I raggi cocenti del sole estivo rifulgevano sulla superficie dell’acqua creando scie luminose. – Guarda, c’è il mare, – disse, e quando abbassò il finestrino del taxi sentí investirlo il profumo di salsedine. Yuriko si voltò adagio per ammirare il panorama esterno. – Che bello… – sussurrò, gli occhi socchiusi.
– Ogni volta che vedo il mare mi torna alla mente quel pesce gigante, – fece Izumi, il volto accarezzato dalla brezza marina.
– Quale pesce gigante? – domandò Yuriko, spostando lo sguardo dal mare al figlio.
– Ti ricordi quando alle elementari siamo andati a pesca per la prima volta?
– Oh, sí, avevi pescato un pesce gigante!
– Proprio quello. Che sorpresa, non avevo fatto in tempo a posizionare l’esca e gettare la canna in acqua che un pesce aveva abboccato e avevo dovuto riavvolgere a tutta forza! – esclamò Izumi mimando il momento in cui aveva girato il mulinello.
– Dopo quel giorno sono andato a pescare tante altre volte, ma non ho mai battuto quel primo record.
– Sei sempre stato baciato dalla fortuna del principiante. La prima volta che hai partecipato a una lotteria hai vinto una bicicletta, e alla gara di corsa della tua prima competizione sportiva di scuola sei arrivato in cima al podio. Ah, però, Izumi, nel tuo caso era diverso.
– Che cosa?
– La tua prima esperienza di pesca non è stata al mare, bensí al lago, – rispose Yuriko, guardandolo fisso in volto. Quel giorno Yuriko era insolitamente in forma e sembrava usare con cura ogni parola. La loro conversazione appariva in tutto e per tutto come un normale botta e risposta tra madre e figlio. Se il conducente del taxi non fosse stato al corrente della loro destinazione, non avrebbe avuto alcun motivo di pensare che Yuriko fosse affetta da demenza.
– No, mamma, ero al mare, me lo ricordo bene.
– Anche io. E ti so dire con esattezza persino il nome del lago e della pensione privata dove abbiamo dormito. Avevi pescato una trota arcobaleno e ce la siamo fatta cuocere alla griglia dalla cucina della pensione. Te la sei pappata con gusto, continuavi a ripetere che era buonissima. Non ti ricordi?
Izumi riavvolse il nastro della memoria e convenne che forse erano davvero andati al lago. Quel giorno aveva pescato un pesce gigante dalla barca a remi, ricordava alla perfezione sia la sensazione provata quando la barca aveva oscillato che il sapore del pesce alla griglia cotto col sale. Non rammentava altro, ma se le cose stavano in quel modo, allora aveva ragione la madre.
Da quando i medici avevano diagnosticato l’Alzheimer a Yuriko, Izumi aveva preso l’abitudine di chiacchierare spesso del passato. Le raccontava dei momenti trascorsi insieme da quando lui aveva memoria. Credeva che quella tecnica si sarebbe rivelata in qualche modo utile per fissare i ricordi di Yuriko mentre la malattia progrediva. Il libro illustrato con gli angoli accartocciati incentrato sull’amicizia tra un ragazzo e un mostro che le implorava di leggergli la sera, le carote dolci cotte con burro e zucchero, la macchinina giocattolo di colore blu a cui mancava uno specchietto, i pomodori ciliegini che avevano coltivato in giardino morti a causa degli afidi, il suo compagno di classe dotato di un talento straordinario che disegnava sempre manga, il panda di peluche dal quale non era riuscito a separarsi finché non aveva ottenuto la licenza elementare. Nella maggior parte dei casi la memoria di Yuriko si era rivelata piú precisa della sua e spesso Izumi aveva dovuto ravvedersi, proprio com’era appena accaduto quando aveva confuso il lago con il mare.
Mentre chiacchieravano, gli cadde l’occhio sulle mani di Yuriko e notò che la madre stringeva una pochette a fiori. Risaliva a quando lui frequentava il primo anno di scuola media, gliel’aveva regalata per il compleanno il primo di gennaio. Yuriko aveva gioito parecchio e aveva cominciato a portarla sempre con sé mettendola in borsa. Erano trascorsi piú di vent’anni da quel giorno, e sebbene fosse parecchio scolorita era stata conservata in maniera impeccabile e non aveva una macchia.
