La città dei vivi
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La città dei vivi

  1. 496 pagine
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La città dei vivi

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Nel marzo 2016, in un anonimo appartamento della periferia romana, due ragazzi di buona famiglia di nome Manuel Foffo e Marco Prato seviziano per ore un ragazzo piú giovane, Luca Varani, portandolo a una morte lenta e terribile. È un gesto inspiegabile, inimmaginabile anche per loro pochi giorni prima. La notizia calamita immediatamente l'attenzione, sconvolgendo nel profondo l'opinione pubblica. È la natura del delitto a sollevare le domande piú inquietanti. È un caso di violenza gratuita? Gli assassini sono dei depravati? Dei cocainomani? Dei disperati? Erano davvero consapevoli di ciò che stavano facendo? Qualcuno inizia a descrivere l'omicidio come un caso di possessione. Quel che è certo è che questo gesto enorme, insensato, segna oltre i colpevoli l'intero mondo che li circonda.
Nicola Lagioia segue questa storia sin dall'inizio: intervista i protagonisti della vicenda, raccoglie documenti e testimonianze, incontra i genitori di Luca Varani, intrattiene un carteggio con uno dei due colpevoli. Mettersi sulle tracce del delitto significa anche affrontare una discesa nella notte di Roma, una città invivibile eppure traboccante di vita, presa d'assalto da topi e animali selvatici, stravolta dalla corruzione, dalle droghe, ma al tempo stesso capace di far sentire libero chi ci vive come nessun altro posto al mondo. Una città che in quel momento non ha un sindaco, ma ben due papi.
Da questa indagine emerge un tempo fatto di aspettative tradite, confusione sessuale, difficoltà nel diventare adulti, disuguaglianze, vuoti di identità e smarrimento. Procedendo per cerchi concentrici, Nicola Lagioia spalanca le porte delle case, interroga i padri e i figli, cercando il punto di rottura a partire dal quale tutto può succedere.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
ISBN
9788858434864
Parte prima

Commensali dell’uomo

Roma è l’unica città mediorientale che non possiede un quartiere europeo.
FRANCESCO SAVERIO NITTI
Non attribuiamo i guai di Roma agli eccessi di popolazione. Quando i romani erano solo due, uno uccise l’altro.
GIULIO ANDREOTTI
Il 1o marzo del 2016, un martedí con poche nuvole, i cancelli del Colosseo si erano appena spalancati per consentire ai turisti di ammirare le rovine piú famose del mondo. Migliaia di corpi camminavano verso le biglietterie. Chi inciampava nei sassi. Chi si alzava sulle punte per misurare la distanza dal Tempio di Venere. La città, lí sopra, cucinava la rabbia nel proprio stesso traffico, negli autobus in avaria già alle nove del mattino. Gli avambracci scandivano gli insulti dai finestrini aperti. A bordo strada i vigili compilavano multe che nessuno avrebbe mai pagato.
«Seee… vajelo a di’ ar sindaco!» L’addetta alla biglietteria numero quattro scoppiò in una risata beffarda, provocando l’ilarità delle colleghe.
L’anziano turista olandese la guardò stupito al di là del vetro. Nel pugno brandiva i due biglietti falsi che due falsi addetti al sito archeologico gli avevano venduto poco prima.
Questa, di andare a protestare dal sindaco, era tra le battute piú ripetute delle ultime settimane. Nata negli uffici comunali, si era diffusa tra i tassisti e gli albergatori e i netturbini e i venditori di grattachecche a cui pure, in mancanza di una piú chiara autorità, i turisti chiedevano aiuto tra gli infiniti disservizi cittadini.
L’olandese aggrottò le sopracciglia. Possibile che anche la vera autorità, quella in divisa ufficiale, lo stesse prendendo in giro? Alle spalle la folla aumentava il suo brusio.
«Il prossimo!»
Il turista olandese non si mosse.
L’addetta alla biglietteria lo stette a osservare, le si dipinse in faccia un riso freddo.
«Next one!»
