Tornare cittadini
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Tornare cittadini

  1. 160 pagine
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Tornare cittadini

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La grande ondata populista che ha portato al successo di Donald Trump, alla Brexit e al governo Cinque Stelle-Lega si è esaurita: la pandemia ha confermato in modo drammatico i limiti dei populisti al potere e la loro incapacità di mantenere le promesse. Nel pieno di una crisi ancora piú grave di quella che ha originato il voto di protesta degli anni scorsi, le nostre democrazie sono di fronte a una alternativa: fare scelte radicali per ricostrui-re una società piú giusta e dinamica, oppure consegnarsi alla nuova destra che avanza sulle macerie dell'illusione populista. È ora di smettere di essere popolo, è ora di tornare cittadini.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858435793
Capitolo primo

L’enigma populista

Sono pochi i leader che hanno ammesso o addirittura rivendicato di essere populisti. Tra questi c’è Giuseppe Conte che, nel suo primo discorso da presidente del Consiglio incaricato, a giugno 2018, dice:
Se populismo è l’attitudine della classe dirigente ad ascoltare i bisogni della gente – prendo spunto da riflessioni di Dostoevskij tratte dalle pagine di Puškin –, se “antisistema” significa mirare a introdurre un nuovo sistema, che rimuova vecchi privilegi e incrostazioni di potere, ebbene queste forze politiche meritano entrambe queste qualificazioni.
Conte, un professore universitario privo di precedenti esperienze politiche e allora sconosciuto agli elettori, si attribuisce l’etichetta di «avvocato del popolo».
Appena un anno dopo, Conte resta al potere ma sostenuto da una maggioranza diversa, Pd - Cinque Stelle al posto di Lega - Cinque Stelle, e nel suo discorso al Parlamento chiede la fiducia su basi molto diverse. Spiega di essere il garante di «un progetto di governo del Paese fortemente connotato sul piano politico, che annuncia risposte alle attese e bisogni dei cittadini che ci impegniamo a realizzare con lavoro e impegno». Promette di voler lasciare alle spalle «il frastuono di programmi inutili e dichiarazioni bellicose», quelle di cui rivendicava la legittimità nel discorso precedente.
In questa evoluzione, da avvocato del popolo contro la vecchia politica a campione del buon governo moderato contro gli estremismi, si può già misurare quanto effimera sia stata l’illusione populista in Occidente. E come una stagione all’apparenza eccezionale si sia presto evoluta in una nuova normalità, fatta di partiti di protesta che accettano i compromessi necessari per governare e partiti tradizionalmente di governo che adottano il linguaggio e gli strumenti della politica di protesta per non essere esclusi dalla competizione.
Mentre gli elettori iniziavano a metabolizzare l’impatto dell’ondata populista che ha travolto le democrazie occidentali, è arrivata la pandemia da Coronavirus: uno shock esogeno – cioè indipendente dai rapporti di forza all’interno dei sistemi politici dei vari Paesi – che ha cambiato le priorità della domanda politica e ha creato le condizioni per una nuova offerta, chiudendo la fase della stagione populista che si era aperta per l’Italia nel 2013, con il primo successo del Movimento Cinque Stelle, e nel resto del mondo nel 2016, con il referendum su Brexit e la vittoria di Donald Trump. La risposta populista è stata all’inizio di proporre politiche semplici per gestire problemi complessi, negare i problemi, contestare gli esperti, attaccare i media responsabili di creare un clima di allarme. Ma poi la realtà ha prevalso e ha costretto anche i governi piú populisti a seguire, nelle direttrici di fondo, le stesse modalità di reazione degli altri. Il populismo arrivato al potere con i grandi traumi del 2016 si è progressivamente normalizzato, ha perso gran parte delle caratteristiche di novità e attrattiva che lo hanno reso un’opzione interessante per milioni di elettori, e tutto questo è successo a prescindere dalla pandemia, che è stata al massimo un catalizzatore di cambiamenti già in atto.
Il rapido declino del potenziale populista solleva domande urgenti quanto e forse piú di quelle prodotte, ormai da qualche anno, dalla sua rapida ascesa. Domande che si riassumono in un interrogativo semplice: che cosa c’è dopo il populismo?

Anticorpi e impotenza.

