Le vite nascoste dei colori
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Le vite nascoste dei colori

  1. 280 pagine
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Le vite nascoste dei colori

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Nero mezzanotte con una punta di luna, indaco che sa di mirtillo, giallo della pesca matura un attimo prima che si stacchi dal ramo: Mio sa cogliere e nominare tutti i colori del mondo. Ha appreso l'arte dei dettagli invisibili guardando danzare ago e filo sui kimono da sposa, e ora i colori sono il suo alfabeto, la sua bacchetta magica, il suo sguardo segreto. Aoi, invece, accompagna le persone nel giorno piú buio: lui prepara chi se ne va e, allo stesso modo, anche chi resta. Conosce i gesti e i silenzi della cura. All'inizio sembra l'amore perfetto, l'incanto di chi scopre una lingua comune per guardare al di là delle cose. Ma il loro incontro non è avvenuto per caso. Non sempre nascere con un dono è un vantaggio, di certo è una responsabilità. Mio è una giovane donna dallo sguardo speciale: i suoi occhi sono capaci di cogliere ogni minima sfumatura e dare un nome a tutte le tonalità, soprattutto quelle invisibili. Nell'atelier dove la sua famiglia cuce e ricama kimono nuziali con gesti preziosi tramandati da generazioni, ha imparato fin da piccola la potenza dei dettagli, scoprendo in segreto le vite nascoste dei colori. Ma a custodire un segreto, in questa storia, non è la sola. Aoi possiede la sensibilità rara di capire a prima vista chi ha di fronte: la sua agenzia organizza cerimonie funebri, e lui - allo stesso modo di un mago - sa sempre come accompagnare i vivi e i morti nel giorno piú buio. Quando i loro destini s'incrociano in una mattina qualsiasi, Mio e Aoi si specchiano l'una nell'altro come due colori complementari. Sarebbe tutto perfetto, se non fosse che il loro incontro non è stato casuale: ancora non lo sanno, ma le loro esistenze stanno per entrare in collisione. Laura Imai Messina sa raccontare il potere magico delle cose di tutti i giorni, fa scintillare le coincidenze, anima le storie come in una danza da cui si sprigiona, semplicemente, il prodigio dello stare al mondo. E il Giappone, luogo di tutte le contraddizioni, è l'alambicco ideale di questo incantesimo. Cosí per le strade di T?ky?, città da sempre scagliata verso il futuro, si celebrano ogni giorno le antiche pratiche di una cultura millenaria, i rituali dei matrimoni e dei funerali, le cerimonie del passaggio. Le vite nascoste dei colori - una fiaba metropolitana capace di ammaliare il lettore - ci fa conoscere la forza dell'amore tra due figure indimenticabili e opposte. Due personaggi unici, legati a doppio filo da un nodo di meraviglia che aspetta soltanto di manifestarsi.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858436264
Prima parte

Grigio cenere e rosa ciliegio

E in certi istanti, questa sensazione straordinaria che niente è andato perduto; – niente si perde.
GHIANNIS RITSOS
Di colori diversi ugualmente perfetti che appariranno eccellenti se veduti appaiati al proprio contrario diretto… azzurro appaiato a giallo, verde appaiato a rosso: poiché ogni colore è veduto piú distintamente quando è opposto al suo contrario anziché a qualsiasi altro a lui simile.
LEONARDO DA VINCI

Uno

La rivelazione su chi fosse sua figlia, Kaneko Yoshida la ebbe una mattina di maggio, quando la piccola aveva poche settimane di vita. In una viuzza del quartiere Kagurazaka a Tōkyō il verde era un abbaglio, e le foglioline di tè erano tutte riassunte nel kanji di shinryoku
: il nuovo, il verde piú acceso dell’anno.
La madre la osservava incantata giocare sul letto quando sentí una voce all’ingresso: la vicina portava in dono piccoli mochi appena pestati. Anche se di là c’era il marito, e altrove nella casa c’erano i genitori di lei, sarebbe sembrato scortese non affacciarsi per ringraziare. Kaneko si allontanò dalla stanza, lasciando Mio a gorgogliare di quella gioia piccina, di muovere al sole i piedini e le mani.
