Invito alla meraviglia
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Invito alla meraviglia

Per un incontro ravvicinato con la scienza

  1. 128 pagine
  2. Italian
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Invito alla meraviglia

Per un incontro ravvicinato con la scienza

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Molti dei romanzi di Ian McEwan, da Sabato a Solar fino a Macchine come me, attingono a campi specialistici solitamente preclusi ai profani. Non vi è dunque da stupirsi se nei cinque saggi qui raccolti l'autore sceglie di sottolineare i punti di convergenza, anziché le discrepanze, fra due forme di indagine della realtà, la letteratura e la scienza, tradizionalmente ritenute distanti se non incompatibili. Se in L'originalità delle specie la connessione è individuata nel comune anelito alla priorità, in Una tradizione parallela si evidenzia la necessità condivisa di un canone di riferimento. E in Letteratura, scienza e natura umana è la relazione fra ciò che tutti gli esseri umani hanno in comune e ciò che li distingue, o più precisamente fra genetica e cultura, a fare da trait d'union fra i saperi. Il proliferare di credenze parascientifiche e parareligiose sul tempo dell'inizio e della fine, esplorate in Blues della fine del mondo, dimostrerebbe una pulsione di collettività nelle cose ultime, ma è in definitiva all' Io, con le sue infinite sfaccettature in ambito letterario e neuroscientifico, che tutto si riconduce. È la penna del grande romanziere a fare di una storia di scoperte scientifiche lunga due secoli, da Darwin a Dawkins, un «sublime trionfo della creatività umana».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
ISBN
9788858435090

L’io

Esiste un ente mentale che raggiunga i livelli di paradosso dell’io? Di una schiacciante evidenza da un lato, ma fastidiosamente inafferrabile dall’altro. Ogni mattina, svegliandoci, ce lo calziamo addosso, o viceversa l’io indossa noi, come un paio di scarpe comode. Anzi, per la precisione, al risveglio ci ritroviamo già quelle scarpe ai piedi. C’è chi si sveglia in scarpe scomodissime. Un ridotto numero di soggetti patologici si sveglia a piedi scalzi e si ritrova in una camera di tortura orribilmente nota. Nemmeno nel sonno sfuggiamo pienamente all’io che, nei nostri sogni, svolge un ruolo di testimone o di ente attivo, spesso entrambe le cose. Eppure siamo in difficoltà a definirlo, questo io. Di certo lo sono i filosofi. E il compito di descriverlo, di comunicarlo ad altri io − nei quali per definizione non potremo mai penetrare − è questione complessa, immancabilmente incompleta che, come andrò a sostenere tra poco, è approdata nella nostra letteratura in modo sistematico, consapevole ed esteso solo agli albori dell’era moderna, con il che intendo grosso modo il XVI secolo. Laddove con «nostra» assumo una prospettiva genericamente eurocentrica che affonda le proprie radici nel mondo greco-romano.
Potremmo essere tentati di far coincidere l’io con la coscienza stessa, ma sappiamo che l’aderenza non sarebbe perfetta: non tutte le parti dell’io ci risultano costantemente attingibili. La coscienza comporta senza dubbio la consapevolezza dell’io, e l’identità accoglie tutto ciò che la coscienza ha da offrire, ma continua a non essere l’io, almeno non l’io tutto intero, l’io propriamente detto. Né d’altra parte lo è il carattere, coi suoi tratti in terza persona, utile per la descrizione degli altri, o per comprenderne e prevederne il comportamento, ma privo della qualità soggettiva, percepita, del sé. Se è di sinonimi approssimativi che siamo in cerca, questi non mancano di sicuro: il cuore, l’anima, la mente, l’individualità. Un’approssimazione possibile è la particolare accezione della parola «vita» in espressioni come «vita interiore». È la nostra vita che riprendiamo al risveglio, e non soltanto la sua manifestazione esteriore in ambito professionale o relazionale; è lo spazio entro il quale ciascuno di noi deve vivere. L’io inteso come vita vissuta è ciò che James Fenton evoca in un famoso componimento in cui la desolata voce poetica dichiara sin dal primo verso: «Ho preso la mia vita e l’ho buttata sopra il cassonetto». Piú avanti il narratore trova la vita di qualcun altro sopra lo stesso cassonetto, è fradicia: la porta a casa e l’asciuga davanti alla stufa. «Me la sono provata. Calzava come un guanto». Un vecchio io infelice che il narratore ha abbandonato in cambio di un io nuovo che felicemente assume. Anche il piú insoddisfatto di noi potrebbe obiettare a questo punto: se solo ci si potesse disfare dell’io con tanta disinvoltura.