Prima di procedere, però, è consigliabile tentare di stabilire cosa si intenda con populismo. Non esiste una definizione condivisa, sia perché il fenomeno è sfuggente e con inevitabili specificità locali, sia perché per anni è stato accompagnato da una connotazione negativa, che ha reso arduo utilizzare il concetto come strumento di analisi invece che di lotta politica.
Molti autori hanno addirittura negato che esista qualcosa di definibile come «populismo», e hanno sostenuto questa tesi con due argomenti principali. Il primo argomento è che a essere definite «populiste» sono essenzialmente le politiche sgradite a chi non è al potere, perché rimettono in discussione lo status quo proponendo di ribaltare rapporti di forza consolidati.
Il secondo argomento a sostegno della tesi per cui il populismo non esiste è che in realtà, sotto l’ombrello concettuale del «populismo», ricadano una serie di manifestazioni di disagio che non sono una forma di ideologia né di azione politica specifica, ma semplicemente espressioni di un malessere che appare quando la democrazia non riesce a rispettare le proprie promesse, implicite nella sua richiesta fondamentale: che le minoranze accettino le decisioni di una maggioranza.
Il «voto di protesta» non sarebbe altro che, appunto, protesta. Non la richiesta di politiche specifiche, ma la manifestazione di un disagio per l’offerta politica disponibile e la domanda di qualcosa di diverso e di rottura con la tradizione.
In questa seconda accezione, i movimenti populisti possono essere considerati anticorpi salutari della democrazia, qualcosa di simile a una febbre che rappresenta non la malattia ma il segnale che il sistema immunitario è all’opera e sta combattendo per tornare alla sana normalità.
Il celebre filosofo sloveno Slavoj Žižek, per esempio, considera il populismo «non uno specifico movimento, ma la politica alla sua massima purezza», che si manifesta quando una serie di richieste da parte di alcune parti della società – piú welfare, meno tasse, niente guerre – finiscono per far emergere come soggetto politico un «popolo» che si contrappone a un nemico. Non necessariamente l’establishment, ma anche minoranze non omogenee con quel «popolo» che invece si considera uniforme e «puro».
L’approccio di Žižek ha un suo fascino, perché risparmia la fatica di cercare una definizione precisa di cosa sia il populismo, ma non ha una grande utilità analitica, visto che finisce per comprendere fenomeni molto diversi fra loro, dai movimenti del Sessantotto europeo all’antisemitismo, alle rivolte anti-fisco negli Stati Uniti.
Tuttavia, Žižek coglie un punto: le forme di populismo – nell’accezione piú estesa del termine – che si sviluppano all’interno delle democrazie occidentali all’inizio degli anni Duemila sono accomunate da una dimensione «negativa», dal rifiuto di qualcosa. Žižek si riferisce in particolare ai referendum in Francia e Olanda che, nel 2005, bocciarono il progetto di Costituzione europea, e li interpreta come le prime manifestazioni di quel crollo di fiducia nel progetto europeo e nelle utopie cosmopolite che, nel giro di pochi anni, avrebbe contagiato la politica mondiale.
Il populismo, dice Žižek con una notevole intuizione, è sempre una manifestazione di «impotenza», uno sfogo per la rabbia di non riuscire a cambiare le cose con gli strumenti che, almeno sulla carta, la società mette a disposizione delle proprie minoranze insoddisfatte.
Vale la pena ricordare che Beppe Grillo ha trasformato il Movimento Cinque Stelle in un progetto politico nel 2009, soltanto dopo che il vertice del Partito democratico gli impedí di partecipare alle primarie per la leadership e perfino di iscriversi al partito: «Grillo non è iscritto al Pd e lo ha attaccato di continuo. La sua candidatura è un boutade un po’ provocatoria e non c’è alcuna ragione per considerarla una cosa seria. Bisogna vedere se noi accettiamo la sua iscrizione al partito e non penso che si possa accettare», disse all’epoca Piero Fassino. L’impotenza ha generato la protesta, non viceversa.
Quello che Žižek non immaginava a inizio anni Duemila – come forse non lo immaginava Grillo nel 2009 – è che la rabbia, a volte, può conquistare la maggioranza e gli arrabbiati possono quindi ottenere il diritto di andare al governo. Chi urlava la propria impotenza può trovarsi ad avere l’occasione di intervenire. Di cambiare ciò che dalla piazza sembrava immutabile.

L’ideologia sottile.

