Il caso Bramard
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Il caso Bramard

  1. 264 pagine
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Il caso Bramard

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Corso Bramard è un uomo silenzioso, riservato. Ha la stessa eleganza contenuta delle montagne di Torino. È stato il commissario piú giovane d'Italia, un investigatore di talento. Poi la moglie e la figlia di pochi mesi sono state rapite e uccise dal serial killer cui stava dando la caccia. Da allora, abbandonata la polizia, trascina un'esistenza fatta di giornate solitarie e notti trascorse a scalare senza protezioni, nella speranza di sbagliare un movimento e cadere. A impedirgli di lasciarsi il passato alle spalle ci sono le lettere che Autunnale - cosí si firma l'assassino - gli scrive da vent'anni. Tra loro è in atto una partita mentale che ha raggiunto una situazione di stallo. Finché Autunnale commette un errore, piccolo: quanto serve a Bramard per ritrovare una parte dell'uomo che era. Arcadipane, che ha ereditato il suo posto, e la spigolosa agente Isa Mancini lo aiuteranno a riaprire il caso. Ma all'appuntamento con la giustizia li attende una verità piú sfaccettata e costosa del previsto.«Chiedo, e trovo gente che non ha mai letto la saga di Bramard e Arcadipane. Oh, ma vogliamo scherzare? Quei due sono la risposta del Nord al commissario Montalbano! Sono l'invenzione del poliziesco piemontardo! Fango e pioggia, schiene diritte, tristezza, amori disperati, humor impassibile, violenza sepolta, sogni poetici, anarchia. E i corpi? Altro che la siciliana fisicità splendente. Qui i corpi sono una debolezza, un incidente, uno scandalo, una scusa. Scritture di cui si è persa la chiave. Solo nelle nebbie del Nord, dove "il sole è un lampo giallo al parabrise", c'è gente del genere, e Longo la racconta da dio, con quel suo scrivere che ho studiato a lungo, come potrei studiare un cocktail, e adesso credo di aver capito: due parti di Fenoglio, due di Simenon, una di Paolo Conte e cinque di Davide Longo. Aggiungere una spezia che non so (qualcosa come una goccia di disperazione, direi, ma non so) e servire. Ne butti giú uno e poi non smetti piú. Giuro».
Alessandro Baricco

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858435410

1.

La porta socchiusa del capanno. Il corpo disteso nella luce diafana del pomeriggio. Il disegno dei tagli sulla sua schiena nuda. Capelli neri sparsi tutt’intorno.
Fare qualche passo incerto, cercando di non credere, poi cadere in ginocchio e restare cosí, le mani inutili lungo i fianchi, senza smettere di guardare, come forse non poteva abbassare lo sguardo Ettore di fronte al talento con cui Achille stava per fermargli il cuore.

2.

