Il libro della Genesi dipinge Noè come l’unico uomo retto rimasto sulla Terra. Perciò Dio decide di risparmiarlo dal diluvio con cui spazzerà via la malvagità umana. E affinché si metta in salvo assieme ai suoi figli, lo avverte per tempo, ben centoventi anni prima: tanti ne occorrono per far crescere cedri alti a sufficienza per costruire l’arca. Per i nostri parametri di vita centoventi anni sarebbero eccessivi, ma non per il pluricentenario Noè, che si mette subito al lavoro.
Ma in quel lunghissimo intervallo cosa avrà fatto quell’uomo retto oltre a piantare alberi? Come si sarà comportato giorno dopo giorno con i suoi simili? Avrà taciuto? O li avrà avvertiti dell’imminente catastrofe? Avrà tentato di redimerli annunciando ciò che per colpa loro stava per accadere? Avrà cercato un modo per salvarli dalla terribile punizione divina? O l’avrà attesa senza far niente?
Il testo biblico sorvola su questo. Ma nella letteratura rabbinica, dove la storia di Noè viene commentata e arricchita, simili domande affiorano. Ci si chiede se fosse poi cosí retto un uomo che non abbia sentito il bisogno di intercedere presso Dio per salvare il suo prossimo. Qualche commento si spinge a immaginare che Noè abbia cercato di fare qualcosa per gli altri uomini, esortandoli affinché si pentissero, ma che non fu ascoltato. Anzi, fu deriso e perseguitato1.
Prendendo probabilmente spunto da questa tradizione, Günther Anders scrisse nel 1961 un breve racconto, intitolato Il futuro rimpianto (Die beweinte Zukunft) che ha per protagonista Noè mentre cerca di aprire gli occhi ai suoi contemporanei. Il primo aspetto interessante del racconto è che ci fa entrare nella soggettività del personaggio, che qui non è piú il quieto costruttore dell’arca della narrazione biblica, ma una figura tormentata e tragica. Sono le sue stesse parole, rivolte a Dio, a raccontarci il suo lungo, estenuante tentativo di persuadere gli uomini dell’imminente cataclisma:
“Cento volte”, disse adirato, “ho dato prova della mia pazienza. I miei piedi sono gonfi, ho la gola rossa dal tanto che ho gridato, ho trascurato i miei affari e sono diventato estraneo agli occhi del mio primogenito. Ma non ho badato alle mie ferite e mi sono sottratto ai biasimi di mio figlio. Non sono riuscito a rassegnarmi ai morti di domani e sono andato ogni giorno a caccia dei ciechi per aprire loro gli occhi e a caccia dei sordi per urlare nelle loro orecchie tappate, al fine di convincerli che il diluvio non è mio bensí Tuo, e che adesso dovranno fare qualcosa da soli con le loro mani. Ho preso le Tue difese dicendo loro che anche Tu nella Tua magnanimità desideri vederli salvati, ma adesso siamo giunti alla vigilia della catastrofe. Li ho fermati per strada come un mendicante, mi sono aggrappato alle loro vesti come un malfattore, gli sono corso dietro quando si svincolavano, non ho avuto timore della loro rabbia e non mi sono affatto curato di venir dileggiato come un uomo ridicolo”2.
Tutto inutile, poiché nessuno ha voluto ascoltarlo. Cosí, come in un’antica etopea, dove si immaginava cosa avrebbe potuto dire il personaggio, o come nel monologo di un dramma moderno, prende forma in questa prima parte del testo la tragica condizione del profeta inascoltato, emblematica anche per noi oggi.
Piú che con gli uomini, di cui conosce bene i difetti, Noè è infuriato con Dio per la prova terribile a cui lo sottopone. Lo supplica di posticipare la scadenza, di dare loro un’altra chance, ma Dio non risponde. Allora, esasperato, e ormai piú addolorato per la morte futura dei suoi simili che timoroso della punizione divina, decide di ricorrere a una mossa estrema, che tiene in serbo da tempo, ma che finora non ha osato attuare perché infrangerebbe le regole del culto ebraico: «commetterò empietà. E lo farò in Tuo nome anche se mi rinnegherai»3. Ed è proprio con questa mossa che Noè riesce alla fine a farsi ascoltare dagli altri uomini e a persuaderli.
Profeti inascoltati.
Ma prima di dire di quale mossa si tratti, fermiamoci un momento a osservare quanto la condizione di Noè e dei suoi contemporanei sia simile a quella in cui viviamo noi oggi, all’inizio del terzo millennio. Anche su di noi pende la minaccia di una catastrofe planetaria imminente. Anche noi siamo stati avvertiti del diluvio che sta per travolgerci, non da un Dio né da un profeta che parli in suo nome, ma da scienziati, forti di rilevamenti e di prove. Siamo stati avvertiti che di qui a cento anni o forse meno la Terra diventerà inabitabile per tutti gli uomini e per molte altre specie viventi. Le ragioni ci sono ormai tutte note: innalzamento della temperatura, scioglimento dei ghiacci polari, inondazioni, desertificazione, consumo forsennato delle limitate risorse del pianeta, sovrappopolazione umana, sterminio di altre specie animali e vegetali da cui dipende la nostra sopravvivenza. Si parla di una sesta estinzione di massa4. La quinta fu quella dei dinosauri, la sesta, cioè la prossima, è quella che potrebbe spazzare via la specie umana. E sarebbe la prima a essere autoprovocata dalla specie stessa.