– Mamma, ce l’hai ancora? – fece Izumi, il dito puntato verso la pochette.
– È il mio piccolo tesoro, – rispose Yuriko, carezzandola con le sue mani candide.
Una volta, quando Izumi frequentava il liceo, Yuriko aveva perso la pochette. Aveva perlustrato la casa in lungo e in largo, il volto impallidito, mentre continuava a domandarsi dove potesse averla lasciata. Per cinque giorni aveva inoltre fatto avanti e indietro fino alla stazione percorrendo sempre la stessa strada e recandosi persino al posto di polizia piú vicino, ma c’era stato poco da fare: la pochette non aveva voluto saltare fuori. Perdonami, Izumi, l’avevi scelta con tanto amore. Non ti preoccupare, mamma, l’avevo pagata poco, te ne compro una nuova. Izumi non ci aveva dato molto peso, Yuriko invece si era addormentata col morale sotto i piedi. Izumi aveva quindi cominciato ad arrovellarsi per capire come risolvere la questione, e proprio mentre si lambiccava il cervello aveva ricevuto una telefonata dalla polizia: – Abbiamo trovato la pochette che cercava sua madre vicino alla fermata del pullman, l’abbiamo presa noi –. Yuriko si era precipitata al posto di polizia, e quando aveva ricevuto la pochette dall’agente, l’aveva stretta tra le dita candide e affusolate. Non la lascerò mai piú, aveva promesso. Chissà cosa c’era in quella pochette a fiori? Izumi non aveva mai controllato il contenuto, e adesso che ci rimuginava fu tentato dall’idea di aprirla furtivamente.
Il taxi svoltò dalla strada che costeggiava il mare in un vicolo, e dal parabrezza videro una vecchia casa col tetto in tegole. Yuriko, seduta accanto a Izumi, teneva lo sguardo fisso sul panorama davanti ai loro occhi. Doveva essere agitata. Quando Izumi notò che le sue mani strette alla pochette erano percorse da piccoli tremori si sentí travolgere da un pesante senso di angoscia. Stava abbandonando la madre? Quasi come per giustificarsi, la rassicurò dicendole che sarebbe andato a trovarla ogni fine settimana, pur sapendo che non gli sarebbe stato possibile. Yuriko, da parte sua, gli rispose di non preoccuparsi, che sapeva quanto fosse impegnato col lavoro e con i preparativi per accogliere il nascituro. – Cerca di stare accanto a Kaori, – aggiunse, un dolce sorriso disteso sul volto né piú né meno come se gliel’avesse letto nel pensiero.
Mizuki e la figlia li stavano attendendo davanti all’ingresso della casa famiglia. Izumi e Yuriko estrassero le valigie dal bagagliaio del taxi ed entrarono all’interno spingendo la porta. La figlia di Mizuki avanzò sul parquet indicandogli i diversi locali. Il gabinetto è da questa parte, il bagno con la vasca da quest’altra. Quella invece è la stanza degli operatori che lavorano qui, e laggiú può vedere il tavolo dove mangiamo tutti insieme. Yuriko la seguí indicando le diverse porte come per memorizzare la planimetria. Il gabinetto è da questa parte, il bagno con la vasca da quest’altra… La sua gracile schiena si voltava prima a destra, poi a sinistra. Salirono le scale in legno scricchiolanti e la figlia della direttrice mostrò loro le camere degli utenti e glieli presentò. Piacere, mi chiamo Kasai Yuriko, d’ora in avanti vivrò insieme a voi. Tra gli utenti ce n’era qualcuno incapace di rispondere a causa della demenza ormai in stato avanzato, ma Yuriko li salutò ugualmente uno per uno e porse loro i biscotti che aveva portato per l’occasione.
– Questa è la sua stanza, signora Kasai.
La figlia di Mizuki li condusse in una camera del piano superiore che faceva angolo. Quando aprí la tenda della finestra, videro un campo di daikon e, al di là di esso, il mare nel suo blu intenso.
– Signora Kasai, è davvero fortunata. Questa è l’unica camera con vista sul mare, – dichiarò con un sorriso Mizuki, che li aveva seguiti.
– L’unica camera… – mormorò Yuriko, il volto illuminato da un sorriso di sollievo.
