Sparta e Atene
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Sparta e Atene

Autoritarismo e democrazia

  1. 200 pagine
  2. Italian
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Sparta e Atene

Autoritarismo e democrazia

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Una rilettura appassionante della rivalità tra due potenze del mondo antico che, nel corso dei secoli, sono diventate punti di riferimento per filosofi, politici, sociologi e rivoluzionari. Due città che, ancora oggi, rappresentano modelli di Stato ideali e contrapposti. Da un lato un ordinamento democratico, innovativo, aperto agli scambi e al commercio; dall'altro un mondo chiuso, conservatore, ispirato a valori di tipo militare in nome dei quali i cittadini accettavano con orgoglio le restrizioni delle libertà individuali. È cosí che sono sempre state descritte Sparta e Atene, ma come distinguere la realtà dalla rappresentazione? Dopotutto le due poleis erano nate dalla stessa cultura, parlavano la stessa lingua, onoravano gli stessi dei. Avevano combattuto fianco a fianco contro un comune nemico, i Persiani, prima di trasformarsi da alleate in nemiche. Partendo dal racconto di questo antagonismo, con un'attenzione speciale alle istituzioni sociali oltre che politiche - in particolare alla formazione del cittadino e alla condizione femminile -, Eva Cantarella approda al «riuso», operato da parte della cultura occidentale, di due sistemi che, di volta in volta, sono stati invocati tanto da chi aspirava a fondare uno Stato democratico, tanto da chi voleva dar vita a uno Stato autoritario, totalitario, tirannico.«Atene è diventata la città del miracolo nel discorso di Pericle per i morti del primo anno della guerra del Peloponneso, e il mito di Sparta nasce nel momento stesso in cui i trecento caddero alle Termopili: poco importa che fossero veramente trecento, che fossero o meno tutti volontari. Questi sono problemi che riguardano la storia delle due città, non il loro mito: essendo per definizione fuori del tempo, questo continua a vivere sia nelle ricorrenti rivisitazioni della cultura popolare, sia nel dibattito storico-politico».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858434987
Argomento
History
Categoria
World History
Parte seconda

Atene

I.

Atene del miracolo

A differenza di Sparta, che mette chiunque cerchi di conoscerla di fronte a rade e poco obiettive fonti scritte, Atene ci ha lasciato una straordinaria, variegata serie di testimonianze sulla sua vita e la sua storia, che vanno dai resti archeologici e dai testi epigrafici alle opere di storici come Tucidide e Senofonte, oltre che di quello che può essere considerato il loro precursore, vale a dire Erodoto. E poi, ancora, gli autori tragici, i comici come Aristofane, i filosofi come Platone, Aristotele e per il loro tramite Socrate. Per non parlare dei lessicografi, e per finire – ultimi in questo elenco ma importantissimi – i logografi giudiziari, delle cui orazioni Atene ha conservato i testi sui quali si basa gran parte delle nostre conoscenze delle regole giuridiche e delle procedure giudiziarie della città.
Le fonti di conoscenza del mondo di Atene, insomma, sono incomparabilmente piú numerose di quelle di Sparta. Ma come vedremo questo non significa che non pongano anch’esse il problema del rapporto tra la verità e le sue rappresentazioni.
Se l’immagine di Sparta tramandata dalle fonti è un «miraggio»1, quella di Atene è un «miracolo»: la capitale di una cultura uscita perfettamente compiuta come Atena dalla testa di Zeus. Gli storici, identificando l’Atene del V secolo con l’intera Grecia, sino a non molti decenni or sono parlavano appunto di «miracolo greco», considerandola l’inizio stesso della civiltà occidentale, dalla storiografia alla filosofia, dal teatro all’arte e – superfluo a dirsi – alla democrazia.
Un impressionante fenomeno di etnocentrismo che, cancellando il ricordo di millenni di civiltà orientale, ne dava automaticamente per scontata l’inferiorità. È stato solo dopo la decifrazione delle scritture cuneiformi, infatti, che anche gli antichisti piú restii hanno dovuto ammettere l’inesistenza del «miracolo greco», e con il tempo sono arrivati persino a riconoscere che la cultura greca aveva dei debiti nei confronti di quella orientale.
Ma torniamo ad Atene e ai suoi molti meriti, che ovviamente il discorso al quale abbiamo brevemente accennato e che riprenderemo non intendeva negare, ma solo avvicinare alla realtà. E nonostante l’esistenza di preziosissimi documenti storici cominciamo, come abbiamo fatto per Sparta, con un accenno al mito: anche in questo caso quello di fondazione della città.

