A Mosca, è ricco di storia un maestoso palazzo in stile costruttivista. Nata per sopperire alla mancanza di alloggi di prestigio nella nuova capitale (Mosca invece di San Pietroburgo), ideata e costruita in quattro anni (1927-31), la Casa sul lungofiume (in russo Dom na naberežnoj) è diventata un simbolo dei paradossi dittatoriali. Concepita per le fasce di piú alto livello della nomenklatura, la Casa con i suoi abitanti ha finito con l’essere bersaglio di agenti e servizi segreti impegnati a scoprire possibili dissidenti, o eventuali (spesso immaginari) complotti da parte dei suoi stessi collaboratori, alti burocrati o funzionari, che il dittatore Stalin sospettava agissero di continuo a suo danno, nonché del Partito e addirittura dell’intera nazione. La storia delle famiglie della Casa, passate da agi relativi a sequestri e violenze, è stata raccontata, dirò tra poco, da diversi autori come una sorta di microcosmo della Russia staliniana, della complessità di quel periodo, del modo di vivere alternativo, della evidente esultanza e piena soddisfazione dei privilegiati cui veniva concesso di abitare in uno di quei lussuosi appartamenti. Salvo poi essere catapultati all’improvviso e di notte nel «Grande Terrore», senza possibilità di scampo.
La Casa sul lungofiume aveva ben 505 appartamenti destinati ai membri delle classi sovietiche piú altolocate: ministri, esponenti della nomenklatura, insigni funzionari dei ministeri, membri del governo, generali, eroi bolscevichi della Guerra civile, scienziati, letterati, scrittori, attori, tutti superbi del proprio passato e del presente, fedeli e fieri del riconoscimento che il partito-Stato concedeva loro. Nel complesso la casa era un edificio di eccezionale prestigio: come “una città nella città”. Nel suo interno c’erano campi da tennis e centri sportivi, una imponente palestra e una altrettanto imponente biblioteca, un cinematografo, negozi di parrucchieri, un mercato, un ristorante che serviva pranzi e cene e che, se richiesto, li portava direttamente negli appartamenti. Il tutto era solo ed esclusivamente predisposto per gli abitanti.
Gli alloggi erano enormi per gli standard sovietici e ognuno di essi aveva rifiniture di pregio, artistiche carte da parati, boiserie e parquet all’interno, e persino all’esterno su scale e pianerottoli. I mobili di lusso, le pesanti poltrone, i divani, le sedie, i letti matrimoniali e non, i grandi lampadari di cristallo appartenevano allo Stato, e su ognuno di essi c’era una targhetta di metallo con il numero d’inventario. Lo stabile aveva ben 25 differenti ingressi, ciascuno dei quali sorvegliato da un agente scrupoloso, che annotava con diligenza chi entrava e chi usciva e quando. L’ingresso numero 11 era però sempre chiuso e apparentemente disabitato. Forse era proprio quello il luogo specifico in cui la Nkvd, il servizio segreto dell’epoca, aveva installato (a insaputa di tutti), le centraline che probabilmente intercettavano e registravano le conversazioni, le piú riservate e confidenziali nelle singole stanze, e persino nei bagni di ogni appartamento in cui risiedevano i personaggi della nomenklatura, e anche i loro ospiti. Tra gli inquilini piú famosi, c’erano anche i parenti di Stalin, la figlia Svetlana Allilueva e il figlio Vasilij, nati dal suo secondo matrimonio.
Un “ospite d’onore” era Aleksej G. Stachanov, cui si è già accennato, il minatore sovietico diventato leggendario per la fulmineità con cui estraeva tonnellate di carbone dalle miniere. A titolo di premio per il record raggiunto, Stalin gli aveva regalato un’abitazione in quella casa fastosa, ma lui preferiva stare all’aperto suonando la fisarmonica e ubriacandosi davanti alla casa e sul lungofiume. La gente faceva capannello attorno a lui, lo ammirava e ascoltava mentre cantava le canzoni dei minatori, o raccontava del suo lavoro in miniera. In pratica, senza saperlo, l’operaio pubblicizzava ciò che ormai veniva propagandato e imitato come stachanovismo patriottico. Proprio quello che il Partito si attendeva da lui, dimostrando in tal modo di essere una persona reale e non inventata ad arte (qualcuno lo supponeva senza però farne parola con nessuno), incitando tutti – con la sua sola presenza – a lavorare di piú per essere poi ammirati e premiati con un simile appartamento, come era accaduto a lui.
Un’altra che sarebbe rimasta piú volentieri nel piccolo paese in cui era nata e vissuta era la madre di Nikita Sergeevič Chruščëv, che il figlio aveva portato con sé in città. All’epoca Chruščëv era uno dei piú stretti collaboratori di Stalin, membro effettivo del Partito comunista dell’Unione Sovietica, e del Comitato centrale.
