Chirù
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Chirù

  1. 152 pagine
  2. Italian
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Informazioni sul libro

Quando Eleonora e Chirú s'incontrano, lui ha diciotto anni e lei venti di piú. Le loro vite sembrano non avere niente in comune. Eppure è con naturalezza che lei diventa la sua guida, e ogni esperienza che condividono - dall'arte alla cucina, dai riti affettivi al gusto estetico - li rende piú complici. Eleonora non è nuova a quell'insolito tipo di istruzione. Nel suo passato ci sono tre allievi, due dei quali hanno ora vite brillanti e grandi successi. Che ne sia stato del terzo, lei non lo racconta volentieri. Eleonora offre a Chirú tutto ciò che ha imparato e che sa, cercando in cambio la meraviglia del suo sguardo nuovo, l'energia di tutte le prime volte. È cosí che salgono a galla anche i ricordi e le scorie della sua vita, dall'infanzia all'ombra di un padre violento fino a un presente che sembra riconciliato e invece è dominato dall'ansia del controllo, proprio e altrui. Chirú, detentore di una giovinezza senza piú innocenza, farà suo ogni insegnamento in modo spietato, regalando a Eleonora una lezione difficile da dimenticare. Michela Murgia torna al romanzo, e lo fa con coraggio, raccontando la tensione alla manipolazione che si nasconde anche nel piú puro dei sentimenti. Negli occhi di Eleonora e Chirú è scritta la distanza fra quello che sentiamo di essere e ciò che pensiamo di dovere al mondo: l'amore è la piú deformante delle energie, può chiederci addirittura di sacrificare noi stessi.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
ISBN
9788858420942

Lezione diciassette

Cenammo in una pizzeria del centro e poi restammo gran parte della notte accoccolati sul letto a parlare, complici come se l’adolescenza di uno valesse per due.
Quando l’alba accese di sole le fessure delle persiane mi ritrovai ancora sveglia a guardare il ragazzo dormire libero sul mio letto. Si era tolto le scarpe, ma aveva i calzoni addosso e sulla nudità del torace le vene azzurre affioravano lievi dalla trasparenza della pelle chiara, appena stellata dai nei. Non ho mai creduto che l’abbandono del sonno faccia tornare bambini, quasi che i sogni fossero un posto sicuro o l’infanzia una condizione di resa che solo crescendo si attrezzi ad armarsi. Io ad arrendermi ho imparato da adulta; da bimba nel sonno ci cadevo agguerrita, con i pugni stretti, e al mattino mi svegliavo indolenzita dalla tensione della lotta. Non ricordavo di aver mai affrontato i miei sogni in un luogo pubblico, meno che mai di giorno, e avevo sempre guardato con invidia a chi era cosí forte da potersi permettere di arrendersi al sonno in fronti non protetti come il treno o la spiaggia.
Chirú era proprio cosí: dormiva dischiuso come un fiore all’ombra, incurante del mio sguardo. In quella morbidezza non vedevo alcuna fragilità, ma una forza latente cosí consapevole da sentirsi al sicuro persino nell’incoscienza.
Nella penombra della camera d’albergo avevo centrato tutto il nostro parlare su di lui, cercando di recuperare i passaggi che il telefono non era stato capace di restituirmi con la precisione che avevano in quel momento i suoi occhi. Mi aveva raccontato dei progressi col violino, del recital che stava preparando per Pasqua, del rapporto guardingo con i suoi genitori in conseguenza del nostro incontro. Aveva anche cominciato ad andare in piscina.
Dopo le cose quiete mi parlò dell’abbandono che aveva patito dalla sua ragazza, e della ferocia giovanile con cui lei gli aveva detto: «Desidero un altro».
– Poteva lasciarmi e basta. Le altre scelte riguardano lei.
Gli era difficile credere che esistesse qualcuno incapace di distinguere la sfumatura tra sincero e brutale. Provai a spiegargli che non essere crudeli in nome della verità è un punto di arrivo, e che se quella ragazza non lo aveva ancora raggiunto forse apparteneva al numero di quelli che non lo raggiungono mai. Aveva perso tempo con lei, a meno che non avesse imparato qualcosa su di sé, ed era proprio quello che volevo capire.
– Sarei curiosa di sapere che nome dai a quello che ti ha fatto…
– Dolore, ma piú che altro rabbia. Come se mi volesse far credere che in fondo mi stava lasciando per colpa mia, per qualcosa che io non ero stato capace di darle e che lei però non era capace di spiegarmi. Una specie di condanna senza accusa, se capisci cosa intendo.
Con un gesto nervoso si sdraiò di schiena intrecciando le mani dietro la nuca e guardò il soffitto con astio. Capivo cosa intendeva, ma in quella sua rabbia in realtà non c’era alcun amore, e spiegarglielo non serviva. Chirú doveva ancora incontrare una felicità degna di quel nome; solo allora avrebbe avuto il diritto di chiamare dolore la catastrofe infinita di perderla.