Molti di quei turisti avevano trascorso la notte negli alberghi economici del rione Monti, nei bed and breakfast scalcagnati intorno a Porta Maggiore. Col naso per aria ad ammirare un angelo, si erano ritrovati faccia a terra. Inciampati in una busta di immondizia, nel palo divelto di un segnale stradale. In alto il marmo candido, per strada i topi. E i gabbiani mangiavano i topi. I male informati avevano atteso invano un autobus, ma poi si erano diretti a piedi al Colosseo. Adesso erano là. Ci sarebbe stato da arrabbiarsi per la lentezza della fila, ma la morta bellezza li soverchiava tutti: il cielo sugli archi di travertino, le colonne vecchie di duemila anni, la basilica di Massenzio. Nello splendore risuonava la minaccia, come se le potenze invisibili avessero la facoltà di trascinare chi le contrariava nel regno delle ombre. Un rischio che ai romani non faceva né caldo né freddo.
L’addetta alla biglietteria serví un altro turista. Cosí fece il collega della cabina accanto. La folla lí davanti era imponente, ma avevano visto di peggio. Il Giubileo della Misericordia era iniziato male. Un flop, scrivevano i giornali ostili al papa. L’anno della remissione dei peccati, della riconciliazione, della penitenza sacramentale non attirava piú pellegrini di quanti ne arrivassero per festeggiare l’anno delle libagioni, dell’anarchia impunita, dello scaricabarile.
Il vecchio turista olandese abbandonò la fila. Si incamminò verso piazza dei Cinquecento. Accanto a lui un ragazzo. Raggiunsero il livello della strada, scomparvero tra gli oleandri.
«Ahò, cos’è ’sta puzza?», sbottò l’addetta alla biglietteria. Aveva gli occhi fissi sullo schermo, la mano governava il mouse.
Un turista cinese aspettava i suoi tagliandi.
Dopo avere dato l’ordine di stampa, l’addetta alla biglietteria si guardò la mano. Fu allora che trasalí. Accanto al tappetino del mouse erano apparse due macchie rossobrune. L’addetta alla biglietteria non poté battere le palpebre che le macchie erano tre. E adesso sulla scrivania le macchie erano quattro.
«Oh Madonna!»
Il turista cinese indietreggiò. L’addetta alla biglietteria scattò in piedi spaventata, si sentí invadere dalla peggiore sensazione che un abitante di questa città ritenga di poter provare: la visita di una sventura che risparmi tutti gli altri. Guardò in alto. Le gocce cadevano dal soffitto. Allora l’addetta alla biglietteria fece ciò che tutti fanno a Roma quando il sangue gronda dalle pareti di un ufficio pubblico. Chiamò il suo superiore.
Poche ore dopo, due delle quattro biglietterie del Colosseo erano state chiuse.
«Il sangue di un topo morto», disse il soprintendente ai beni archeologici.
«Un sorcio?», fece qualcuno tra le ultime file. La folla ridacchiò.
Mercoledí 2 marzo. La conferenza stampa era stata convocata per celebrare la fine dei lavori di ristrutturazione intorno al Colosseo. Ma un cronista chiese a bruciapelo come mai due biglietterie fossero rimaste chiuse per tutto il giorno prima.
Il soprintendente fu costretto a scendere nei particolari. Un grosso topo grigio si era incastrato nel controsoffitto della biglietteria. Trafitto da una staffa, doveva essersi divincolato peggiorando la situazione. «L’operatrice in servizio si è vista colare il sangue sulla scrivania. Gli sportelli sono stati chiusi per la derattizzazione».
L’emergenza topi finí sulle prime pagine dei quotidiani. Negli ultimi tempi i roditori uscivano continuamente dalle fogne. Topi nella zona della stazione Termini. Topi in via Cavour. Topi a due passi dal Teatro dell’Opera. Attraversavano la strada incuranti del traffico. Entravano nei negozi di souvenir e spaventavano i turisti.
I giornali ricordarono che i topi a Roma erano piú di sei milioni. Anche a New York e a Londra i roditori non mancavano, solo che a Roma erano diventati i re della città.
«È quello che succede dopo anni di pessima amministrazione», dichiarò un urbanista.
«Il problema è soprattutto la gestione dei rifiuti, – disse un addetto alla disinfestazione, – ricordiamoci che i topi sono commensali dell’uomo».