La Casa sul lungofiume e i suoi sfarzosi appartamenti (fino ad allora invidiati da tutta quella élite moscovita che, pur facendo parte della classe dirigente, non godeva di una simile benemerenza) si trasformarono all’epoca delle purghe in un luogo di ansia, di batticuore, da cui era impensabile anche solo immaginare di fuggire. La Casa veniva mentalmente associata alla Lubjanka, la piú terribile prigione di Mosca e dell’intera Russia. Si ritiene che la polizia segreta di Stalin abbia prelevato e deportato via via nei GULag almeno 800 inquilini o proprietari di quel caseggiato, arrestati all’improvviso nel cuore della notte, e di cui le famiglie non seppero mai piú nulla1. In certi casi erano invece scomparsi interi nuclei familiari.
Nottetempo arrivavano i furgoncini neri (voronki, “corvi”) della Nkvd, e le persone venivano condotte fuori in profondo silenzio. In alcuni appartamenti erano stati arrestati sino a cinque successivi proprietari: dapprima si incarcerava il membro di una famiglia, anch’essa subito cacciata via, poi arrivava un’altra “famiglia felice”, ignara di dover forse subire prima o poi la stessa sorte, e ben presto un’altra ancora, e cosí via. Spesso quelli che erano stati i loro alloggi rimanevano chiusi.
All’improvviso ogni cosa era mutata: non piú una dimora di alto prestigio, dalle finestre tutte illuminate, da cui la sera provenivano musiche festose; non piú le lussuose vetture da cui scendevano uomini di rango e signore in pelliccia. Come nella favola di Cenerentola dove tutto si interrompeva ai rintocchi della mezzanotte, cosí nella Casa sul lungofiume tutto si arrestava, e coloro che erano stati condotti via in silenzio, dentro i neri voronki, potevano solo sperare di essere poi riabilitati, almeno da morti.
Oggi, al numero 20 si può visitare il museo della Repressione in cui, tramite fotografie, viene mostrata la vita felice degli abitanti di quel lussuoso caseggiato, prima della loro scomparsa. Da tempo l’edificio è stato inoltre ristrutturato, arricchito, e appartiene ormai a proprietari privati. Infine, nel 2017 la Casa è stata oggetto di un corposo saggio, The House of Government di Yuri Slezkine, che in oltre 1000 pagine ne ha fatto un simbolo (fallimentare) dell’intera Rivoluzione.
Ma ben prima di Slezkine, lo scrittore Jurij Trifonov (1925-1981) ha pubblicato un libro diventato famoso, appunto La casa sul lungofiume (1976) – per lui il palazzo in cui era vissuto da bambino: «Tanto grande che al mattino oscurava il sole, e anche in una giornata assolata gettava un’ombra enorme». In effetti aveva una superficie di tre ettari2.
Da piccolo Trifonov aveva fatto amicizia con i compagni della sua scuola elementare, frequentata indifferentemente da quelli privilegiati come lui, che risiedevano in quel palazzo maestoso, ma anche dagli altri, i figli dei proletari che coabitavano per conto loro,
[…] in un vicolo vicino, dietro i cumuli di rifiuti, in una casa un po’ sbilenca, con il tetto sfondato qua e là, e una scala buia con i gradini rotti…
Vale a dire in una delle tantissime kommunalki:
Dove la biancheria bolliva sempre nella tinozza e qualcuno cuoceva i cavoli […] a volte ci si lavavano le mani in quella che era stata una stanza da bagno, che però era divenuta angusta per le tavole che coprivano la vasca, in cui nessuno si lavava o faceva il bucato, e sulle tavole c’erano i catini e le bacinelle dei vari inquilini…3.
I compagni di scuola delle case della zona – ricchi o poveri che fossero – andavano a trovarsi l’un l’altro nelle rispettive abitazioni, o giocavano insieme lungo la strada che divideva gli edifici: da una parte la Casa sul lungofiume, fastosa e gigantesca e, poco piú in là, la kommunalka dove, in un singolo, piccolo alloggio molto popolare, vivevano ammassate diverse famiglie, di operai, tecnici, impiegati, ma anche gente rozza o incivile, se non di malaffare. Tutti obbligati a vivere insieme in spazi ristretti: le famose «case in coabitazione» (kommunalki). Qualcuno le ha definite giustamente «tuguri» (truščoby).
La kommunalka era l’abitazione popolare in cui ognuna delle tante famiglie dei compagni-cittadini-proletari (senza quasi conteggiare il numero dei bambini) aveva diritto ad una stanza propria, ma piccola, che poteva o doveva essere suddivisa anche con altri, mentre cucina e bagno appartenevano a tutti: di solito da due a sette famiglie che condividevano fra loro gli spazi soffocanti di un qualsiasi alloggio comunale.