Leggemmo qualche pagina da un libro che mi aveva portato, una piccola storia francese che parlava di una valle da cui tutti gli uomini erano partiti per la guerra e dove le donne lasciate a sé stesse avevano fatto del primo maschio capitato lí per caso il marito di tutte. A un certo punto mi resi conto dell’ora trascorsa, recuperai il cellulare e digitai a Martin un rapido messaggio di buonanotte. Chirú notò il gesto ma non commentò, e io approfittai di quel silenzio per aprire subito un nuovo fronte.
– Con Luca come va?
– Gli orari di lezione non sono gli stessi, ci vediamo meno…
Era sfuggente e cercava di attribuire a questioni logistiche la dissolvenza della sua amicizia proprio come pochi mesi prima gliene aveva attribuito il sorgere. Ma non eravamo piú all’inizio dell’affiancamento e non glielo permisi.
– Ancora con questa sciocchezza. Se volessi vederlo davvero troveresti il tempo e il modo. Non vuoi piú vederlo?
Continuò a fissare lo schermo neutro del soffitto e non lo biasimai: l’intonaco non lo giudicava.
– Mi annoia, ha pochi argomenti che non siano la musica e in fondo non abbiamo molto altro in comune.
– Sono perplessa… Ti ho incontrato a ottobre che avevi una ragazza e un migliore amico, e ora la ragazza ti ha lasciato e il tuo amico ti annoia. Visto da fuori non è un gran progresso.
Mi guardò. Nel chiarore lunare che imperlava la stanza la sua camicia bianca appesa alla sedia risplendeva come un fantasma. Ressi il suo sguardo mentre replicava.
– Lo è, eccome. Mi hai mostrato troppe cose appassionanti perché una birra col vicino di casa mi possa bastare.
– Credo di averti già detto che uno dei prezzi della consapevolezza è la solitudine, ma forse mi sono dimenticata di specificare che è vero solo se ne hai poca.
– Di solitudine? Ne ho quanta ne vuoi.
– Di consapevolezza. Ne basta un po’ per allontanarti da quello che non ti sembra all’altezza, ma ne serve tanta di piú per tornare indietro a prendertene cura. Se ti senti superiore a Luca non è perché sai piú cose di lui, ma perché non ne sai ancora abbastanza.
Sciolse le mani dietro la nuca e mi rivolse uno sguardo teneramente accusatorio. – Non sono le cose, Eleonora… sei tu. Il resto mi sembra superficiale e piatto, non mi spiazza. Non so come ho fatto a viverci dentro fino a ora credendomi felice.
Mi sfiorò i capelli piano e mi parve che a guidarlo fosse l’ingenua convinzione che la loro insensibilità ne facesse un gesto innocuo. Congiunti soltanto alla testa, i capelli sono il vicolo cieco piú pericoloso del corpo: a imboccarli si corre il rischio di arrivare fino in fondo, accorgendosi troppo tardi che non si può piú fare inversione. Un giorno la sua mano avrebbe compiuto quel gesto sapendo cosa stava facendo, e per un attimo mi sorpresi a rimpiangere che il giorno non fosse quello. Chiusi gli occhi perché l’ombra di quel pensiero insano non li scurisse fino a rivelarsi. Mi fraintese.
– Sei stanca?
– Un po’ sí.
– Sono le quattro, in effetti. Dovremmo dormire.
Lo disse a titolo provocatorio, perché non fece nulla per raggiungere la sua stanza. Prese invece un cuscino, se lo mise sotto la testa e mi fissò. Se c’era un momento giusto per dirgli di andare via era quello, ma io non lo feci e a lui bastarono pochi istanti per capire che non lo avrei fatto. Sorrise appena e si addormentò cosí, fiero per intero e svestito per metà, lasciandomi a vegliarlo fino al nuovo giorno.
Quando sorse il sole gli accostai l’orecchio alla bocca dischiusa nel sonno e mi parve per un attimo di sentire il mare.
– Guardando questa roba non hai l’impressione che tutto quello che si poteva fare sia già stato fatto?
Fermo davanti al Genio della Vittoria di Michelangelo, Chirú nella sua giacca color vino lo osservava come fosse un binario da dove il treno era appena partito lasciandolo a terra. Era evidente che la grandiosità delle sale di Palazzo Vecchio, quasi soffocanti nella loro esuberanza di colori e stucchi, per lui non riusciva a competere con la bellezza di quel marmo scolpito.
Lo avevo trascinato a quella mostra perché godesse non solo delle statue e dei disegni di Buonarroti, ma soprattutto della spregiudicatezza con cui erano stati abbinati a sedici opere di Jackson Pollock, supponendo una temeraria continuità di discorso tra il maestro del Rinascimento e quello della contemporaneità.