A Roma la gestione dei rifiuti stava vivendo una stagione tragica. La spazzatura era ovunque. Gli autocompattatori marciavano a rilento. Grandi buste d’immondizia assediavano le strade. I paramedici del Sant’Eugenio (i topi scorrazzavano anche negli ospedali) dissero alla stampa che quello era lo scandalo definitivo, lo schiaffo che avrebbe costretto la città a risvegliarsi. Lo pensavano in molti. Subito dopo, però, venivano aggrediti dal sospetto di essere loro stessi ancora addormentati. L’ala di un gabbiano gigantesco riempiva d’ombra la città. I romani si ritrovavano cosí di nuovo a ridere.
«Seee, certo… vajelo a di’ ar sindaco!»
La battuta riscuoteva tanto successo perché a Roma, in quel periodo, un sindaco non c’era. Il comune era commissariato. Un’indagine giudiziaria denominata Mondo di Mezzo aveva messo a soqquadro la città. Erano sotto processo assessori, consulenti, notabili, dirigenti comunali, pubblici ufficiali, faccendieri, imprenditori, criminali comuni in numero stupefacente. Rarità nella rarità: a Roma c’erano due papi.
In momenti di simile confusione succedeva che gli abitanti di Roma, fedeli a un antico uso, scrutassero il cielo in attesa di un segno. Ma anche questo – cercare tra le nuvole un codice segreto – rischiava di suonare, nel 2016, come un’operazione truffaldina.
Venerdí 4 marzo fu commesso l’omicidio.
Il giorno dopo Roma fu inondata dalla pioggia.
Domenica 6 marzo, dopo una settimana di lavoro, Mario Angelucci se ne stava sprofondato sul divano a guardare la tv.
Era un uomo di cinquantaquattro anni, magro e stempiato. Lavorava in una radio locale. L’esperienza lo aveva reso sensibile all’ascolto delle voci. Quando era in studio, davanti alla consolle, non aveva bisogno di seguire il ragionamento dello speaker: sentiva la «coda» del discorso radiofonico, avvicinava il dito al tasto nero e lo stacchetto partiva mezzo secondo dopo che la voce aveva smesso di parlare.
Mario cambiò canale. Sbuffò. Cercò una nuova posizione tra i cuscini. A renderlo irrequieto era qualcosa che aveva sentito poco prima. Non aveva prestato la dovuta attenzione alle parole, sapeva però che era importante. Su Rai 1 ritrovò la notizia. La conduttrice del telegiornale stava dicendo che un ventenne era stato barbaramente ucciso in un appartamento alla periferia di Roma.
La telecamera mostrò un palazzo arancione che si stagliava tra gli alberi di fine inverno. Mario Angelucci sgranò gli occhi. L’omicidio era stato commesso a Roma, e lui era di Roma. Si era consumato tra Collatino e Colli Aniene, che era dove stava lui. Ma la tv stava mostrando da fuori la stessa finestra che lui avrebbe potuto spalancare da dentro se solo si fosse alzato e l’avesse raggiunta. Angelucci fu invaso da una delle sensazioni piú strane della sua vita. Gli sembrò di essere sotto lo sguardo di Dio. E cosa accade, di solito, quando Dio spalanca il proprio Occhio su di te?
«Via Igino Giordani 2».
A riprova che non stava impazzendo, la conduttrice del tg aveva appena scandito l’indirizzo di casa sua. Mario Angelucci scattò in piedi. Si diresse a passo svelto in corridoio. Il cuore gli batteva forte. Suo figlio aveva ventun anni, l’aveva visto l’ultima volta la sera prima, lui e sua moglie l’avevano salutato quando era uscito e non lo avevano sentito rincasare. Sabato sera. Il giorno della settimana in cui i ragazzi si ficcano nei guai.
Mario Angelucci arrivò in fondo al corridoio. Spalancò la porta. Una sgradevole puzza di chiuso lo stordí. Quindi la luce illuminò l’interno. Asciugamani, fumetti, calze appallottolate, un rotolo di carta igienica. Mario Angelucci vide le coperte rivoltate su un letto dove poteva essere successo di tutto e, sopra il letto, un bestione di un metro e novanta che russava in modo indecoroso.
Una settimana dopo, quando in Italia si parlava solo dell’omicidio, Mario Angelucci commentava l’accaduto con i colleghi.
«Rega’, peggio di un attacco de panico. Me so’ fatto un film che non stava né in cielo né in terra».