Ma una vita come la intende Fenton non è precisamente un io. Ci è data la possibilità di cambiar vita e il nostro io cambia col tempo, ma c’è nell’io qualcosa di perpetuo e inesorabile. Certe sostanze stupefacenti, alcol compreso, possono liberarcene per qualche tempo, ma il vecchio io, quello con cui siamo arrivati davanti al cassonetto, sarà lí ad aspettarci al nostro ritorno. E malgrado si viva giorno dopo giorno entro i confini dell’individualità, l’io, com’è evidente, esce da quei confini per rivolgersi domande su se stesso. Pensiamo alla frequenza con cui la lingua ricorre a espressioni come autostima, autocritica, autoaccusa, autoreferenzialità, autolesionismo: l’elenco è assai lungo e non può che essere il prodotto linguistico di altri io, ovviamente. Quando Bob Dylan canta Yer gonna make me give myself a good talking to rivolgendosi all’amata che lo sta lasciando, noi capiamo bene cosa intende. E sappiamo anche che a fare e ad ascoltare la chiacchierata di cui parla sarà per forza lo stesso io.
I neuroscienziati affermano – con l’autorevolezza che era un tempo appannaggio dei preti – che non esiste nel cervello nessun luogo deputato a ospitare l’io, quello che era stato il ruolo della ghiandola pineale nella descrizione cartesiana dell’anima. Nessun homunculus acquattato e guardingo dentro di noi. Al contrario, l’io è piuttosto ovunque e in nessun luogo nel cervello, spalmato su vaste e complesse reti neurali. È tuttavia assodato che i traumi subiti dalla corteccia prefrontale possono causare alterazioni profonde nella percezione soggettiva dell’io. Lesioni che compromettono o addirittura cancellano la memoria autobiografica devasteranno massicciamente la struttura dell’identità, suggerendo l’idea che tempo, memoria e continuità siano elementi essenziali di quel che significa essere un io.
Con il che ci inoltriamo in un altro territorio controverso. L’io come forma narrativa, come storia che raccontiamo a noi stessi mentre si fa, costituisce l’ortodossia contemporanea. Nessuno ha scritto in proposito meglio, né ha compendiato piú esaustivamente le fonti cosiddette «narrativiste» del filosofo Galen Strawson, il quale rimane tuttavia profondamente scettico riguardo alla teoria, o perlomeno, all’assunto che sia valida per tutti. Stando alla sua analisi, non mancano di certo sostenitori convinti e autorevoli, tanto in campo umanistico quanto in ambito psicoterapeutico, della teoria secondo la quale ciascuno di noi sarebbe il testo che personalmente compone. Qualche esempio di dichiarazione «narrativista» secondo Strawson: «Ciascuno di noi costruisce e vive una “narrazione” […] noi siamo tale narrazione», dice Oliver Sacks; «l’io è un racconto incessantemente riscritto», scrive Jerome Bruner in The Remembered Self; e ancora, da svariate altre fonti accademiche: ciascuno «crea la propria identità dando forma a una narrazione autobiografica»; siamo tutti «romanzieri esperti e raffinati»; «il protagonista d’invenzione al centro dell’autobiografia è l’io».
Uno degli aspetti seducenti di questa visione è che conferisce al soggetto un lusinghiero livello di efficacia performativa. Ci sentiamo corroborati al pensiero di essere costruzioni volontarie di noi stessi. La romanziera americana Mary McCarthy ebbe a scrivere: «prima o poi cominciamo in un certo senso a scegliere e a inventarci l’io che vogliamo». Anche piú in là si spinge Germaine Greer: «Gli esseri umani hanno un diritto inalienabile all’invenzione di se stessi».