Quando, pochi istanti dopo, la donna tornò, al centro del letto però non c’era piú nulla. Tutto taceva.
Il corpo di Kaneko subí un’accelerazione clamorosa. Un’esperienza che, negli anni a venire, avrebbe descritto come la cosa piú vicina a un viaggio nel tempo.
Nei successivi trenta minuti compatti di corse e di urla, furono tutti convinti che la bambina fosse stata rapita: la finestra era aperta, il vento gonfiava la tenda come una vela. Nonna Yōko uscí di corsa, i passi accorciati dal kimono; nonno Mamoru restò a guardarla dalla porta mentre, trafelata, si dirigeva verso il kōban. Il padre di Mio, invece, impazzí di paura. Senza dire una parola si mise a rivoltare la casa. Sollevò in aria le stoffe ammucchiate sul letto, aprí cassetti e armadi, guardò sotto il tavolino della cucina. Pareva avesse smarrito un polmone, la milza.
Tutto il quartiere fu travolto dalla concitazione della ricerca: le donne tirarono fuori i mariti dai negozi, dalle officine, si invocò il poliziotto di zona, che intervenisse: una neonata era stata strappata alla madre! Che s’inseguisse quella donna di cui qualcuno aveva scorto di sfuggita l’ombra dietro una porta! Che s’indagasse sull’uomo scivolato giú di corsa alla fine della via principale di Kagurazaka! Lo aveva visto Shimizu-san, sí, e anche Abe-san aveva visto una figura sospetta dietro il platano, no, dietro la quercia! Nella concitazione generale che animava le case del vicinato, i ragazzini presero a correre per strada. Incapaci di distinguere l’eccitazione dalla paura. Pareva loro una festa.
La madre di Mio non si rassegnava, però, all’idea di non ritrovare la figlia lí dove l’aveva lasciata.
Come quando si continuano a cercare le chiavi di casa nella medesima borsa già rovesciata innumerevoli volte, Kaneko tornò ripetutamente nel punto in cui fino a poco prima era adagiata la bambina. La rivedeva giocare al centro del letto, lo stendino di metallo che oscillava alla finestra, lanciando lampi d’ottone nella stanza.
In lacrime, Kaneko si gettò a terra, schiacciata dal peso di un dolore cosí gigantesco da risultarle osceno.
Fu proprio allora che, tra le stoffe che aveva smosso cosí tante volte, percepí un movimento. Non sembrava il vento, ma qualcosa di vivo che si agitava. Forse la gatta? No, la gatta era al sole, sulla veranda.
La madre si sporse.
Ai piedi del letto, a terra, c’era come un fiore fittissimo di petali fatti di lino, canapa e seta, che nel centro mostrava la presenza di una cosa del tutto nuova.
Kaneko, rallentando in quella maniera inspiegabile con cui si ritarda la soluzione di un dilemma, allungò infine le dita. Frugò con delicatezza tra i lembi del bocciolo di rosa.
Ed ecco sua figlia.
Dormiva. Gli occhi chiusi, animati da impercettibili scosse: Mio si esercitava a guardare nel sogno, come fanno i cani che mimano con le zampe la corsa. Quel che soprattutto osservava erano i colori, le macchie distinte che si trovavano ancora parecchio oltre la capacità fisica delle sue pupille.
La donna rimase immobile, muta. Com’era possibile che la bambina non si fosse svegliata nell’affanno della ricerca? Come aveva fatto lei ad alzare e agitare le lenzuola e le stoffe e a non trovarla? Possibile che nessuno l’avesse calpestata? Che non avesse pianto quand’era caduta? Un rapimento interrotto alla buona? Perché?
Prese tra le braccia la figlia, la rimise al suo posto. Uscí silenziosa ad avvertire chi ancora per strada gridava; il poliziotto scortato da una piccola folla capeggiata da nonna Yōko che stava per rientrare in casa; il marito, che aveva il volto stravolto dalla paura; nonno Mamoru, ancora immobile sulla soglia.