Il segnale della sveglia trovò Corso disteso nel sacco, le mani dietro la testa, intento a fissare il proprio respiro che si condensava nell’aria fredda e saliva verso l’alto, smarrendosi nel buio.
Un’ora prima, forse due, il grido di un animale che chiamava da molto lontano l’aveva tolto dal sonno e, una volta sveglio, era rimasto ad ascoltarlo immobile, immaginando qualcosa sul punto di morire o di dare alla luce, finché il grido non si era spento ed era rimasto solo l’ansare del vento.
Corso fermò l’allarme con un gesto esatto della mano, accese la pila e controllò il Cyma che portava al polso. Segnava l’una e cinquantasette. Il vento si era posato e dall’esterno della tenda veniva ora un silenzio di rumori infinitesimali.
Abbassò gli occhi sul libro lasciato aperto la sera prima accanto alla borraccia, le pagine rivolte verso il basso e spartite in modo diseguale, come ali di un uccello destinato a volare in tondo.
Nelle ultime righe la donna raccontava al marito, appena tornato da un lungo viaggio, che durante la sua assenza la loro bambina era sempre stata buona e docile, ma non aveva mangiato quasi niente e aveva preso a dire «non pensarci neanche» ogni volta che le si proponeva qualcosa. L’uomo ascoltava seduto sul divano, poi toglieva le scarpe e diceva qualcosa che non risolveva il problema.
Corso si massaggiò il collo. Due gocce di condensa correvano sul telo, come insetti dalla corazza traslucida. Poi tolse pantaloni e calze dal fondo del sacco, ritirò tutto nello zaino e uscí.
Fuori la luce della luna rivestiva ogni cosa del medesimo grigio.
Accese il fornello lasciato al riparo di una pietra e, mentre la fiamma ansimava, scese al lago dove riempí il pentolino e si lavò la faccia. Sullo specchio d’acqua, poco piú grande di un ballo di paese, si allargarono cerchi del colore della luna, ma quando si alzò per tornare alla tenda la superficie era di nuovo scura e immobile.
Lasciò cadere una bustina di tè nel pentolino e studiò le montagne intorno: vette poco sopra i tremila, antiche, senza slanci, rigate da venature di nichel annerite dall’acqua.
Valutò quella per cui era venuto. La sera prima, nel sole che calava, gli era sembrato di scorgere in lei una bellezza, anche se di quelle che richiedono pazienza per essere comprese. Ora invece gli parve soltanto un triangolo di tenebra fredda.
– Sei cattiva davvero? – le chiese.
La montagna rimase a fissarlo silenziosa, la sagoma aguzza come il suo nome di cinque lettere. Corso annuí che tra poco si sarebbe visto, poi si allontanò di qualche passo, aprí i pantaloni e orinò. Sopra di lui la notte era pulita, le nuvole lontane e ferme. Poche stelle brillavano nella porzione piú scura del cielo.
Tolse dallo zaino la tenda, il sacco e il fornello, e nascose tutto sotto un masso ai piedi della parete, quindi diede un’ultima occhiata alla pietraia che aveva percorso e attaccò.
I primi metri li salí lenti, quasi con indolenza, per permettere al corpo di capire cosa gli stava chiedendo. La roccia fredda, ma senza ghiaccio, dava alle dita esattamente quello che prometteva, cosí presto la sua mente scivolò nella stanza bianca per cui era venuto: una camera silenziosa e senza porte, con un unico grande quadro appeso e tutto il tempo del mondo per venirne a capo.
Si rese conto di essere vicino alla vetta quando scorse la croce metallica che una bufera anni prima aveva divelto. Ora pendeva a testa in giú, trattenuta da uno dei tiranti metallici.
La passò di lato per un corto camino diagonale e con una decina di prese fu in cima.
Tolse il thermos dallo zaino, versò del tè e guardò la pietraia ai piedi del monte: i frammenti di selce, sotto l’azzurro lunare, parevano schiene di animali a sangue freddo, venuti a morire nei secoli uno accanto all’altro nel cimitero scelto dal capostipite. Poi l’opale perfetto del lago, il sentiero, il bosco e infine la strada, dove accanto al ponte riposava la sua auto, minuta e semplice come un mattone. Ogni cosa, vista da lassú, appariva ferma e anelante, come doveva essere prima che la vita si schiudesse.
Si passò una mano sulla fronte dove il sudore era già una polvere dura.
Pensò le ultime pagine del romanzo: la donna al centro della stanza e l’uomo che la ascoltava seduto sul divano, i piedi sul basso tavolino di cristallo. Alle loro spalle una scala dai colori chiari; razionale e senza stranezze, come tutti gli ambienti della casa.
Immaginò di salire quella scala e di percorrere il corridoio fino alla stanza, dove, dietro una porta socchiusa, era immersa nel sonno una bambina di quattro anni, la gamba sinistra fuori dalle coperte.
Si figurò di entrare e sederle accanto; spostarle una ciocca dei lunghi capelli chiari e sfiorarle la tazza dietro il ginocchio, dove la pelle sottilissima lasciava intravedere il celeste delle vene. Poi appoggiare la testa sul cuscino e restare cosí, il viso a pochi centimetri, ascoltando il soffio leggero tra le sue labbra, fino ad avvertire un male oscuro battere nel petto, come un secondo cuore.
Allora alzarsi, andare alla finestra e realizzare, scorgendo i fari dell’auto ferma sotto casa, che una volta uscito non gli sarebbe piú stato permesso di vedere la bambina né di sapere qualcosa di lei. Mai piú.
Corso scattò in piedi, spalancando la bocca in un verso da annegato. Il buio intorno gli parve immenso e fu attraversato dal desiderio di saltare, poi la vista di quell’unica nuvola che veniva dal mare, sola, lenta, innocente, lo calmò. Smise di tremare e di tenere tra le labbra il nome della bambina.
A est, lontane nella pianura, brillavano nitide le luci di paesi di cui con un po’ di buona volontà avrebbe potuto dire il nome, e oltre quelle geometrie, la massa luminosa della grande città.
Diede loro un’ultima occhiata, poi spallò lo zaino e iniziò la discesa.
Il vento si era levato e la notte a est cominciava a cambiare colore. Lontanissimo, dal versante francese, saliva l’abbaiare di un cane, come principio di qualcosa.