Cas Mudde, un politologo olandese specializzato nello studio di movimenti populisti e di estrema destra, è arrivato a una definizione di populismo un po’ piú stringente di quella di Žižek e quindi piú utile a interpretare le evoluzioni degli ultimi anni. Secondo Mudde, il populismo è una «ideologia del centro sottile» che considera la società divisa in due parti, da un lato «il popolo puro» e dall’altro «l’élite corrotta».
Con «sottile», Mudde intende che si tratta di un’ideologia priva dell’elaborazione teorica tipica di altre grandi costruzioni concettuali del Novecento. Ma è comunque un’ideologia, non una semplice manifestazione di scontento, che considera la politica espressione di una monolitica volontà generale del popolo e non il prodotto di una contrapposizione tra interessi tutti ugualmente legittimi, tra i quali il principio del voto a maggioranza, le elezioni e le garanzie costituzionali permettono una sintesi. In quanto ideologia sottile, non arriva mai a elaborare una teoria verificabile di cosa sia la «volontà generale» né di come si esprima, visto che un simile dibattito porterebbe inevitabilmente ad affrontare i temi della delega e della rappresentanza, per non parlare di quelli della legittimità. Soltanto lasciando indefinito cosa sia il popolo e come la sua volontà si debba manifestare in politica è possibile ergersi a suoi campioni.
Nello schema populista, le élite perseguono soltanto interessi particolari, di arricchimento privato e spartizioni di risorse pubbliche ai danni del popolo. Al contrario dei movimenti populisti, che invece difendono le ragioni, appunto, di un popolo, rappresentandolo come un soggetto compatto, pre-politico, una massa di individui con esigenze simili, a prescindere da età, genere, appartenenza razziale o geografica. Per questo, scrive Mudde, al centro del pensiero populista c’è una contrapposizione «tra due gruppi omogenei e antagonisti, il popolo puro contro le élite corrotte» e la politica, nell’approccio populista, non dovrebbe essere altro che l’espressione della «volontà generale», mentre troppo spesso è semplicemente l’attuazione dell’agenda dell’élite.
È importante sottolineare che i populisti non contestano soltanto una versione tecnocratica della politica – quella nella quale gli esperti e l’establishment pretendono essere coloro che sanno cosa sia meglio per il popolo – ma contestano anche il pluralismo, che tuttavia è alla base della democrazia liberale. L’idea, cioè, che la politica sia il processo necessario a far prevalere le opinioni della maggioranza senza schiacciare le minoranze, a perseguire un benessere generale che però non dimentica che per ogni scelta ci sono vincitori e vinti e anche questi ultimi sono parte legittima della cittadinanza. Il rifiuto del pluralismo è un corollario inevitabile dell’approccio binario alla politica: se ogni decisione può essere soltanto favorevole al popolo oppure dannosa, allora nessun compromesso è possibile.
Il populismo è quindi un’ideologia schematica e in un certo senso grezza, ma con un respiro globale, perché propone uno schema di contrapposizione, tra popolo ed élite, che può essere applicato a contesti molto diversi, a prescindere dalle specificità locali: dal Sud America all’Olanda, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna.
L’ideologia populista ha però quel particolare «centro sottile» in quanto non ha rivendicazioni precise: non esiste un sistema di governo migliore di un altro per i populisti, che possono essere a favore o contro i diritti civili, per un governo forte o per un governo debole, volere piú o meno tasse, auspicare un potere accentrato o, al contrario, devoluto alle amministrazioni locali.
Poiché la proposta populista nasce dalla contrapposizione rispetto alle politiche di chi è al governo, i contenuti sono fluidi e imprevedibili. Basta seguire le evoluzioni del Movimento Cinque Stelle per capire che non esiste una lista di politiche populiste predefinite da applicare una volta conquistato il potere.

La mutazione populista.