Va da sé che il costrutto innato e universale di un io autoriale incanta i romanzieri. Ci sentirete alle tavole rotonde dei vari festival di letteratura sostenere regolarmente che siamo, tutti senza esclusione, piú di ogni altra cosa, creature narranti, che mettiamo al mondo noi stessi scrivendoci e che, in assenza di questo racconto dell’io, andremmo incontro a una sorta di decesso mentale e all’inevitabile dissoluzione della nostra umanità. Vale tuttavia la pena di ricordare che i romanzieri sono pagati per inventare storie. Per di piú sono molti gli ambiti di attività – genetisti come architetti, fisici come urbanisti – da cui sentirete sostenere che le rispettive scelte professionali abbracciano le basi, i principî fondamentali di ciò che significa essere umani. A tutti noi piace credere di essere non solo importanti ma necessari. E su questo fronte i romanzieri sono per loro natura permalosi.
Personalmente, per un discreto lasso di tempo, devo ammettere di essere stato un narrativista tiepido in occasione di quelle tavole rotonde. Sentivo che avrei dovuto mostrare una partecipazione piú solidale ed entusiastica. Il mio disagio aveva ben due ragioni di essere. Prima di tutto, un certo scetticismo nei riguardi del libero arbitrio necessario a scrivere e costruirmi un io. Non mi sono scelto l’infanzia, né il patrimonio genetico, non mi sono mai scelto l’io con il quale ho finito per ritrovarmi. Al tempo stesso ero lieto di accettare il libero arbitrio come un’illusione necessaria: «possediamo» una coscienza e dobbiamo di conseguenza farcene carico. In secondo luogo, mi frenava la mia generale tendenza a ricordare ben poco. Infanzia, adolescenza, giovinezza sono semplici brandelli, nemmeno disposti in successione affidabile, raggiungibili solo con fatica o in risposta a domande mirate, e di sicuro non appartenenti a un «racconto» quotidianamente esperito. Mi sono sempre sentito in soggezione al cospetto di autori come Saul Bellow o John Updike. Dickens è un altro ottimo esempio. I loro romanzi sono brulicanti di materiale di ogni genere, personaggi minori e protagonisti, odori, voci, luoghi provenienti dai primi anni di vita – un formidabile, ricchissimo compendio di esperienze che essi erano in grado di evocare senza fatica per trasformarle in narrazione.
A differenza di Updike non ricordo tutte le filastrocche delle bambine al parco giochi, il nome della signora che vendeva le caramelle, l’odore che aveva l’alito del mio primo dentista. Date queste lacune, è stato per me un sollievo, per non dire una liberazione, leggere Strawson e scoprirlo citare a sua volta Bill Blattner: «Noi non siamo testi. Le nostre storie non sono narrazioni. La vita è diversa dalla letteratura». Come scrive Strawson, «qualcuno doveva dirlo, prima o poi». Strawson ad esempio non vive il proprio io come un racconto confezionato dall’io medesimo bensí come qualcosa di episodico, una catena di momenti erratici legati da un susseguirsi di presenti. Strawson rivendica a se stesso un livello «assolutamente dignitoso» di conoscenza del proprio passato ma non crede che una narrazione autobiografica svolga «un ruolo significativo nell’esperienza della realtà». Si appella alla «immensa baraonda della vita» di cui parla Henry James. Strawson non contrasta la versione narrativista della vita interiore (pur domandandosi se i sostenitori della tesi riferiscano la propria esperienza in modo accurato). Si limita a dire che per lui e per altri non è cosí.
Preferisce dividerci in due categorie, secondo la modalità consolidata: «Coloro che percepiscono l’autorialità in relazione ai propri pensieri, e coloro che, come me, questa percezione non ce l’hanno e sentono i pensieri come cose che semplicemente accadono». Per la squadra non narrativista, Strawson si conferma inoltre un buon catalogatore di citazioni appropriate. Eccone una da Emerson: «Siamo trascinati dal destino lungo il fiume della vita con l’espressione seria e l’assoluta ignoranza di infanti portati a spasso su un carrozzino di vimini». A dispetto della sua memoria eccezionale, John Updike scrive di avere «nella vita la sensazione di un interminabile principio». Strawson invoca ancora Updike, ricordando un altro suo saggio nel quale l’autore lamentava la pochezza della biografia come forma letteraria. Essa «non è in grado di trasmettere la strabiliante innocenza che, nell’eterno presente della vita, accompagna l’io apparentemente reale». Strawson non resiste alla tentazione (chi potrebbe, del resto?) di ricordare il citatissimo passaggio del saggio di Virginia Woolf dal titolo Il romanzo moderno: «La vita non è una serie di lampioncini disposti in ordine simmetrico; la vita è un alone luminoso, un involucro semitrasparente che ci racchiude dall’alba della coscienza fino alla fine».