Nel suo libro, scritto sulla base delle memorie infantili, Jurij Trifonov descrive gli splendidi appartamenti della casa in cui egli stesso abitava sul fiume Moscova, i fantastici lampadari, i mobili, gli addobbi. Ma contemporaneamente, anche la convivenza che altri inquilini erano costretti a sopportare nella casa sbilenca, a cominciare dalla nonna di un suo amico e compagno di scuola:
Nonna Nila era afflitta da una coinquilina che abitava nella stanza dirimpetto, che arrivava tardi dal lavoro, e cominciava alle undici di notte a rimestare tra camera e cucina, con le casseruole che tintinnavano l’una contro l’altra. Nonna Nila dormiva su un cassone vicino alla porta, cosicché l’andirivieni della vicina e il tintinnio delle stoviglie la svegliavano di continuo4.
Nello stesso appartamento c’erano anche i
[…] Byčhovy, un’allegra famigliola […] che si comportava come se fossero i padroni. Erano temuti da tutti. Invadevano la cucina verso sera e non lasciavano entrare nessuno […] Il vecchio Byčhov metteva il pellame che lavorava a bagno in un liquido puzzolente […] Il figlio maggiore era stato espulso da scuola […] e forse faceva parte di un giro di ladri […] Avevano un grosso cane nero, Abdul, che faceva paura a tutti5.
La vita di Jurij Trifonov era stata sconvolta una notte del 1937, quando suo padre, ex rivoluzionario bolscevico, e senza alcuna colpa, era stato portato via all’improvviso: scomparso per sempre tra le purghe. Il resto della famiglia aveva dovuto abbandonare immediatamente, all’alba, quella dimora prestigiosa per andare a vivere in una squallida periferia: una piccola stanza in un appartamento in comune con molti altri. Al mattino, al momento del trasloco, persino il portiere aveva fatto finta di non conoscere né lui, ragazzino, né i familiari rimasti, mamma e nonna. Chi andava via da quella casa non esisteva piú6.
L’appartamento in coabitazione – in russo kommunaĺnaja kvartira, o piú semplicemente kommunalka, con un unico bagno e gabinetto per piú famiglie – è stato una di quelle straordinarie invenzioni sovietiche, volute soprattutto da Lenin, che precisava come fosse da considerare «ricco ogni appartamento il cui numero di stanze era uguale o superiore al numero dei membri della famiglia»7. Ovviamente, nessuno poteva scegliersi una stanza intera e alloggiare in una data zona della città, piú vicino al luogo in cui lavorava, o al resto della famiglia, o agli amici piú cari. Come sempre, erano i burocrati che assegnavano le abitazioni e ne stabilivano luogo e grandezza. Quanto alle case divenute kommunalki, potevano essere vecchie e malandate, come quella periferica in cui era poi venuto a trovarsi in modo imprevedibile il giovane Jurij Trifonov. Oppure a volte, anche case di grande prestigio se viste dal di fuori erano diventate abituri o catapecchie nei loro interni.
Fin dal 1917, con una risoluzione ad hoc, Lenin e il governo bolscevico avevano infatti soppresso le proprietà private espropriando i proprietari che le avevano acquistate, o che ci vivevano sin dalla nascita. L’argomento è stato trattato e dibattuto da diversi autori, russi o stranieri, che per qualche specifica situazione avevano dovuto adattarvisi o ne avevano discusso con altri che vivevano in una kommunalka. Lo stesso Trifonov ricordava nel suo libro i propri compagni di scuola, costretti a vivere in piccoli alloggi abitati da diverse famiglie, dentro case opprimenti, all’ombra della smisurata Casa sul lungofiume. Cosí era successo anche a lui.
Fra le innumerevoli persone e famiglie, obbligate a sopportare la gravosa condizione di vivere in una soffocante kommunalka, imposta dal regime sovietico ai cittadini russi, è da citare Iosif Aleksandrovič Brodskij, poeta insignito nel 1987 del premio Nobel per la letteratura. Nato nel 1940 e residente a Leningrado, sin da bambino Brodskij era vissuto nell’appartamento numero 28 (piú che appartamento, stanza 28) al numero 24 della prospettiva Litenij. Egli stesso rimarcava: «Eravamo in due e mezzo, mio padre, mia madre e io: una normale famiglia sovietica di quell’epoca». E, come non bastasse, «Tutti conoscevano a memoria la biancheria intima dei coinquilini»8. Ben diverso era invece l’edificio visto dalla strada: uno di quei palazzi monumentali, fra i piú pittoreschi di Pietroburgo, con torrette, colonnine, fregi di foggia orientale e archi moreschi. Dal di fuori era infatti la «casa Muruzi», chiamata cosí dal nome del miliardario greco, che l’aveva fatta costruire nel 1903.
La vita di Iosif Brodskij era però diventata «una vita spezzata» sin dalla sua prima infanzia, proprio a causa dell’abitazione obbligata nella kommunalka in cui, come migliaia di altri (bambini, adolescenti, adulti), era stato costretto a vivere. Ma anche crescendo, e sin dall’inizi...