Tempo senza scelte
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Tempo senza scelte

  1. 120 pagine
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Tempo senza scelte

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Un uomo «sempre presente a sé stesso, sempre domatore, che non s'arresta di fronte a nulla», capace di agire con coscienza e di non arrendersi alle allucinazioni collettive. A questo tipo morale si riferiva il «giovane prodigioso» Piero Gobetti, in lotta con il suo tempo. Per esplorare lo spazio della scelta, del dubbio etico, della costruzione di sé come individui, questo libro interroga storie di esseri umani di fronte a un bivio. Giovani temerari nella realtà e nel mito, figure della filosofia e della grande letteratura alle prese con decisioni radicali, estremiste, e soprattutto durevoli. Dagli interrogativi di Kierkegaard al «no» perentorio di un personaggio di Melville, da un Benjamin pressato dall'orologio della Storia a un Calvino in cerca di una strada coerente, il corpo a corpo con la propria identità appare senza uscita. E oggi? L'identità «allargata» e «aggiornabile» si traduce in un desiderio di vivere su piú fronti insieme, perché scegliere davvero comporterebbe rischi e rinunce. Ma forse in ogni tempo c'è una via piú difficile e impervia, per arrivare a essere, come voleva Gobetti, «sé stessi dappertutto».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
ISBN
9788858423820

VI.

Tempo senza scelte?