Da allora, dopo quello che avrebbero ricordato come il Grande Spavento, posarono Mio sempre in una culla, circondata di pareti di leggerissimo legno e di paglia. E la madre prese a guardare la bambina con quel misto di ammirazione e sospetto che non si sarebbe mai piú levata di dosso.
Chi era sua figlia?
Mio era nata tra i kimono, nel trambusto di una mattina di novembre.
Quel giorno c’era stato un grande viavai di bambini per la festa di shichi-go-san, tutti erano avvolti nei tessuti decorati con falchi, elmi, sonagli, peonie. Un matrimonio si svolgeva al santuario di Akagi, e le stoffe tinte da suo nonno esplodevano di colore sull’incarnato della sposa. La famiglia di Mio aveva annodato completamente la propria esistenza ai tessuti, alla tintura, ai motivi tradizionali tracciati sugli shiromuku, i kimono nuziali.
Fu una grande festa, e insieme una sofferenza tremenda.
La madre di Mio stringeva da ventiquattro ore, a intervalli sempre piú ravvicinati, un fazzoletto tra i pugni. Un asciugamano largo un quadrato serrato tra i denti, dal quale si liberava solo per ingoiare grossi bocconi di onigiri tra le contrazioni.
Poco alla volta il sangue si rovesciò sulle stoffe senza che nessuno pronunciasse una parola. Fu assorbito dal tronco del ciliegio in fiore dipinto su un kimono dismesso da anni. La nonna di Mio ricordava di averlo abitato ogni primavera, quand’era ragazza. Lo aveva scelto apposta: la stoffa di quel kimono conosceva l’amore, la fretta.
Era una tradizione di famiglia che chiunque altro avrebbe ritenuto bizzarra (se non addirittura ripugnante), ma che fra le donne Yoshida veniva tramandata da almeno tre generazioni. Che il parto, cioè, avvenisse su abiti smessi, e che quegli abiti li si conservasse macchiati fino alla morte; il rito voleva che le vesti imbrattate, dopo il funerale, venissero arse con lei.
Alle quattro scoccate da un solo minuto ci fu l’urlo. Entrò in scena, veloce, l’avorio dell’asciugamano e s’alzò quell’annuncio ridicolo («la bambina sta nascendo»), che era un’evidenza e insieme una predizione.
Quando fu estratta dal ventre teso della madre, la piccola venne posata su una pezza di cotone, di una sfumatura appena accennata di hai-zakura
, grigio cenere e rosa ciliegio.
C’era in quel colore – sussurrarono le tre donne presenti al parto: la madre, la nonna e la levatrice – la vita e anche la morte. C’erano l’inizio e la fine.
Mio, che non aveva ancora modo di udire il gorgoglio di voci sommesse, assimilò tuttavia ogni cosa. Cenere e ciliegio, avrebbe pensato un giorno, e da quel giorno lo avrebbe creduto fermamente per sempre: ecco cosa significava venire al mondo.
Quando Mio nacque, la lanugine che le copriva la vista la rese calma.
«È una bambina molto tranquilla, – si vantava la madre. – La notte dorme anche dieci ore consecutive, di giorno almeno altre sei».
Kaneko la teneva accanto a sé nella culla, mentre lavorava la stoffa o stringeva intorno ai corpi delle giovani spose lo shiromuku. Se la legava alla schiena quando usciva per le commissioni, quando rassettava o cucinava, oppure quando riceveva ospiti in casa. Mio, appiccicata alla madre, restava assorta a non guardare nulla. Vivere le pareva un impegno già grande.
In genere la bambina poppava e dormiva; piangeva con moderazione, solo per segnalare ancora la fame o una bollicina d’aria incastrata in gola.
Tuttavia la trasformazione avvenne quando la bambina prese a vedere. Non distingueva certamente ancora le forme, solo le ombre multicolori che si agitavano nel suo ridotto orizzonte. Ma bastavano a far sí che Mio d’improvviso, e solo in quei momenti, alzasse la voce. Non erano ancora parole compiute, ma suoni. Entrava nel colore, reagiva fisicamente a quelle cose cui solo un giorno, parecchio piú avanti, avrebbe saputo dare un nome.
