1. Il generale Paolo Puntoni, aiutante di campo del re Vittorio Emanuele III dal 1941 fino al 9 maggio 1946, giorno in cui il vecchio sovrano firmò l’atto di abdicazione, in un suo diario pubblicato di recente (gen. Paolo Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, Aldo Palazzi editore, Milano 1958) scrive sotto la data del 14 luglio 1943: «Oggi il sovrano si è lasciato sfuggire qualcosa di sintomatico. Mentre gli parlavo di voci che mi erano giunte a riguardo di una probabile visita del duce in Sicilia e mi esprimevo sulla inopportunità di tale decisione la quale avrebbe arrecato piú disagio che vantaggio per la preoccupazione di salvaguardare la persona di Mussolini, il sovrano ha detto: “Sarebbe grave se per un passo di questo genere il duce dovesse perdervi la vita o essere catturato; quantunque la cosa faciliterebbe la soluzione di questioni molto importanti”». Il lettore apprenderà piú avanti che il re, da molto prima del 4 luglio, dieci giorni innanzi il colpo di Stato, non aveva altra cura che quella di sbarazzarsi dell’incomodo suo presidente del Consiglio; e apprezzerà debitamente il macabro desiderio che saliva dal subcosciente del vecchio sovrano. Narra ancora Puntoni che, dette queste parole, il sovrano tacque un poco; poi aggiunse come parlando fra sé: «Non credo però che la voce del viaggio di Mussolini abbia fondamento; […] perché Mussolini non si mette mai in condizioni di grave pericolo».
2. «This diversion [la danza sul filo] is only practised by those persons who are candidates for great employments and high favour at court. They are trained in this art from their youth, and are not always of noble birth, or liberal education. When a great office is vacant, either by death or disgrace (which often happens), five or six of those candidates petition the emperor to entertain his majesty and the court with a dance on the rope; and whoever jumps the highest without falling succeeds in the office. Very often the chief ministers themselves are commanded to show their skill, and to convince the emperor that they have not lost their faculty»: J. Swift, Gulliver’s Travels, A Voyage to Lilliput, cap. III.
3. Il 3 gennaio del 1943, dopo un lungo silenzio dovuto alle cattive condizioni della sua salute, Mussolini insediando il Direttorio nazionale del partito di nuova costituzione, fece un discorso in cui disse di essere assolutamente sicuro della vittoria. «Io ho della vittoria una convinzione vorrei dire matematica». Perché ne è cosí sicuro? Da venti giorni le nostre truppe in Russia si ritiravano per le gelate lande sarmatiche, nell’orrore delle bufere di neve, quelle che non erano già state sopraffatte e accerchiate dalle forze nemiche; è la rovina di tutta la temeraria offensiva tedesca: ma lui non ne dice parola, come se non fosse successo nulla. Della rotta di El Alamein e della imminente caduta di Tripoli deve parlare; ma come una fatalità che bisogna accettare come inevitabile. «La battaglia non fu conclusiva (bell’eufemismo) perché mancò l’altro braccio della tenaglia. Bisognava che dal Caucaso fossero sboccate le truppe germaniche. Ma questo non è stato possibile – perché i tedeschi non sono riusciti a superare l’ostacolo di Stalingrado e l’esercito di Von Paulus è accerchiato? Oh no, – questo non è stato possibile perché chiunque abbia una vaga idea della geo-politica sa che tutte le valli lí sono parallele al mare; dopo una ce n’è un’altra, un’altra, un’altra ancora; e bisognava arrivare fino a Batum. Mancata questa manovra di ampio respiro strategico, la battaglia doveva finire cosí come è finita». C’è stato anche un altro grosso avvenimento: l’8 novembre gli americani sono sbarcati in Marocco; ma Mussolini è tranquillo, perché è accaduto «quello che non dei profeti, ma dei semplici osservatori delle cose umane avrebbero potuto prevedere». Gli inglesi poi hanno iniziato la loro vittoriosa offensiva sino a mangiarci tutta la Libia, soltanto perché «abbiamo perduto nel Mediterraneo un numero grandissimo di petroliere cariche di nafta, di benzina, di gasolio, tutti carburanti necessari senza dei quali le divisioni motocorazzate non funzionano». Ma poi, lo scopo precipuo di quell’offensiva è stato quello «di guastarci le nostre celebrazioni del ventennale». Nello stesso tempo «si iniziano i bombardamenti terroristici e scientifici, secondo l’espressione di Churchill, sulle città italiane». Considerato tutto questo rosario di sventure, «il popolo italiano ha oggi l’occasione storica per dimostrare di che tempra è fatto. […] Il popolo italiano terrà duro, il popolo italiano stupirà il mondo. Io vado incontro a questi mesi con un appassionato interesse e una certezza assoluta. L’ecatombe, la vera ecatombe del naviglio mercantile nemico, è veramente drammatica ed è uno degli elementi decisivi della nostra vittoria. Ad un certo momento i mari saranno pieni, letteralmente, di sottomarini italiani e tedeschi». Vaneggiamento di malato.