«Certo che hai scelta».
Newark, estate di guerra 1944. Come se non bastasse il conflitto mondiale, infuria anche un’epidemia. La poliomielite, nel caldo umido di una città circondata da acquitrini, si propaga velocemente e attacca soprattutto i bambini. Un ventenne che, per problemi di vista, non è partito per il fronte, si trova a fare i conti con la polio in una veste scomoda: quella di animatore di un campo giochi. Si chiama Bucky Cantor ed è il protagonista del romanzo pubblicato da Philip Roth prima di congedarsi dalla scrittura, Nemesi. Un piccolo capolavoro di cui pochi lettori si sono accorti, dando stupidamente per scontato che il vecchio Roth non fosse piú all’altezza dei suoi libri maggiori. E invece, quasi ottantenne, ha costruito una impressionante meditazione sulla scelta in forma di romanzo: Mr Cantor vede ammalarsi e morire i suoi giovanissimi allievi ed è solo davanti all’insensatezza del male. Il nonno che l’ha cresciuto non c’è piú, ma gli aveva insegnato – piú a esempi che a parole – che «ogni impegno nella vita di un uomo è permeato di responsabilità». L’occhialuto Cantor impara la lezione tanto da guadagnarsi il soprannome Bucky, «per la connotazione di ostinatezza e insieme di ardimentosa ed energica forza di volontà». Bucky non si perde d’animo, incoraggia i bambini, li invita a non cedere alla paura, che dilaga in città. «Non sarebbe meglio che restassero a casa finché non passa?», domanda una madre spaventata a Mr Cantor. Ma lui resiste, anche quando – a seguito della morte del piccolo Alan –le domande si fanno pressanti: cosa si può fare? Cosa avremmo dovuto fare? Perché è morto? Dove sta la giustizia?
I bambini continuano ad ammalarsi e a morire. Tocca al piccolo Herbie. «Deceduto? Cosa aveva a che fare quella parola con il paffuto, rotondo, sorridente Herbie? […] Mr Cantor corse lungo il corridoio del seminterrato fino ai bagni usati dai ragazzi e, alla mercé della propria pena, incapace di far fronte alla prostrazione, prese lo spazzolone del bidello, un secchio d’acqua e un flacone da quattro litri di disinfettante e lavò l’intero pavimento, sudando copiosamente mentre lavorava».
Come l’eroe greco che si ribella a una arbitraria e insensata punizione divina, Mr Cantor reagisce, fa tutto il possibile, e lo fa in modo energico, disperato, cieco. Non ha intenzione di arrendersi. Si rivolta contro Dio, per aver ucciso Alan e gli altri con la polio a dodici anni, per l’esistenza stessa della polio: «Come poteva esserci il perdono – per non parlare degli alleluia – di fronte a una tale folle crudeltà?» Le parole del dottor Steinberg, il papà della fidanzata di Bucky, sembrano rispondere a questi terribili interrogativi con calma e con saggezza: «Hai dimostrato la tua competenza, hai dimostrato la tua equanimità… è ciò che i ragazzini hanno bisogno di vedere. Bucky, ora sei scosso da quel che sta succedendo, ma anche agli uomini forti viene la tremarella». Per qualunque adulto, conclude il dottor Steinberg, è difficile accettare quanto sta accadendo. Roth è magistrale, con la sua prosa sobria, precisa, non si lascia sfuggire una sola declinazione della paura umana: quando diventa rabbia, quando si alimenta di ignoranza, di superstizione, quando uccide ogni forma residua di intelligenza. Quando la ottunde con la sensazione di non avere scelta.
Bucky è di fronte a un bivio: vorrebbe raggiungere la sua promessa sposa, Marcia, in un campo estivo nelle Pocono Mountains. Ha l’occasione di lasciare Newark per sostituire un animatore chiamato sotto le armi. «Devo andarci. Non ho scelta», spiega Bucky al suo superiore. «Certo che hai scelta, – risponde lui. – Stai fuggendo davanti alla polio. […] Stai solo scappando». Nel rassicurante, luminoso paesaggio delle Pocono, lontano dal caldo equatoriale di Newark e dalla polio, vicino alla ragazza che ama, Bucky non riesce a distogliere il pensiero dalla guerra che ha disertato – «la guerra che si ingaggiava sul teatro di battaglia del suo campo giochi»: «Se non poteva combattere in Europa e nel Pacifico, avrebbe potuto almeno restare a Newark e combattere la paura della polio al fianco dei suoi ragazzi in pericolo». Mr Cantor si rimprovera l’errore piú grave: ha ceduto alla paura, all’incantesimo – cosí lo chiama Roth – della paura, «aveva tradito i suoi ragazzi e tradito sé stesso, quando l’unica cosa che avrebbe dovuto fare era restare dov’era e fare il suo lavoro». Quando Marcia prova a convincerlo che non deve avere rimorsi («Ma anche se fossi rimasto, cosa avresti potuto fare?»), la risposta è perentoria: «Non è questione di fare… è questione di esserci! Ora dovrei essere là, Marcia! Invece sono nel mezzo di un lago in cima a una montagna!»
La sfida di Bucky Cantor all’insensatezza del male è commovente. Tanto piú di fronte a un ulteriore imprevisto: un caso di polio si manifesta anche nel campo estivo delle Pocono. E l’untore è lo stesso Bucky che, aggredito infine dalla malattia, non riuscirà a liberarsi da un duplice senso di colpa. L’ultima scelta sarà quella di allontanare Marcia da sé: «Non volevo che quella ragazza si sentisse incastrata con me. Non volevo rovinarle la vita. Non si era innamorata di uno storpio, e non doveva rimanere incastrata con uno storpio». Eccolo, nella vita di Mr Cantor, il punto in cui «la scelta è piú della somma di tutte le scelte compiute prima» – ed è una dolorosa resa dei conti con sé stessi, con la volontà di essere all’altezza di un ideale. Una «austera bontà naturale» impedisce a Bucky di rassegnarsi alle sofferenze altrui, di riconoscere i propri limiti senza sentirsene in colpa. Ma è rifiutando l’amore di Marcia – un atto eroico a rovescio – che Bucky si autocondanna definitivamente. Sceglie, nel suo «tempo senza scelte», assediato dalla paura.