E c’era da essere certi che, quando fosse arrivato quel giorno particolare, Mio avrebbe saputo dire il nome di tutti i colori del mondo.
Se le avessero domandato a bruciapelo – magari in un’intervista delle tante fatte a Tōkyō per strada – di elencare una manciata di suoni che le ricordava l’infanzia, Mio avrebbe parlato del fruscio dei kimono ricavati da una sola, lunghissima striscia di stoffa, di sua nonna che li accarezzava, considerandoli cosa viva e lodandoli alla stregua di bimbi («che bello che sei!», «tu poi sei stupendo!», «farai un figurone al matrimonio»); e poi dello stropiccio degli obi che stringevano i fianchi e tenevano in piedi una figura, o dei rotoli che venivano sfilati e infilati uno sull’altro, come bastoncini di zucchero, negli oshiire al primo piano. Quei buchi circolari, come occhi, partivano dal basso e continuavano fino al soffitto.
«Ah, dimenticavo, – avrebbe detto Mio all’uomo che le tendeva adesso il microfono davanti alla bocca. La telecamera era dietro, in braccio a una ragazza. – C’era anche la carta velina che proteggeva i kimono nella cassettiera. Quel suono mi faceva impazzire. E poi… mi faccia pensare, ah, lo sciacquare della tintura nelle enormi bacinelle piene di colore. Si passava dal blu di ferro al verde acqua, dal color albicocca al violetto».
L’intervistatore l’avrebbe fissata ammirato, per tutti quei dettagli che la donna via via aggiungeva. E, tuttavia, avrebbe lanciato un’occhiata all’operatrice: iniziava a preoccuparsi della durata dell’intervista.
Intorno alla stazione di Yurakuchō, dove Mio era scesa quella mattina per una consulenza, si sarebbe intanto raggrumata una folla. Turisti dai cappellini gialli, le spillette al petto, la bandierina che la guida brandiva come una frusta.
«E poi c’era il chiacchiericcio delle donne traslocate nella casa vicina, intorno a uno shiromuku, ha presente? Quel bianco abbacinante, gli aironi, i pruni, la silhouette dei pini… Lo trovo il kimono piú bello del mondo. Le persone vedono solo il bianco, eppure di bianchi ce ne sono a decine lí dentro. È come una scala cromatica semi-completa di un’unica tinta, una meraviglia… Riesce a immaginarla?»
L’uomo, senza replicare, si sarebbe affrettato a ringraziarla del tempo che aveva loro concesso. Bastava cosí. Sarebbe stato quasi brusco nel salutarla.
Mentre l’intervistatore e l’operatrice si sarebbero domandati se fosse il caso di fermare altre persone o di mangiare prima un boccone nel ristorantino di rāmen sotto gli archi della stazione, Mio avrebbe continuato a camminare verso Ginza. Tagliando in lunghe falcate l’avorio di Ginza-dōri, i megastore di Dior, Chanel, Gucci e Prada – gli uomini della sicurezza bellissimi, ritti come statue agli ingressi –, e intanto pensando che per spiegare il basso continuo della sua casa d’infanzia, in fondo sarebbe bastato semplicemente fare una lista veloce di verbi: setacciare di piante, sminuzzare di foglie, immersione delicata per non schizzare. E poi lento filtrare, energico sciacquare, strizzare, pigiare, premere, l’urlo del vento o dei ventilatori per asciugare. Stendere al sole. E insieme cucire, stirare, annodare la veste.
Infine «oh!»: ammirare.
Nonostante le grandi premesse, a quattro anni Mio non pronunciava ancora una parola.
Nel mistero che era sua figlia, quando una vicina o un lontano parente d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Le vite nascoste dei colori
  4. Prologo
  5. Prima parte - Grigio cenere e rosa ciliegio
  6. Seconda parte - Blu ripostiglio
  7. Terza parte - Color sguardo furtivo a una brocca
  8. Glossario
  9. Il taccuino dei colori di Mio
  10. Nota e ringraziamenti
  11. Crediti
  12. Il libro
  13. L’autrice
  14. Della stessa autrice
  15. Copyright