E malato era davvero, da un pezzo. Scrive il figlio Vittorio (Vittorio Mussolini, Vita con mio padre, Mondadori, Milano 1957) che suo padre ebbe i primi sintomi di un’ulcera duodenale il Natale del 1925. Disse Mussolini sette anni piú tardi al giornalista tedesco Ludwig: «Quando mi ammalai, nel 1925, e fui in pericolo di vita, tutto diventò incerto in Italia, problematisch, perché ero insostituibile». Il male lo riprese a intermittenze, con attacchi sempre piú frequenti e piú gravi. La fine del febbraio ’40 venne a Roma Sumner Welles, inviato da Chamberlain per vedere se fosse ancora possibile tenere l’Italia fuori del conflitto, e lo vide «greve, inerte; ogni passo pareva costargli fatica». Verso la fine del ’42 ebbe una ricaduta allarmante, corse la voce che stesse per morire, e qualcuno dei suoi luogotenenti pensò alla successione. Si disse che avesse presa l’ameba l’estate di quell’anno in Africa; i medici parlarono di una gastroenterite ipercloridrica. Bottai lo descrive, l’ottobre del ’42, con «il volto grigio, cinereo, le guance scavate, la bocca atteggiata a un senso di amarezza». Il ministro Gorla lo stesso mese lo trova «in uno stato pietoso»; ha l’impressione che «non afferri il senso delle parole». Verso la fine del novembre fu costretto a letto per parecchio tempo; e indebolito dalla dieta, abbattuto per i dolori che non gli davano tregua, pensò per un momento di cedere ad altri ciò che chiamava il comando supremo dell’esercito.
Invitato da Hitler a un colloquio in Germania a mezzo dicembre, prima mise come condizione, come narra Ciano, «di prendere i pasti nell’appartamento, da solo, “perché non vuol fare vedere a una pletora di tedeschi famelici che è costretto a nutrirsi di solo riso e latte”»; poi rinunciò al viaggio e mandò Ciano in suo luogo. La sua salute non migliorò in gennaio. Una nuova grave crisi lo indusse a partire per la Rocca delle Caminate; i medici chiamati a consulto gli trovarono, come conseguenza di un’ulcera duodenale, gastrite e duodenite cronica e tensione nervosa.
4. Nei colloqui di Casablanca, seconda metà del gennaio 1943, Churchill e Roosevelt stabilirono il principio che gli Stati Uniti e l’Impero britannico avrebbero condotto la guerra con inflessibile risolutezza (relentlessly) fino alla resa a discrezione (unconditional surrender) della Germania, del Giappone e dell’Italia.
5. Ciano nel suo Diario sotto la data del 15 gennaio ’43 scrive che Mussolini dalle Caminate, ove si trovava in preda a violenti spasimi, gli aveva telefonato quella mattina per sapere se fosse vero che aveva partecipato a una colazione in casa di Farinacci con Bottai, Scorza e altri. La colazione c’era stata veramente, l’8 gennaio. «Ma nulla di piú insignificante; un invito di Farinacci per vedere la sua nuova casa di campagna, una colazione pessima, una conversazione banale. Evidentemente c’è chi cercava di gettare nell’animo del capo diffidenze e sospetti; e mi dispiace che, per un secondo soltanto, egli possa cadere nel gioco». Ipocrituccio anche con se stesso, Ciano; ché non doveva avere la coscienza molto tranquilla. Certo se Mussolini avesse potuto assistere non veduto a quella «conversazione banale», non se ne sarebbe rallegrato. Farinacci e Bottai, esasperati per la perdita della Libia, fecero discorsi incendiarî. E disse Bottai: «In fondo, è un’altra meta raggiunta. Mussolini nel 1911 aizzando il popolo di Forlí a scendere in piazza per protestare contro la guerra italo-turca lanciò il motto “Via dalla Libia”. Dopo trentadue anni di quel motto ha fatto realtà».