Leggere Nemesi spinge a riflettere sull’eterno rapporto tra il nostro margine di scelta e la sensazione di «essere scelti» – da ciò che qualcuno chiama caso, altri destino. Noi e l’insondabile. Noi, il dolore lontano e quello piú vicino. Ciò che solo ci sfiora e ciò che ci investe, ci travolge. Le nostre scelte che hanno effetto sugli altri – i bambini del campo scuola, Marcia –, le nostre scelte che hanno effetto su di noi, sul nostro futuro. Anche nel tempo piú pacifico, la furia di una nemesi inspiegabile può abbattersi sulle comunità e sui singoli. E chiamarci a una scelta, magari inefficace, magari vana. «Non è questione di fare… è questione di esserci», esclama Bucky Cantor, e riassume una verità da cui molte volte siamo stati toccati. Scegliere di esserci, di restare al nostro posto, anche se non serve a niente. Scegliere di non cedere alla paura. Nella vita cosiddetta privata, in quella cosiddetta pubblica.
Gli effetti collaterali della paura.
Roth mette al centro del suo racconto questa variabile fuori controllo che chiamiamo paura, gli effetti che ha sulle nostre singole vite e sulla collettività. Non c’è epoca al riparo. Il ventunesimo secolo, inaugurato retoricamente nel segno della pace e della non violenza, ha scosso le apparenti sicurezze dell’Occidente una mattina di fine estate, settembre 2001.
C’è un effetto collaterale della paura che coincide con «il desiderio soverchiante di chiamare le persone a cui vuoi bene». Cosí scriveva David Foster Wallace, assistendo – dal salotto di casa di un’americana qualunque, la signora Thompson – alla tragedia dell’11 settembre. C’è un altro effetto collaterale che ci fa sentire spaventati quanto piú si parla di sicurezza. «Sei l’unico a essere sfuggito al ventesimo secolo!», grida un vecchio padre inglese a suo figlio, in un racconto di Hanif Kureishi. Una famiglia segnata dalle catastrofi del Novecento come si affaccia sull’alba del Duemila? C’è un effetto collaterale che porta il malinteso a dominare l’intero pianeta: «Come possiamo fidarci di noi stessi?», si domanda il protagonista di Sabato, un romanzo di Ian McEwan. Un solido neurochirurgo guarda dalla finestra le strade di Londra invase, il 15 febbraio del 2003, da manifestanti pacifisti contro la guerra in Iraq. Un aereo che attraversa il cielo a un’altezza insolita lo fa sobbalzare. Quanto al figlio adolescente, l’11 settembre ne ha sancito «l’ingresso forzato nel panorama internazionale». «È stato il momento in cui ha accettato che, pur esulando da amici, famiglia e mondo della musica, un evento potesse avere impatto sulla sua esistenza». Mentre il padre di mezza età, sotto la doccia, si proietta mentalmente in un futuro potenziale in cui vecchi accovacciati intorno a un fuoco racconteranno di «un tempo in cui si stava nudi in pieno inverno, sotto getti di acqua calda e pulita, con in mano pezzi di sapone profumato».
C’è un effetto collaterale che spinge a pensare che alla sofferenza di una città-simbolo si debba attribuire «uno status privilegiato di rivelazione». Cosí, a poche settimane dagli attentati di New York, Jonathan Lethem metteva in guardia dal rischio – «assurdo e vergognoso» – di usare la morte di valorosi pompieri «a fini bellici». «Non domandatemi – proseguiva Lethem – come sia cambiato il mondo: domandatemi come sono cambiato io». E noi quanto siamo cambiati, quanto stiamo cambiando? Gli effetti collaterali della paura di questo primo quindicennio del ventunesimo secolo polverizzano ogni certezza. E – assecondando un metronomo fuori fase – ci mettono davanti a un muro, ci ripiombano nell’incubo della «fine di qualcosa». La vita di ogni giorno in Occidente, i suoi ritmi, i suoi riti.
Eppure – faceva notare Susan Sontag in uno dei suoi ultimi, brucianti saggi, Davanti al dolore degli altri – l’inizio di un’«età dello shock» potrebbe risalire alle istantanee che, dal 1914, piovevano sul continente documentando l’orrore delle trincee. Stefan Zweig, già in un articolo della prima estate di guerra, descriveva un’Europa in cui gli uomini «di notte, ascoltano gli orologi camminare senza posa nella terrificante via da luce a luce, e si sentono consumare e rodere dentro senza tregua dal tarlo delle preoccupazioni e dei pensieri, fino a quando il cuore non si affligge e si ammala». Ora l’umanità tutta è agitata, scriveva Zweig, «piú breve è ora il sonno del mondo, piú lunghe le notti e piú lunghi i giorni».
Cent’anni e due immani guerre dopo, un’angoscia senza nome si rimpossessa di noi. «Di colpo i nostri orologi ripartirono da zero», scrive Ricardo Menéndez Salmón nel romanzo Il correttore, che inizia a Madrid la mattina dell’11 marzo 2004. «Quando il primo treno saltò in aria spargendo sulle nostre piccole vite un’alluvione di sangue, rabbia e paura, io ero seduto al mio vecchio tavolo di frassino». Saltano in aria i treni e tu sei alla scrivania. Nessuna guerra sembra dichiarata apertamente, il nemico è imprevedibile e non ha volto. Il Vecchio Continente, abituato alla dialettica illuminista, conta i morti e apre la discussione politica.
«Nella Madrid post 11 marzo c’era un ribollire di attività di fondazione: varie tavole rotonde con politici di second’ordine e cattedratici di prim’ordine e giornalisti locali e uno o due borsisti, sull’attentato e i suoi effetti politici». Cosí, lo scrittore americano Ben Lerner fotografa la capitale spagnola nel romanzo Un uomo di passaggio. Ma proprio nel decennale degli attentati, i quotidiani spagnoli si sono interrogati sull’assenza di un grande romanzo sull’11 marzo (o sul 7 luglio di Londra). Mentre la narrativa americana ha quasi immediatamente messo a fuoco il grande trauma: da DeLillo a Foer, da Updike che si metteva nei panni di un terrorista a Pynchon che ha descritto con mano felice, nel romanzo La cresta dell’onda, il panico che diventa isteria, l’isteria che diventa stato di ansia permanente.
«Voglio farmi emozionare dalle piccole cose. Camminare scalzo sulla spiaggia. Mangiare il cono del gelato. Voglio amore. Andare di piú in bicicletta. Voglio guardare di piú negli occhi. Dire la verità, di piú. E, inoltre, voglio tornare a casa». Appartiene a uno scrittore israeliano, Eshkol Nevo, classe 1971, questo canto alla normalità. I grandi narratori del Medio Oriente raccontano da decenni l’impasto di tragedia e quo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Tempo senza scelte
  3. I. Una veritàper me
  4. II. Il tempo della scelta
  5. III. Giovani temerari
  6. IV. Scegliere nell’inferno
  7. V. La scelta di uno scrittore
  8. VI. Tempo senza scelte?
  9. I libri di questo libro
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Copyright