1. Il mito di fondazione.

Il dio Efesto, raccontava il mito, un giorno aveva tentato di possedere Atena, la dea vergine, che rifiutava le nozze: e non a caso. Atena infatti era nata dalla testa del padre, a seguito di una storia che, presumibilmente, aveva lasciato in lei qualche perplessità sulle unioni coniugali. Ecco perché: la dea Metis, accortasi di essere incinta, comunicò la notizia al marito Zeus (che non era ancora unito con Hera). Lui, al quale era stato predetto che uno dei figli lo avrebbe detronizzato, risolse il problema inghiottendo Metis tutta intera, in un unico boccone: e con lei, ovviamente, fu inghiottito anche il feto, che al termine del nono mese, desiderando venire al mondo, provocò al padre un terribile mal di testa, per liberarsi del quale Zeus ordinò a Efesto di spaccargli il cranio. Cosí nacque la piccola Atena.
Ma torniamo alle avance amorose di Efesto. Sottrattasi energicamente ai pesantissimi approcci, Atena aveva deterso con disgusto la gamba del seme che vi era rimasto, gettando per terra lo straccio di cui si era servita. Ma il seme divino, che per definizione non andava mai sprecato, fecondò la terra, da cui nacque Erittonio, futuro re di Atene.
Quali siano i caratteri della città che il mito tramanda è piú che evidente: come scrive Euripide nella Medea, gli ateniesi sono felici perché sono «figli degli dèi beati, nati da una terra mai contaminata…» (vv. 963-966). I suoi abitanti erano dunque di origine divina ed erano autoctoni.
Per questo Atene era la città della democrazia: nati dalla terra e figli della stessa madre, i suoi cittadini erano tutti uguali tra di loro e diversi dagli altri, che provenivano da suoli stranieri: era questa la specificità degli ateniesi, che portava inevitabilmente con sé l’esclusione dell’altro. E a segnalare la sintonia del mito con l’organizzazione civica e con la storia di Atene è sufficiente un esempio: quello dei meteci, una categoria di persone che viveva stabilmente nella città (da cui il loro nome, come sappiamo da meta oikein, vivere insieme), grazie alle cui attività professionali gli ateniesi potevano dedicarsi a tempo pieno al loro mestiere di cittadini. Nonostante questo, e nonostante il fatto che i meteci pagassero una tassa di residenza e in caso di guerra combattessero accanto agli ateniesi, essi non potevano possedere terre, non potevano sposare donne ateniesi, e solo se un cittadino ateniese garantiva per loro potevano partecipare ai processi che riguardavano le loro attività.
Torniamo al mito di fondazione: indiscutibilmente quello ateniese costruiva l’identità cittadina a partire da circostanze molto diverse da quelle messe in evidenza dal mito di Sparta, preoccupato in primo luogo di collocare la sua etnia all’interno del mondo dorico. Data la sua autoctonia, Atene non aveva problemi di quel tipo, e poneva l’accento sulla superiorità dei suoi abitanti e sull’impossibilità di accogliere chi tale non fosse, il che trovava perfetto riscontro nelle politiche limitative della cittadinanza perseguite da Atene nel corso della sua storia.

2. L’eroe fondatore.

Anche gli ateniesi, ovviamente, celebravano un eroe fondatore, al quale attribuivano il merito di aver dettato le istituzioni cittadine: nella specie l’eroe era Teseo, che un giorno lontano, secondo un mito che adombrava un’antica soggezione di Atene a Creta, aveva liberato la città da un pesantissimo tributo impostole dal re di Creta Minosse. Per vendicare un torto fattogli dal padre di Teseo uccidendo uno dei suoi figli, di nome Androgeo, Minosse, infatti, aveva imposto agli ateniesi di mandare ogni nove anni a Creta quindici ragazzi e quindici ragazze, destinati a finire nelle fauci di un mostro, il celebre Minotauro, che, come dice il suo nome, era mezzo uomo e mezzo toro, e si nutriva solo di carne umana. Nato dall’accoppiamento di Pasifae, la moglie di Minosse, con un toro del quale questa si era innamorata, il Minotauro era stato rinchiuso da Minosse in un edificio, il celeberrimo Labirinto, nel quale, una volta entrati, non si trovava piú la via del ritorno.
Sarebbe interessante (anche se non è il momento di farlo) chiedersi come mai Minosse avesse non solo accettato il tradimento della moglie, ma si preoccupasse persino di nutrire il frutto mostruoso che ne era nato. Ma cosí andarono le cose, con le conseguenze che ne derivarono, sino al momento in cui Teseo, imbarcatosi tra le vittime destinate al sacrificio, arrivò a Creta e riuscí a uccidere il Minotauro, a togliersi dal Labirinto e a tornare indenne ad Atene. Questo, piú che per i suoi meriti, grazie all’aiuto di una donna, Arianna, una delle figlie di Minosse, la quale, innamoratasi di lui, gli aveva suggerito di entrare nel Labirinto tenendo tra le mani un gomitolo di filo e di lasciarlo scorrere, per riavvolgerlo dopo aver ucciso il Minotauro, conquistando cosí la via dell’uscita.
Ma prima di chiudere questo racconto, apparentemente cosí romantico, anche se ci porterà per un momento lontano dal nostro argomento, diciamo qualche parola sul seguito della storia d’amore di Teseo con Arianna: dopo averla imbarcata per portarla con sé ad Atene, durante una sosta sull’isola di Nasso, approfittando di un momento in cui si era addormentata, Teseo la abbandonò (piantandola «in asso», come si dice ancora): un ingrato e un vigliacco, come diremmo oggi di un uomo che si comportasse cosí. Ma i metri di giudizio cambiano nel tempo: allora quello che contava erano solo i risultati delle azioni, e grazie al risultato positivo della sua impresa Teseo era diventato il mitico fondatore di Atene.