6. Dino Alfieri dal gennaio 1936 fino all’ottobre 1939, Alessandro Pavolini dall’ottobre 1939 fino al febbraio del 1943, furono ministri della Cultura Popolare, cioè della Stampa e Propaganda. Virginio Gayda, direttore del «Giornale d’Italia» dal marzo 1926 fino al 25 luglio 1943, era ritenuto, con i suoi articoli di fondo, l’interprete piú autorizzato del pensiero e delle idee di Mussolini. Morí la primavera del 1944 di bomba aerea angloamericana nella sua abitazione (cfr. p. 342).
7. Il febbraio del ’43 Adolfo Tino, uno dei promotori di questo movimento, s’incontrò con il maresciallo Caviglia, che gli chiese se il suo partito sarebbe stato disposto a collaborare col re per rovesciare il regime; e Tino rispose che il suo partito era e rimaneva intransigentemente repubblicano. «Ma pure, – insistette Caviglia, – se il re fosse il solo strumento possibile per questo risultato…» «In questo caso, – disse Tino, – il partito potrebbe considerare l’eventualità di una forma di collaborazione senza discostarsi tuttavia da quella intransigenza». Caviglia si mise a ridere: «Sa la storia del cavaliere spagnolo caduto in un pozzo? Passa un portoghese e si affaccia. Lo spagnolo gli grida: se mi tiri fuori del pozzo avrai salva la vita».
8. Raccogliendo, qualche anno dopo aver pubblicato Roma 1943, il materiale per una biografia di Mussolini (Mussolini piccolo borghese), mi convinsi sempre piú che Mussolini, «con tutto il suo studio faticoso e testardo del tedesco, di fronte all’eloquenza abborracciata e confusa di Hitler, istericamente accentuata, con espressioni difficili da tradurre e da intendere, perdeva parole e frasi intere; e quando si provava a rispondergli il suo eloquio era impacciato e poco efficace». Il colonnello Dollmann, interprete ufficiale di Hitler e di Kesselring per l’italiano, e che assistette a questo convegno di Salisburgo e ad altri, scrive nel suo Roma nazista (cito la traduzione italiana nell’edizione Longanesi & C., Milano 1949) che Mussolini si serviva di rado dell’interprete: «Convinto della sua padronanza del tedesco, credeva di potersela cavare da solo, e quest’errore fatale è costato all’Italia assai piú di quanto non si pensi. Quel tedesco bastava a mala pena per una banale conversazione, o per discorrere con Göring “da vecchi soldati”, servendosi di espressioni familiari a qualsiasi caporale. Ma se si toccavano le profondità della mistica hitleriana, mistica dall’impostazione politica assolutamente reale, se si passava a difficili questioni tecniche di particolari, allora il duce, invece di confessare che non capiva piú, preferiva lasciarsi prendere la mano».
9. Tornato da Salisburgo, Mussolini andò dal re e gli parlò dei risultati del convegno con quel suo solito irresponsabile ottimismo che meravigliava, per non dire di peggio, i suoi piú vicini collaboratori. Scrive Ciano nel suo Diario sotto la data del 22 gennaio ’43: «Il duce giudica il bollettino tedesco di oggi il peggiore dall’inizio della guerra. E infatti lo è. Rotta a Stalingrado, ritirata quasi ovunque sul fronte, prossima caduta di Tripoli. Sembra che Rommel abbia ancora una volta manovrato in modo da salvare le sue forze, lasciando nelle peste quelle italiane. Mussolini è molto irritato e si ripromette di piantare la grana coi tedeschi. Gli dispiace molto la caduta di Tripoli… Dovrebbe essere una nerissima giornata, senza luce d’avvenire, anche per lui». Invece Ciano continua: «…ma non è affatto convinto che non sia possibile contromanovrare dalla Tunisia e riprenderla. Continua, cosí, a cullarsi in molte pericolose illusioni che gli deformano la visione precisa della realtà, quale è e quale ormai appare a tutti». Addirittura grottesco è quanto riferisce Ciano cinque giorni piú tardi, il 27 gennaio: «Bismarck (il principe Otto Bismarck, consigliere dell’ambasciata tedesca a Roma) è stato ricevuto dal duce, cui ha portato un cavallo offerto dalla città di Brema. Mussolini gli ha esposto una teoria (l’aveva già detto con me) secondo la quale i bollettini tedeschi sono pessimisti ad arte, per preparare poi piú gradevoli sorprese al popolo».