Ciò che manca a tante indagini sulla natura dell’io ha a che fare con il suo incarnarsi in un corpo. Nessuno di noi è un cervello su una piastra di Petri. L’esperienza di essere un io va di pari passo con quella di avere un corpo, con quel che comporta in fatto di confidenza, crescita, declino, sofferenza, piacere. Quel dolore che sentiamo alla mandibola quando mangiamo un gelato; il neo sul ginocchio che è stato con noi dall’infanzia; il dito del piede che ci dà delle noie dopo qualche chilometro di marcia; il brivido lungo la schiena che proviamo all’ascolto di un particolare brano di musica. Ma anche, venendo all’essenziale, la semplice sensazione di trovarci confinati dentro un corpo – il modo particolare in cui è orientato, la specifica posizione degli arti.
Updike è bravissimo in queste cose, come in ogni minuto dettaglio, le note in corpo minore dell’esistenza. Nel suo saggio On Being a Self Forever scrive: «Quando alzo gli occhi verso l’azzurro terso di un cielo, o poso lo sguardo su una luminosa distesa di neve, prendo coscienza di uno schema fisso di imperfezioni ottiche: macule nel mio umor vitreo, simili a microbi congelati, che vagano, di norma inosservate, nel mio campo visivo». Non solo, brani di vecchie canzoni, frammenti di rime strampalate gli viaggiano d’abitudine nei pensieri come entità extracorporee: I’m bidin’ my time | ’Cause that’s the kinda guy I’m. Quando scrive il suo nome gli si blocca d’istinto la mano in cima alla «d». Ha una cicatrice sul palmo che si è procurato tantissimi anni addietro, quando al liceo gli capitò di ferirsi accidentalmente con una matita. Ogni volta che solleva la prima falange dell’indice della mano sinistra rileva un lieve cattivo odore, indipendentemente da quanto si lava le mani. È una sensazione vagamente piacevole. I pensieri che accompagnano il risveglio tendono a essere assurdi: è ora che si tagli le unghie? Come mai il laccio della scarpa continua a slegarsi? Ansie rimaneggiate, ricordi soffusi: questa congerie di dati compone il suo io intimo, il sostrato roccioso che sostiene il manifestarsi piú o meno accettabile della sua performance professionale, sessuale e sociale.
Sono questi gli intimi dettagli che caratterizzano la percezione che ogni uomo ha del proprio io incarnato. Nel suo saggio, Updike contempla il concetto di eternità e si chiede che cosa comporterebbe possedere quell’io con tutte le sue prerogative «per sempre, farlo sopravvivere all’universo atomico». C’è qualcosa di assurdo, deve ammettere, in quanto credente, in tutto ciò per noi che viviamo in una condizione di costante cambiamento. E a proposito di cambiamento due sono gli elementi dell’individualità in contrasto tra loro: permanenza e provvisorietà. Fu notoriamente John Locke a collegare l’identità, il senso dell’individualità, con la permanenza temporale. «Per trovare in che cosa consista l’identità personale, dobbiamo considerare per che cosa sta la parola persona; e sta, credo, per un essere pensante intelligente, dotato di ragione e di riflessione, che può considerare se stessa come se stessa, cioè la stessa cosa pensante, in diversi tempi e luoghi […] si tratta dello stesso io ora e allora ed è dallo stesso io – lo stesso di quello attuale che ora riflette su di esso – che…»
Ecco un paradosso consueto dell’io: riconosciamo che il tempo ci trasforma, che il nostro io di cinque e quello di quattordici anni erano profondamente diversi dall’attuale, eppure quel cinquenne, quel quattordicenne rivendicano su di noi diritti inalienabili. Secondo la convinzione di Updike, «invecchiamo e ci lasciamo alle spalle una nidiata di io irrimediabilmente defunti». Non sono del tutto d’accordo: mai proprio defunti, ancorché irrecuperabili, mai proprio alle nostre spalle, ancorché dimenticati. Un esile filo di causa, effetto e casualità ci lega comunque ai nostri io precedenti. Ogni giorno, ogni minuto di ciascuna ora, ogni battito cardiaco legano la bambina alla vecchia signora, come pietre di passo su un corso d’acqua. Il colpevole deve affrontare il processo per l’omicidio perpetrato anche dopo trent’anni. In quanto titolari di quel vecchio io restiamo responsabili delle sue azioni. Crollerebbe altrimenti l’intero sistema giudiziario. Analogamente durante un evento pubblico può capitare a un autore di dover rispondere a domande riguardo a un racconto o un romanzo scritti cinquant’anni prima. L’obbligo a farlo risulta chiarissimo, dal momento che nessuno scrittore solleva mai obiezioni all’eventuale pagamento dei diritti d’autore su un testo. Il che tuttavia non lo affranca dalla sensazione di essere un impostore, un ciarlatano. Quel libro non è frutto del suo io attuale. Le frasi irriconoscibili, le tematiche sorprendenti potrebbero benissimo essere l’invenzione di un altro. Ecco perché Philip Larkin detestava le apparizioni in pubblico che descriveva come un andarsene in giro «fingendo di essere me stesso».