– È una fortuna che Michelangelo non abbia pensato lo stesso guardando le sculture classiche, – risposi. – Credo sia solo questione di avere il coraggio di prendere il ritmo del proprio tempo.
Girò intorno alla statua, per niente convinto dalle mie parole.
– Non lo so… L’altro giorno guardavo il video di Rostropovič che suona mentre buttano giú il muro di Berlino, hai presente, e pensavo che non è questione di tenere bene il tempo se hai sbagliato il tempismo. Essere giovane a volte significa solo essere arrivato in ritardo. Io non ce l’ho un muro di Berlino da far cadere a colpi di note.
– Veramente è caduto a colpi di piccone. Forse hai sbagliato strumento, ci hai pensato?
Si girò a guardarmi divertito.
– Ti pare che abbia il fisico del picconatore?
– Non meno del carattere del violinista, direi.
– Mettimi alla prova e ti stupirò.
– Me? Hai fior di professori da far restare a bocca aperta in Conservatorio, Paganini.
– Intendevo davanti a un direttore, in un’orchestra vera.
Ci guardammo per un istante, poi lui distolse gli occhi e si spostò verso l’esposizione, fermandosi davanti a uno dei bozzetti di Pollock che il curatore aveva rintracciato come imitazioni giovanili dei disegni di Michelangelo. Osservammo l’imperizia evidente con cui la sua mano aveva cercato di riprodurre la perfezione delle forme del maestro: per diventare innovatori a volte occorre far passare la fantasia attraverso un deserto di frustrazione. Chirú parlò all’improvviso.
– Sei rimasta in rapporti buoni con quello dell’Opera di Stoccolma?
Con le mani nelle tasche dei jeans fissava serafico il bozzetto come non avesse altro orizzonte.
– Sí, – mormorai.
– Abbastanza buoni da chiedergli un’audizione per me?
– Ripeti, perché non sono sicura di aver sentito bene. Mi stai veramente chiedendo una raccomandazione?
Distolse gli occhi dal disegno per guardarmi. Sorrise, ma nello sguardo c’era qualcosa di duro.
– Un’opportunità, semmai. Visto che adesso lo conosci meglio.
Colsi nella sua voce un’inflessione allusiva che mi colpí, e mi venne il dubbio che in realtà stessimo parlando di qualcos’altro. Il sospetto mi annerí l’umore di colpo, strinandolo di rabbia. Arretrai di un passo verso il centro della Sala dei Gigli e non risposi. Lui fece lo stesso e mi venne accanto alzando il naso verso gli esagoni dorati del soffitto in una pretesa di disinvoltura che non mi ingannò neppure un istante.
– Dovrebbe solo ascoltarmi, – proseguí. – Se non gli piaccio pazienza, studierò meglio e di piú per un’altra occasione, ma magari invece…
– Non permetterti di domandarmelo di nuovo.
Quel tono categorico non me lo aveva mai sentito usare, ma non rinculò come mi aspettavo. Abbassò gli occhi dal soffitto ai miei e vidi che invece gli brillavano di sfida.
– Perché no? Sei la mia maestra. Se hai stima del mio talento dovresti aiutarmi a valorizzarlo.
– Da quando sei tu che decidi come ti devo valorizzare?
– Da quando mi nascondi le cose che hanno valore.
Ci squadrammo. Era pallido e non faceva piú finta di sorridere. La sala era riscaldata dal sole già tiepido di aprile, ma sentii freddo e mi strinsi la borsa contro il corpo. Non volevo stare lí un minuto di piú. Voltai le spalle a Chirú e cercai l’uscita, decisa a tornare in albergo. Lui mi seguí e per strada mi affiancò senza aprire bocca, le mani in tasca e il passo misurato sul mio. Prese la chiave della sua stanza, ma quando l’ascensore si aprí fu verso la mia che si diresse. Mi voltai decisa a non permettergli ulteriore vicinanza.
– Non voglio continuare questa conversazione.
– Quale conversazione? Siamo in silenzio da venti minuti.
Aprii la porta della stanza e ne occupai la soglia, guardandolo bellicosa. Fu lui a parlare di nuovo.
– Se non vuoi parlarmene vuol dire che è importante davvero.
Aveva perso l’aggressività, ma al suo posto era subentrata una sorta di malinconia spiacente, quasi che nell’osservarmi cogliesse a sua volta qualcosa che lo fer...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Chirú
  4. Lezione uno
  5. Lezione due
  6. Lezione tre
  7. Lezione quattro
  8. Lezione cinque
  9. Lezione sei
  10. Lezione sette
  11. Lezione otto
  12. Lezione nove
  13. Lezione dieci
  14. Lezione undici
  15. Lezione dodici
  16. Lezione tredici
  17. Lezione quattordici
  18. Lezione quindici
  19. Lezione sedici
  20. Lezione diciassette
  21. Compimento finale
  22. Ringraziamenti
  23. Il libro
  24. L’autrice
  25. Della stessa autrice
  26. Copyright