Yuriko estrasse dai borsoni i pochi cambi che era riuscita a infilarci dentro, il vaso in cui era solita infilare un fiore per volta, i trucchi, il dentifricio e lo spazzolino, la radio portatile, l’asciugacapelli e altri piccoli aggeggi elettronici, e li sistemò nella sua stanzetta grande all’incirca sei tatami. Grazie all’aiuto di Izumi, il trasloco terminò prima del previsto. Quando madre e figlio finirono di disporre in camera i pochi effetti personali che Yuriko aveva portato con sé, si sedettero sul letto l’una accanto all’altro e ammirarono in silenzio la distesa di mare estivo che si vedeva in lontananza. Forse gli esseri umani portano con sé bagagli proporzionati ai loro ricordi. Andando incontro alla morte, il necessario si riduce poco alla volta.
Dopo aver ascoltato la spiegazione di Mizuki sulla vita nella casa famiglia, uscirono dalla struttura e videro il mare che brillava illuminato dai raggi del sole a ovest. Mentre attendevano l’arrivo del taxi che avrebbe riportato Izumi in stazione, Yuriko si avvicinò a Mizuki.
– D’ora in avanti conto su di voi, – disse in tono solenne nell’istante in cui vide il taxi svoltare in fondo al vicolo, abbassandosi in un inchino profondo verso Mizuki e Izumi e mostrando la ricrescita bianca dei capelli.
– Siamo noi a contare su di lei, signora Kasai, – replicò Mizuki sorridendole e afferrandola per un braccio. – Izumi, lei è sempre il benvenuto.
– Sí… Verrò senz’altro, – rispose lui sottovoce, senza spostare lo sguardo dalla vettura gialla in arrivo. Non riusciva a guardare la madre in quel momento.
Si infilò prontamente in taxi e comunicò all’autista di condurlo alla stazione. Nell’istante stesso in cui chiuse la porta, vide che le labbra di Yuriko si stavano muovendo. Forse gli stava dicendo qualcosa, ma la vettura partí senza che lui potesse sentirla. Izumi guardò dallo specchietto retrovisore, e intanto che osservava la sua figura rimpicciolirsi in lontananza ebbe l’impressione di udire la sua voce, come se Yuriko gli stesse sussurrando all’orecchio.
Non dimenticare i fiori.
Pentole bruciacchiate accatastate sotto il lavello, stoviglie impilate a caso e snack dolci e salati conservati alla rinfusa in sacchetti di carta. Dopo essere tornato nella piccola casa di Yuriko, svuotata della presenza della padrona di casa, Izumi cominciò a mettere ordine tra le cose della madre. Mentre gettava le fette di daikon, lo stufato di maiale e gli altri alimenti conservati nei contenitori alimentari ammassati nel frigorifero, ripensò alle tante volte che aveva mangiato le pietanze cucinate dalla madre. Allo stesso tempo, però, si rese conto che non avrebbe piú potuto assaggiare i manicaretti preparati dalle sue mani e rimase per qualche istante con lo sguardo fisso sugli avanzi che si scongelavano nel sacchetto dell’immondizia.
Quand’ebbe terminato di sistemare la cucina andò in bagno e raccolse gli shampoo, i detersivi e i saponi che Yuriko aveva comprato in quantità industriali e lasciato lí senza mai usarli. In un primo momento pensò di portarli a casa sua, ma un attimo dopo sentí che non fossero adatti a una casa in cui sarebbe presto arrivato un bambino e decise di disfarsene. Il giardino trascurato, la scarpiera in disordine, lo oshiire traboccante di oggetti. Aveva l’impressione di invadere gli spazi della madre senza esserne autorizzato, tuttavia non se la sentiva di affidare quell’incarico a un estraneo. Non riusciva a trovare i vecchi album fotografici né le fotografie di quando era ragazzo, ma quando ci rifletté con calma si ricordò di averli buttati via. Quel giorno aveva gettato nell’immondizia tutte le fotografie presenti in casa, come se avesse voluto rinunciare per sempre a qualcosa.
Tornato in sé, si accorse che fuori cominciava a fare buio. Con la coda dell’occhio vide accendersi le luci delle finestre dei caseggiati popolari dall’altra parte ...