Dicevo che Mussolini di ritorno da Salisburgo andò dal re e gli disse «di aver trovato molta comprensione da parte di Hitler. Il Führer ha promesso aiuti in carri armati e aeroplani per la Sicilia e si è impegnato a far rientrare dalla Russia il nostro secondo corpo d’armata. Il duce ha riportato l’impressione che il fronte interno tedesco sia ancora solidissimo e che i capi germanici non abbiano dubbi sull’esito vittorioso della guerra». Ma il 16 aprile va dal re Ambrosio e fa sonare l’altra campana. «Gli accordi di Salisburgo non sono approdati a nulla. La Germania pensa soltanto alla “sua” guerra e non agli interessi dell’Italia che sono ormai compromessi in maniera decisiva. […] In sostanza, non sono d’accordo con l’euforia del duce. Non abbiamo avuto nulla e non avremo piú nulla».
10. Il pertinace contegno delle truppe italiane nell’Africa settentrionale, e particolarmente in Tunisia, è poco noto presso gli italiani e pressoché del tutto ignoto all’estero anche fra gli specialisti di storia di guerra, soprattutto per opera del loro diretto avversario maresciallo Montgomery visconte di El Alamein, che nelle sue memorie di guerra, e specialmente nel suo libro, El Alamein to the river Sangro le rappresenta, evidentemente per partito preso, sempre nel modo peggiore. (Di questo libro vi è anche una traduzione italiana, Da El Alamein al fiume Sangro, Garzanti, Milano 1950; ci andiamo come a nozze noi italiani a tradurre i libri degli autori che ci diffamano).
In tutta la descrizione che egli fa della battaglia di El Alamein il maresciallo Montgomery non dice una parola dei soldati italiani, salvo un fuggevole accenno che essi, sprovvisti o derubati di tutti i mezzi di trasporto, furono lasciati in asso dal generale tedesco Rommel quando si disegnò la sconfitta. In realtà Rommel, iniziando la ritirata, aveva dato ordine alle divisioni Trento e Bologna di farsi distruggere sulla prima linea della battaglia; e alle divisioni Folgore Brescia e Pavia di ritirarsi su uno schieramento di poco arretrato, e ivi resistere a oltranza. Tutte e cinque le divisioni ubbidirono all’ordine, e furono distrutte. (Narra a questo proposito un partecipante alla battaglia, il maggiore Paolo Caccia Dominioni, comandante del battaglione guastatori della Folgore, nel libro Takfir, Alfieri, Milano 1948: «quando il 40° reggimento fanteria della Bologna, esaurite le ultime munizioni dopo un’accanita resistenza contro le forze blindate che l’accerchiavano cessò la lotta, il comandante colonnello Dall’Oglio inviò il suo aiutante maggiore capitano Giacalone a trattare la resa con il nemico, il quale udí il seguente esordio: “Teniamo anzitutto a dichiarare che ci arrendiamo soltanto perché non possiamo piú far fuoco avendo sparato fino all’ultima cartuccia”. Il comandante britannico si comportò assai cavallerescamente manifestando la piú alta ammirazione verso il valorosissimo reggimento»). La rotta era già piena, quando le radio inglesi del Cairo e di Londra dall’otto novembre in poi trasmisero a chi li voleva udire i bollettini di guerra britannici nei quali il contegno della divisione Folgore, che continuava a battersi senza alcuna speranza, era definito «ammirevole, oltre ogni limite delle possibilità umane». Si sa che i bollettini di guerra non sono mai scritti dai generalissimi; ma, o il maresciallo Montgomery non li leggeva, o se ne dimenticò del tutto scrivendo le sue memorie. Inoltre il Montgomery narra nel libro citato come scelse per fare lo sforzo piú grande quel punto del fronte ove le truppe tedesche si collegavano a quelle italiane; ma dimentica, o trascura di dire, che la rottura avvenne sul fronte della 164a divisione tedesca, e proprio nel luogo occupato dal da lui celebratissimo Afrika Corps.