3.

Scese rapido i tornanti della mulattiera, tra macchie di ontani da cui si levavano i piccoli uccelli che avevano trascorso la notte al riparo dalla civetta. Poche settimane prima il sentiero era stato battuto dalle vacche e nell’aria restava l’odore freddo dello sterco. Da qualche parte nell’oscurità calava l’eco costante di un rio.
A un centinaio di metri dal fiume riconobbe la sagoma di un piccolo fuoristrada fermo accanto alla sua Polar. Appoggiato al cofano, un uomo vestito di grigio o di azzurro, con un berretto in testa, guardava verso di lui. Il fucile che portava in spalla rifletteva il pallore della luna con una dolcezza che metteva sonno.
Fece gli ultimi metri senza fretta.
L’uomo lo aspettava al parapetto sul ponte, fissando la schiuma sotto l’arcata. Quando Corso fu vicino, prese dalla giacca il pacchetto e fece il gesto di offrire. Al no di Corso, levò la faccia verso il disco della luna.
– Siete sposato? – chiese.
Aveva un corpo secco e capelli dello stesso grigio della divisa. Un’età di mezzo.
Corso disse di no.
– Avete fatto bene, – disse l’uomo, buttando fuori il primo fumo dai denti mal distribuiti. – Donne che possono capire questi posti come li capiamo noi non ce ne sono.
Teneva la brace della sigaretta nascosta nel cavo della mano, anche se non erano sul ponte di una nave e non c’era un filo di vento.
– Da dove scendete?
– Dalla Picca.
– Quella sopra la miniera di ferro?
– In faccia.
Fece un tiro piú lungo.
– Ho un fratello prete a Comiso. Ci vediamo di rado, – disse, – ma non c’è volta che non gli domando perché ha preso l’abito. E lui mi risponde sempre che chi non ha avuto il dono non la può capire, la gioia di servire Nostro Signore –. Con una schicchera fece volare nel fiume quel che restava della sigaretta. – Ecco perché non vi chiedo che ci andate a fare lassú.
Corso fece un cenno di assenso che era anche un saluto e si incamminò verso l’auto. L’uomo lo raggiunse mentre slacciava gli scarponi e prese a smuovere con i piedi l’erba intorno, come avesse perso qualcosa che non meritava granché d’essere cercato.
– C’è uno stambecco morto sotto la Picca, l’avete notato?
Corso sfilò i pantaloni da montagna e infilò i jeans.
– No.
Il forestale guardò in direzione del vallone dove la luce stava montando.
– Due di Savona gli hanno sparato e poi non sono stati buoni ad andarselo a prendere. Quando gli ho sequestrato i fucili, uno mi ha detto di non fargli prendere spaventi perché era malato di cuore, – sputò. – Fan rimpiangere i bracconieri di una volta che ti tiravano addosso.
Corso chiuse i sandali.
– Buona giornata – disse.
Mentre usciva dallo spiazzo vide l’uomo accendersi un’altra sigaretta. Lo tenne nello specchietto finché il puntino rosso della brace non fu inghiottito dal buio che il giorno ancora non vinceva, poi aprí il finestrino e sporse il gomito.
Lo stambecco l’aveva visto la sera prima, quando il sole calando aveva ingiallito il nevaio dove l’animale era disteso. Seduto fuori dalla tenda, l’aveva osservato a lungo, ma per tutto...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il caso Bramard
  4. 1.
  5. 2.
  6. 3.
  7. 4.
  8. 5.
  9. 6.
  10. 7.
  11. 8.
  12. 9.
  13. 10.
  14. 11.
  15. 12.
  16. 13.
  17. 14.
  18. 15.
  19. 16.
  20. 17.
  21. 18.
  22. 19.
  23. 20.
  24. 21.
  25. 22.
  26. 23.
  27. 24.
  28. 25.
  29. 26.
  30. 27.
  31. 28.
  32. 29.
  33. 30.
  34. 31.
  35. 32.
  36. 33.
  37. 34.
  38. 35.
  39. 36.
  40. 37.
  41. 38.
  42. 39.
  43. 40.
  44. 41.
  45. 42.
  46. 43.
  47. 44.
  48. 45.
  49. 46.
  50. 47.
  51. 48.
  52. 49.
  53. 50.
  54. Nota al testo.
  55. Il libro
  56. L’autore
  57. Dello stesso autore
  58. Copyright