I colleghi della radio gli chiesero come avesse potuto credere che suo figlio fosse coinvolto in quella storia.
«Che vi devo dire, non me lo spiego manco io».
I giornali dicevano che l’omicidio era stato commesso in un appartamento del decimo piano.
«Conoscevi i proprietari?», chiese ad Angelucci uno dei colleghi.
«Giusto buongiorno e buonasera», rispose lui.
«Ma mentre stavi nel panico hai creduto che tuo figlio fosse il ragazzo morto, o l’assassino?»
«Per quanto mi riguarda, – rispose l’uomo, – poteva essere sia l’uno che l’altro. In questa città può succedere di tutto».
E a quel punto Angelucci, a cui il volto scavato e le labbra strette conferivano sempre un’espressione un po’ severa, si aprí in un magnifico sorriso. Sollievo. Sollievo per essere stato risparmiato, per essere stato ignorato, poiché nessuno sa in anticipo su chi si spalancherà l’Occhio, e per quanto certe tragedie colpiscano uno su centomila, quello sventurato deve pur esistere: su di lui si infrange – perché sugli altri resti intatta – l’illusione che certe cose a noi non potranno mai accadere.
Alle 13.30 di domenica 6 marzo Mario Angelucci sapeva che la sua famiglia era in salvo.
Poche ore dopo, dall’altra parte della città, l’avvocato Andrea Florita ricevette una telefonata. Florita aveva quarantaquattro anni. Fisico asciutto, sguardo aperto e intelligente, come molti colleghi si era preso lo studio a Prati. In città potere e meraviglia erano equamente distribuiti sulle due rive del Tevere. Sul lato destro i Fori Imperiali, il Quirinale, il governo nazionale. Sull’altro lato i tribunali, la Rai, la Cappella Sistina. Quella domenica Florita aveva trascorso la giornata con suo figlio. «Mio figlio è piccolo. Mentre sto con lui evito di accendere la televisione. Quando ho risposto al telefono non avevo idea di cosa fosse successo».
L’avvocato si trovò all’altro capo la voce di un uomo adulto.
«Buonasera dottor Florita, mi chiamo Giuseppe Varani. Mio figlio è stato assassinato».
Solo a tarda sera Florita capí di essere diventato l’avvocato di parte civile in uno dei processi piú clamorosi degli ultimi anni. Dopo avere parlato con Giuseppe Varani, tornando a casa, incontrò per strada un conoscente. Quest’ultimo gli chiese cosa pensasse dell’omicidio prima ancora che l’avvocato riuscisse a dirgli chi era il suo nuovo assistito.
Tutti chiedevano opinioni sull’omicidio. Soprattutto volevano dire la propria. In poche ore a Roma il delitto diventò il principale argomento di conversazione. Ne discutevano i tassisti a Termini, i baristi a piazza Bologna, le comitive di Monti e di Testaccio. Per non parlare di ciò che stava succedendo nelle case. Padri che litigavano con i figli. Mogli che ammonivano i mariti sulle conseguenze di un’educazione troppo libera, o al contrario troppo severa.
«Hai letto?» «Hai sentito?» «Hai visto che è successo?»
«Orrore alla periferia di Roma. Un ragazzo di 23 anni è stato ucciso in un appartamento del Collatino dopo essere stato torturato per ore. Il delitto è in apparenza privo di movente».
da «la Repubblica» del 6 marzo 2016
Sabato 5 marzo Manuel Foffo uscí di casa poco dopo le sette del mattino.
Aveva appuntamento con sua madre, con suo fratello Roberto e con i nonni materni. La giornata si preannunciava tutt’altro che allegra. Lo zio Rodolfo era morto. Avrebbero dovuto fare tappa al Gemelli, dove era stata allestita la camera ardente, e poi si sarebbero diretti a Bagnoli del Trigno, il paesino del Molise di cui suo zio era originario, e dove erano previsti i funerali.
Rodolfo era il fratello di Daniela...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La città dei vivi
  4. Parte prima. Commensali dell’uomo
  5. Parte seconda. Il pelo dell’acqua
  6. Parte terza. Il coro
  7. Parte quarta. In fondo al pozzo
  8. Parte quinta. I gabbiani
  9. Parte sesta. Il libro dell’incontro
  10. Riferimenti bibliografici
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Dello stesso autore
  14. Copyright