3. Dal mito alla storia.

Gli abitanti dell’Attica – racconta Tucidide – erano sempre stati divisi in città, che si governavano ciascuna autonomamente, tra le quali stava anche Atene, «fin dai tempi di Cedrope e dei primi re fino a Teseo» (II, 15, 2).
Le cose cambiarono quando al ritorno dall’impresa cretese e alla morte del padre divenne re Teseo, che «oltre che prudente era potente, – scrive Tucidide, – e sciolse i consigli e le magistrature delle altre città. E nella città di ora (scil. Atene), indicando che solo in quella dovevano stare il consiglio e il pritaneo, fuse politicamente tutti gli abitanti dell’Attica, e sebbene ognuno abitasse come prima le proprie terre li costrinse ad avere Atene come grande unica città. E questa, dove venivano pagate tutte le tasse, divenne grande e tale fu da lui lasciata» (Tuc., II, 2).
Cosa dedurre dall’insieme dei racconti mitici e del pezzo di «storia congetturale» della prima Atene scritta da Tucidide? Dall’uno e dall’altro, in modo diverso, la consapevolezza degli ateniesi della loro supremazia e, per quanto riguarda specificamente il mito del fondatore, la costruzione della loro identità attraverso l’immagine di un eroe alla cui impresa cretese dovevano la liberazione dall’idea intollerabile della loro subalternità a un’altra potenza.
A parte questo, dai racconti mitici e dal racconto di Tucidide un fondo di verità storica può comunque essere colto, vale a dire la nascita di Atene dal sinecismo delle città dell’Attica, come vedremo realizzato a partire dall’opera di Clistene.
1. Ollier, Le Mirage spartiate cit.
II.

Le istituzioni politiche

1. Da «polis» monarchica a «polis» aristocratica.

Nel momento tanto affascinante quanto insidioso del passaggio dal mito alla storia, Atene ci pone di fronte a un semileggendario periodo monarchico, in cui il potere è detenuto da un re (basileus), che – non diversamente da quanto accade nelle altre nascenti città-Stato – si trova a fronteggiare il tentativo delle aristocrazie di limitare i suoi poteri. All’antico re (basileus) vennero via via ad affiancarsi nuovi magistrati di durata annuale, che, sotto il nome di arconti (ossia di «coloro che comandano»), finirono per sottrargli i poteri di guida della comunità.
Secondo la Costituzione degli ateniesi, redatta nell’ambito della scuola aristotelica, fu creato dapprima l’arconte polemarco (ossia il «capo dell’esercito»), che aveva competenza giurisdizionale sui meteci; poi l’arconte per antonomasia (in età romana chiamato «eponimo», in quanto, essendo la carica annuale e non rieleggibile, il suo nome serviva a indicare l’anno), al quale vennero attribuite competenze che riguardavano principalmente il diritto familiare e la giurisdizione civile, oltre che l’organizzazione di alcune feste. Infine vennero creati altri sei arconti che presero il nome di tesmoteti (ossia letteralmente «coloro che creano le leggi»), cui spettava la giurisdizione relativa agli illeciti che minacciavano l’ordine costituzionale. E infine l’ex re, ormai esautorato, assunse a sua volta la qualifica di arconte, mantenendo in ricordo dei suoi perduti poteri la qualifica di basileus, e, oltre ad alcune competenze in ambito sacrale, la giurisdizione in materia di reati di sangue.
Ad assistere i nove arconti nell’esercizio delle loro funzioni, stava inoltre un organo collegiale, il Consiglio degli anziani detto Areopago, composto dagli arconti usciti di carica, cui spettava, oltre a funzioni giudiziarie, una sorta di supervisione delle attività di governo.