Infine, in questo breve excursus degli elementi dell’io, ci confrontiamo con la sua forma piú ovvia: l’intrinseco, imprescindibile, immanente produttore e recettore di pensieri, l’entità alla quale ineriscono sofferenze e piaceri, sogni e desideri, per dirla con Locke, «quella cosa pensante cosciente […] capace di felicità o infelicità, e perciò si preoccupa di se stessa fin dove giunge quella coscienza». Lo schermo sul quale precipitano i dati sensoriali, nucleo di identità, l’essere per il quale arrossiamo, di cui siamo orgogliosi o ci vergogniamo, o ancora, dal medesimo saggio di Woolf, il ricevente di «una miriade di impressioni – futili, fantastiche, evanescenti, o scolpite con una punta d’acciaio. Esse ci giungono da ogni parte, in uno scroscio incessante di innumerevoli atomi; e mentre ricadono […] prendono forma nella vita di un qualsiasi lunedí o martedí».
Come radunare insieme tutti questi elementi dell’io? Pensiamo al percorso da casa al lavoro in un qualsiasi lunedí mattina. La sensazione del selciato sotto i piedi, la disinvolta familiarità del passo, il contatto gradevole con l’aria fresca di ottobre. Suoni e immagini noti dell’ora di punta. Brandelli di idee che sottendono il consueto registrare mentalmente traffico e passanti. Tali pensieri sparsi sembrano presentarsi in modo spontaneo e ciononostante essere in qualche misura sotto controllo. L’assillo di un compito non portato a termine, la vaga anticipazione della visita di un amico, un ricordo, un desiderio, una bramosia sessuale transitano come pulviscolo sull’umor vitreo di cui parla Updike; il rapido richiamo all’insonnia della notte precedente, la lingua che scandaglia con cautela il contorno di un dente mentre già si sta pensando al dentista. Disseminate dentro tutto questo, nell’ineffabile fattualità tenuta appena sotto la soglia del pensiero, stanno le intenzioni immediate: arrivare in tempo al lavoro, fare quel che dobbiamo una volta arrivati. Una voce ribelle, un altro io, ci dice, non per la prima volta, che è ora di mollare tutto. Lasciati andare, finché sei giovane! Impossibile, ribatte l’io che ci sta portando a lavorare. Hai degli obblighi.
Magari incontri una vecchia amica e ti fermi a chiacchierare. Automaticamente cerchi di leggerle nel pensiero interpretando le sue espressioni, i gesti, la postura, il contenuto di quel che va dicendo e il tono in cui lo dice. Ma soprattutto, mentre conversi con lei, vedi il riflesso di te tornare indietro. Lei a sua volta fa la stessa cosa. Quell’io che tu credi tanto personale a sua volta prende forma e consapevolezza di sfumature diverse del proprio valore anche da altri.
Il cervell...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Invito alla meraviglia
  4. Letteratura, scienza e natura umana
  5. L’originalità delle specie
  6. Una tradizione parallela
  7. Blues della fine del mondo
  8. L’io
  9. Riferimenti bibliografici per l’edizione italiana
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Dello stesso autore
  13. Copyright