Il pianeta che per circostanze altamente improbabili ha permesso sotto la sua cappa d’atmosfera il sorgere di organismi, e alla nostra specie di formarsi e di evolversi per almeno duecentocinquantamila anni, non potrà piú assicurarne la continuazione – a meno che non si fermi subito e drasticamente la distruzione dell’habitat e delle altre specie viventi, finché siamo ancora in tempo.
Ma anche questa profezia scientifica stenta a essere ascoltata nel nostro tempo. Proprio come la parola di Noè, gli avvertimenti dei climatologi, degli oceanografi, dei geofisici e di altri scienziati della Terra non riescono a provocare negli uomini di oggi, nei loro sentimenti, nei loro sistemi di vita e di produzione una svolta radicale che scongiuri la catastrofe annunciata. Anche le conferenze sul clima hanno dato esiti deludenti, ottenendo dai vari Paesi un impegno a diminuire le emissioni, giudicato da molti insufficiente a fermare la china e per di piú nemmeno rispettato da tutti.
Anche noi, come il Noè di Anders, ci domandiamo con apprensione chi o che cosa abbia offuscato la vista ai nostri contemporanei al punto da renderli cosí incorreggibili. Perché le notizie piú allarmanti che riguardano le nostre condizioni di sopravvivenza sul pianeta non producono le reazioni e le controspinte che sarebbero necessarie e che ci aspetteremmo da esseri ragionevoli?5. L’emergenza climatica è stata spesso negata in questi anni, dalla fine del secolo scorso fino ai nostri giorni6. Ma tali negazioni rassicuranti, talora fabbricate ad arte per ritardare la consapevolezza, non spiegano se non in minima parte come mai la “profezia” degli scienziati e dei climatologi non produca un senso di emergenza e un agire conseguente.
Non si può nemmeno dire che noi non abbiamo occhi per vedere o orecchie per ascoltare, come Noè dice dei suoi contemporanei. Al contrario, noi vediamo e sentiamo, ma siamo come paralizzati quando si tratta di trarne tutte le conseguenze. Da questo punto di vista la nostra situazione appare persino piú drammatica di quella biblica, perché noi non dobbiamo venir persuasi: lo siamo già. La tragedia dei Noè odierni non sta tanto nel non essere creduti, ma nell’essere creduti senza effetti, nell’inerzia che segue persino alla persuasione. Sappiamo con certezza che un diluvio universale sta per arrivare, ne avvertiamo già le prime gocce, ma un tale sapere non basta a farci fare un passo in avanti.
E anche tra noi ci sono molti acrobati del tempo che, come il Noè del racconto, non riescono a rassegnarsi ai «morti di domani». In loro il bisogno di agire si fa ancora piú urgente, l’inazione ancora piú intollerabile, perché hanno vivide davanti agli occhi le ripercussioni che tutto ciò avrà tra non molto sulle giovani vite di oggi, sui loro figli, nipoti e pronipoti, e su milioni di vite a cui sarà impedito di crescere, se non addirittura di nascere. Le quali, probabilmente, in un futuro non troppo lontano, se avranno ancora forza per parlare, ci biasimeranno aspramente per la nostra inerzia di oggi, per tutto ciò che avremmo potuto fare finché eravamo ancora in tempo, e che non abbiamo fatto. Viviamo a credito sulla vita a venire, eppure la maggior parte dei viventi di oggi non se ne dà pensiero. Talvolta persino chi resiste ai poteri dispiegati nel nostro tempo, sulla scia delle teorie del potere elaborate nella seconda metà del secolo scorso dal cosiddetto «pensiero critico», non mette in conto questo tipo di “potere”, quello che noi oggi esercitiamo in modo cosí evidente ed efferato sui viventi di domani.
Che fare dunque per scuotere dalla paralisi i nostri contemporanei e stimolarli a un agire commisurato alla gravità della catastrofe? Come ridestare energie che sono state probabilmente congelate dal sistema di pensiero della modernità occidentale, ora finito in un’impasse?
Annunciare/suscitare.
Con queste domande aperte, possiamo tornare al racconto di Anders per vedere con quale mezzo, alla fine, Noè riesca a farsi ascoltare. È una mossa che Anders si è totalmente inventato (non se ne trova traccia nella Bibbia né – a quanto ne so – nella letteratura rabbinica) e che fa di questo racconto di finzione una fulminante parabola su come la profezia, compresa l’odierna profezia degli scienziati, potrebbe raggiungere un’efficacia politica.
Noè è stanco e disperato quanto possiamo esserlo noi oggi davanti all’incredibile cecità e paralisi dei contemporanei. Non nutre piú alcuna speranza di poter redimere i suoi simili, di cui conosce a menadito i difetti: l’ignavia, la paura, la tendenza alla superstizione e all’invidia. E qui Anders esprime anche un forte pessimismo antropologico – tanto che in certi punti le parole di Noè possono ricordare, anche se meno profonde nell’analisi, quelle che Dostoevskij mette in bocca al Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov, o quelle di Kant che riteneva improbabile che la fede eroica nella virtú fosse in grado di influenzare i cuori e convertirli quanto la paura e il terrore7.
Chi li ha resi cocciuti e incorreggibili? Chi gli ha offuscato la vista, sigillato gli occhi e aperto i cuori alla superstizione a tal punto che ora abbisognano di truffaldini per riconoscere i Tuoi lampi? E di imbonitori per udire i primi gabbiani volare in fuga dalla Tua tempesta? E di empietà per spaventarli nel profondo del loro cuore?8.
Come il Grande Inquisitore, anche Noè decide di usare le debolezze degli uomini a proprio vantaggio, sia pure a fin di bene:
[…] mi risparmierò di continuare a crucciarmi dei loro difetti. Userò i...