Tornando agli ultimi combattimenti di Tunisia, il maresciallo Montgomery di tutto quanto fecero su quella fronte le truppe italo-tedesche, e negli ultimi giorni soltanto le truppe italiane, di quei movimenti, di quelle azioni manovrate, di quella tenace resistenza dà tutto il merito al generale Rommel che da qualche settimana non era piú in Africa, e aveva lasciato il comando di quelle truppe.
Questa deformazione delle cose è frutto di un evidente fenomeno di vanità. Montgomery ebbe per molto tempo davanti a sé nel settore nordafricano un generale tedesco che si era fatto rapidamente la nomea, presso i suoi e presso gli stessi nemici, di geniale uomo di guerra, avendo con due vigorose controffensive ricacciato due volte l’esercito britannico d’Africa sulle posizioni di partenza e oltre, la seconda volta fin quasi ai sobborghi di Alessandria. E giudica quindi sua gloria, o suo merito, aver saputo battere per la terza volta proprio questo eccellente generale e i suoi migliori soldati (naturalmente, i tedeschi). E solo di Rommel parla, e dei suoi tedeschi. Cosí racconta che il 10 marzo, improvvisamente, «Rommel assalí con violenza, con carri armati, artiglieria e aeroplani la colonna Leclerc, con l’intenzione evidente di distruggerla»; e traspare dal suo testo l’ammirazione per la tenacia e l’impegno del generale tedesco. Parla di una lotta a corpo a corpo avvenuta nella notte dal 16 al 17 marzo fra la britannica brigata Guardie e le truppe tedesche di copertura, che costrinsero i britannici a ritirarsi. Ora dal 20 febbraio il comandante delle truppe italo-tedesche sul fronte sud-tunisino è il generale Messe, che ha preso le consegne da Rommel partito stanco e ammalato per la Germania; e le truppe che si battono cosí bene la notte dal 16 al 17 marzo sono italiane.
Il maresciallo Montgomery continua a parlare di Rommel e di tedeschi, e soltanto di questi, anche narrando le battaglie seguenti: quella che prende il nome dall’Uadi Akarit, ove quei «tedeschi» da lui descritti che combattevano «selvaggiamente e disperatamente» sono gli italiani delle divisioni Pistoia, Spezia e Trieste; e quella di Enfidaville, nella quale lo stupisce «l’accanita resistenza e il disperato coraggio dei tedeschi», quando i soli avversari rimasti a contendergli il passo sono gli italiani: la quinta armata tedesca ha già capitolato, e l’Afrika Corps è stato già tagliato fuori.
A ristabilire la verità dei fatti e a rintuzzare le vanterie di cattivo gusto del Montgomery intervenne il maresciallo inglese Alexander, suo superiore diretto; ma sempre in ritardo, perché le bugie, contrariamente al detto popolare, camminano piú in fretta e vanno piú lontane, e se fanno tanto di diventare luogo comune usurpano intieramente la verità. Nel rapporto del maresciallo Alexander si dice fra l’altro: «La battaglia dell’Uadi Akarit durò un solo giorno, ma il combattimento fu il piú duro e il piú selvaggio di ogni altro dopo El Alamein. Attacchi e contrattacchi cozzarono sulle colline ed entrambi, tedeschi e italiani, dimostrarono una temeraria risoluzione e un morale intatto. […] L’attacco dell’8a armata sulle posizioni di Enfidaville incominciò alle 21,30 del 19 aprile; il nemico contrattaccò duramente e a prezzo di durissime perdite riuscí a contenere l’attacco al Gebel Garci. Fu notato che gli italiani combattevano particolarmente bene superando i tedeschi che erano in linea con loro». Ma si è visto che i tedeschi erano già scomparsi dai combattimenti da due giorni.
11. Ecco quest’ultimo discorso, nel testo comparso sull’organo ufficiale del partito, «Il Popolo d’Italia»:
«Sento vibrare nelle vostre voci l’antica, incorruttibile fede (la moltitudine prorompe in un ...