2. I primi legislatori.

2.1. Draconte.

Sul finire del VII secolo a. C. sulla scena ateniese comparve Draconte, il primo legislatore della città (per lungo tempo considerato un personaggio ai limiti tra mito e storia, alla cui reale esistenza oggi si tende peraltro a dare soluzione positiva), al quale la tradizione riconduce una legge, databile, grazie a una testimonianza di Aristotele, al 621-620 a. C.1
Una legge che segna un momento fondamentale non solo nella storia della Grecia, dove pone i presupposti a partire dai quali avrà inizio il cammino verso la democrazia, ma in quella dell’intera cultura occidentale, per comprendere a pieno la cui importanza si rende necessario tornare, con un passo indietro nel tempo, alla cultura della vendetta, alla quale ci riconducono i poemi omerici.

2.2. Una divagazione omerica: la cultura della vendetta.

La regola fondamentale alla base della cultura che determinava i comportamenti degli eroi omerici consisteva nella necessità di vendicare i torti subiti, la cui gravità dipendeva dal valore sociale di chi riteneva di esserne stato vittima.
Prendiamo due personaggi che possono essere considerati la personificazione dei due estremi del valore sociale. Da un lato Achille, «il migliore degli Achei»: bello, in primo luogo, cosa che per i Greci coincideva necessariamente con il valore sociale, come dimostra la celebre espressione kalokagatia (da kalos, bello, e agathos, nobile, valoroso).
Violento, irascibile, di un egoismo che a volte sfiorava il solipsismo, Achille era comunque l’eroe per antonomasia di un mondo dai valori totalmente, implacabilmente competitivi, dove quel che faceva di un uomo un eroe era, innanzitutto, la capacità di vendicare i torti subiti.
E nessuno, tra i Greci, lo aveva mai fatto con gli effetti devastanti che ebbe la vendetta messa in atto da Achille quando Agamennone gli aveva sottratto Briseide, la schiava di guerra che gli era stata assegnata in riconoscimento del coraggio dimostrato in battaglia. Achille era arrivato al punto di ritirarsi dal combattimento: poco o nulla gli importava dei commilitoni che in sua assenza morivano sul campo a migliaia. A farlo recedere dalla decisione fu solo il dolore insostenibile per la morte dell’amatissimo Patroclo, caduto per mano di Ettore. Cosí come il ritiro, anche il ritorno alla battaglia fu una vendetta: Ettore aveva ucciso Patroclo, Ettore doveva morire.
E passiamo, adesso, all’estremo opposto della scala sociale: Tersite, povero, plebeo, ignorante, volgare, e inutile a dirsi brutto, bruttissimo: il piú brutto tra tutti quelli andati a Troia. L’unica volta che aveva parlato in assemblea, criticando Agamennone, Ulisse lo aveva preso a bastonate, tra il generale consenso (Il. II, 215 sgg.).
Questo era il mondo della vendetta, un mondo nel quale chi non si vendicava vedeva automaticamente abbassare il proprio status sociale, un mondo nel quale ciascuno pensava ad affermare sé stesso, senza alcuna considerazione per le esigenze altrui, senza la percezione dell’esistenza di un interesse comune superiore a quelli individuali, sul cui riconoscimento si basava l’unica possibilità di una vita pacifica e civile. La vendetta, insomma, era un comportamento funzionale a una società in cui, come abbiamo visto, la violenza era una virtú, e dove chi non vendicava i torti subiti era un imbelle:
Non senti che gloria si è fatto Oreste divino
fra gli uomini tutti, uccidendo l’assassino del padre
Egisto ingannatore, che il nobile padre gli uccise?
dice Atena a Telemaco, nell’Odissea (I, 298-300), incitandolo a vendicarsi dei proci, i celebri pretendenti alla mano di Penelope, che dilapidavano i suoi beni e spadroneggiavano nella sua casa.
E ovviamente, al converso, chi non si vendicava era un vile, del quale nessuno, neppure le donne, poteva avere qualche considerazione: è il caso di Paride,...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Sparta e Atene
  4. Avvertenze
  5. Introduzione
  6. PARTE PRIMA. Sparta
  7. V. Laconicità, valore e pregiudizi: la cultura letteraria degli spartani
  8. PARTE SECONDA. Atene
  9. PARTE TERZA. Miraggio e miracolo: due modelli a confronto
  10. PARTE QUARTA. L’uso moderno dei modelli
  11. Congedo
  12. Bibliografia
  13. Il libro
  14. L’autrice
  15. Della stessa autrice
  16. Copyright