mette in essere due sfere incomunicanti:
Dadurch wurde die Welt für mich in drei Teile geteilt, in einen, wo ich, der Sklave, lebte, unter Gesetzen, die nur für mich erfunden waren und denen ich überdies, ich wusste nicht warum, niemals völlig entsprechen konnte, dann in eine zweite Welt, die unendlich von meiner entfernt war, in der Du lebtest, beschäftigt mit der Regierung, mit dem Ausgeben der Befehle und mit dem Ärger wegen deren Nichtbefolgung, und schliesslich in eine dritte Welt, wo die übrigen Leute glücklich und frei von Befehlen und Gehorchen lebten. Ich war immerfort in Schande, entweder befolgte ich Deine Befehle, das war Schande, denn sie galten ja nur für mich; oder ich war trotzig, das war auch Schande, denn wie durfte ich Dir gegenüber trotzig sein, oder ich konnte nicht folgen, weil ich zum Beispiel nicht Deine Kraft, nicht Deinen Appetit, nicht Deine Geschicklichkeit hatte ecc. (p. 173).
[il mondo era diviso per me in tre parti: nell’una vivevo schiavo, sottoposto a leggi inventate solo per me e alle quali io, non so per quali ragioni, non sapevo pienamente assoggettarmi; nella seconda, infinitamente lontano dalla mia, vivevi Tu, partecipe al governo, occupato a dare ordini e a irritarTi quando non erano obbediti; e infine c’era un terzo mondo dove la gente viveva felice e libera da comandi e obbedienze. Io vivevo sempre nella vergogna, sia che eseguissi i Tuoi ordini, e ciò era un’onta perché valevano per me solo, sia che mi ribellassi, perché come osavo oppormi a Te? sia che non mi fosse possibile obbedirTi perché non avevo, mettiamo, né la Tua forza né il Tuo appetito né la Tua abilità ecc. (trad. it., p. 648)];
e (ma a questo punto siamo arrivati all’esegesi dei romanzi) quanto al senso di colpa del soggetto, ecco un altro tocco sintomatico: «Übrigens haben auch solche freundliche Eindrücke auf die Dauer nichts anderes erzielt, als mein Schuldbewusstsein vergrössert und die Welt mir noch unverständlicher gemacht» (pp. 180-81) [«anche queste piacevoli impressioni [prodotte da qualità fisiche e morali del padre] non ebbero altro effetto che di aggravare il mio senso di colpa e farmi vedere il mondo sotto un aspetto ancora piú incomprensibile» (trad. it., p. 654)]; sinché si arriva al motivo del processo, cui s’intitolerà poi uno dei tre romanzi: «um [...] diesen schrecklichen Prozess, der zwischen uns und Dir schwebt, in allen Einzelheiten, von allen Seiten, bei allen Anlässen, von fern und nah gemeinsam durchzusprechen, diesen Prozess, in dem Du immerfort Richter zu sein behauptest, während Du, wenigstens zum grössten Teil (hier lasse ich die Tür allen Irrtümern offen, die mir natürlich begegnen können) ebenso schwache und verblendete Partei bist wie wir» (p. 193) [«questo terribile processo pendente fra Te e me, in tutti i particolari, da tutti i lati, sotto tutti i punti di vista, da vicino e da lontano; questo processo in cui Ti affermi giudice, mentre per lo piú (qui lascio la porta aperta a errori in cui naturalmente posso incorrere) sei parte fragile e cieca quanto noi siamo» (trad. it., p. 665)].
Dio è, secondo la maggioranza delle religioni, un padre. Non solo ci ha dato la vita, ma, prima, ha dato la vita al genere umano, e prima ancora ha creato il mondo che ci ospita. Però, dopo di questo, non c’è alcun dialogo, anzi non sappiamo nemmeno se Dio interferisca o meno nella nostra vita. Possiamo credere che Dio, sulla terra, continui a intervenire per correggere le nostre colpe o premiare i nostri meriti; ma troppo spesso è impossibile interpretare la sua eventuale azione su questo presupposto. Allora si fa avanti l’interpretazione opposta: Dio ci mette alla prova, e perciò picchia sempre piú duramente i giusti, mirando alla loro perfezione (Giobbe). Infine, molte religioni fanno appello a una rivelazione, nella quale Dio avrebbe fornito le sue norme, da buon legislatore; ma anche in questo caso resta in sospeso il problema di suoi successivi interventi non annunciati.
Come i genitori, Dio ci ha aiutati (pensiamo) a elaborare, insieme con la facoltà dell’espressione (grazie alla quale comunichiamo), leggi che sovrintendono ai nostri rapporti con gli altri uomini e con l’intera natura. Ma nemmeno questa affermazione posa su prove evidenti. È un altro dei motivi che hanno reso necessarie le rivelazioni (con la consegna diretta delle leggi), però non riconosciute da tutti.
In questo assieme d’incertezze, è naturale che i rapporti col padre celeste (anche se non sono complicati da alcun complesso edipico) si possano rivelare conflittuali come quelli col padre carnale. L’azione del padre celeste (se c’è) è generalmente incomprensibile; a meno di concludere (ciò che molti fanno) con la sua indifferenza al nostro operare, la sua assenza, o anche la sua inesistenza. Il conflitto nasce perché noi vorremmo che i suoi interventi ci fossero, ma vorremmo anche che essi fossero decifrabili secondo la nostra logica e la nostra etica. Insomma, abbiamo bisogno di Dio, ma Dio non corrisponde alle nostre aspettative.
Anche la sua qualifica di legislatore della natura può essere o non essere riconosciuta. La morale può essere stata imposta da Lui, ma può anche essere un’invenzione umana. E non abbiamo da Lui alcun aiuto per far chiaro negli infiniti aspetti oscuri della vita nostra e dell’universo, o per sapere quali siano i suoi rapporti col male. Perciò, dal punto di vista comunicativo, solo chi accetti una rivelazione può considerarsi idealmente in contatto con Lui. E queste tenebre offuscano persino la logica, portandoci nel pieno dell’assurdo.
Si capisce facilmente perché Kafka si trovi in apertura di questa sezione. Abbiamo visto che nel Brief an den Vater discute appunto l’autorità paterna, confrontandola lui stesso con quella di Dio. Ma nella sua opera, è proprio l’autorità di Dio che viene presa di petto. Ciò che angoscia Kafka è l’incomparabilità delle nostre leggi o tradizioni con quelle che, probabilmente proprie del Divino, ci vengono fatte nebulosamente trasparire in forma di spinte incomprensibili, e sembrano capricciose, assurde, spesso letali. Kafka è ispirato, non solo a mio avviso, da un bisogno disperato di Dio (cosí com’è evidente il suo bisogno del padre); ma le risposte che gli pare di ricevere lo portano a interporre tra se stesso e Dio una distanza che è quella che ci separa dall’infinito, o dal Nulla.
Informato su testi ebraici piú o meno esoterici, Kafka, non avendo trovato risposta alle sue interrogazioni a e su Dio, usa le invenzioni e le metafore di quei testi per abbozzare una teologia negativa. Dio non appare piú circonfuso di assurdo, ma s’identifica con l’assurdo stesso. In questo senso è non solo un padre terribile, ma una specie di terribile dittatore.
Kafka però descrive l’assurdo in termini burocratici e giuridici. Cosí ha potuto apparire non solo (che è banale) come un fustigatore di ogni burocrazia, o come un critico dei mastodonti statali, ma anche come il profeta dello stato totalitario. Il quale si regge, piú di quanto non si usi notare, proprio sull’assurdità delle sue disposizioni, dato che riesce a concentrare e disperdere l’attenzione dei sudditi in labirinti logici nei quali li può meglio asservire, o, se vuo...