La comunicazione diretta tra il leader e gli elettori non è un contenuto del populismo, bensí una tecnica di gestione del consenso che i leader populisti padroneggiano meglio di altri. Come tutte le tecniche è facilmente imitabile e oggi è difficile immaginare un politico che non cerchi una connessione diretta con i suoi potenziali elettori, grazie anche alle tecnologie che permettono una comunicazione non piú mediata dai partiti, dai giornalisti, dai mezzi di comunicazione.
Col senno di poi è facile osservare quanto fossero sbagliate quelle analisi che vedevano nello stile di comunicazione di personaggi come Silvio Berlusconi un contenuto ideologico: i videomessaggi, l’attenzione ai dettagli dello sfondo o alle luci, gli eventi istituzionali trasformati in set di propaganda indicavano semplicemente una superiore padronanza di linguaggi in evoluzione. Tutti i leader di successo degli ultimi vent’anni hanno trovato modi sempre nuovi per ridurre la distanza dai propri elettori e per stabilire un rapporto quasi personale, pur avendo programmi e valori completamente diversi da veicolare attraverso la propria comunicazione. Le dirette Facebook e le storie su Instagram hanno preso il posto dei messaggi preregistrati sulle videocassette che tanto scandalo suscitavano ai tempi dell’ingresso in politica di Berlusconi. Donald Trump è stato il primo presidente ad annunciare la sua politica estera direttamente su Twitter, ma Elizabeth Warren – candidata alla nomination per i Democratici nel 2020 – è andata oltre: ha trasmesso in diretta Instagram le sue telefonate ai sostenitori per offrire ascolto e chiedere supporto (oltre che donazioni). La principale attrazione dei suoi comizi era la fase finale nella quale i sostenitori aspettavano in fila per ore di poter avere un selfie con la settantenne senatrice del Massachusetts. Da professoressa di Harvard e membro di un’élite progressista non certo popolare, la Warren aveva cercato di presentarsi come un’alternativa a Trump accettando alcune forme di una ormai inevitabile comunicazione diretta, non mediata, dunque populista.
Non si tratta di un caso specifico, ma di uno schema ormai consolidato che vede il leader populista cercare forme dirette e non convenzionali di comunicazione per ridurre il vantaggio dell’avversario al potere. Chi è al governo, infatti, di solito ha grandi vantaggi nella competizione giocata secondo le regole tradizionali: influenza i media, ha la maggioranza in Parlamento, può usare le risorse dell’amministrazione per finanziare la propria campagna elettorale permanente (il classico esempio è il presidente americano in carica che moltiplica i viaggi domestici con l’Air Force One nell’anno elettorale).
Chi è fuori dal sistema dei media e dei partiti tradizionali deve fare ricorso alla creatività e usare strumenti che chi governa ancora non padroneggia. Una volta capito come usare Instagram o la pubblicità mirata su Facebook, anche i leader piú conservatori e refrattari alla comunicazione diretta con gli elettori si adeguano in fretta.
Questa rincorsa continua ha senza dubbio contribuito a ridurre la distanza tra le forze anti-sistema e quelle a difesa dello status quo, tanto da rendere i loro stili di comunicazione indistinguibili.
Nel 2004, quindi nella prima (e poco percepita) ondata populista, Cas Mudde parlò di «Zeitgeist populista», uno «spirito del tempo» che riassume una percezione condivisa di come si debba fare politica per rispondere alle domande degli elettori.
In quei primi anni Duemila si intravedevano partiti di protesta, allora soprattutto a destra, che combinavano in modo innovativo paure per l’immigrazione e ostilità per l’élite al potere, con l’Unione europea come bersaglio inevitabile. Erano gli anni dell’FPO di Jörg Haider in Austria, di Pym Fortuyn in Olanda, e di due interpreti di un vecchio tipo di populismo che ancora replicava certi tratti carismatici della sua incarnazione sudamericana: Jean-Marie Le Pen in Francia con il Front National e Silvio Berlusconi in Italia. Perfino Tony Blair, all’epoca, veniva classificato come un interprete del «populismo mainstream», quello dei partiti al potere che – senza mai rivendicarlo e neppure ammetterlo – avevano applicato le stesse semplificazioni dei movimenti di protesta, anche se su basi ideologiche diverse: ci sono politiche magari spiacevoli, ma da approvare nell’interesse di tutti, non esistono interessi contrapposti nella società, la lotta di classe è un’illusione perché le classi non esistono, c’è il popolo e ci sono politiche win-win, che portano benessere a tutti. Magari con profonde disuguaglianze, ma alla fine tutti saranno piú felici. Quelle ricette, presentate come inevitabili perché prive di alternative, hanno alimentato una profonda frustrazione in chi non ne traeva alcun beneficio.

Il decennio populista.

Nel decennio successivo, tuttavia, lo scenario diventò un altro: la scelta dei partiti tradizionali di utilizzare gli strumenti della politica populista (incluso il frequente ricorso al referendum) non ottenne l’effetto di arginare l’ascesa dei movimenti di protesta. Al contrario, li legittimò al punto da farli apparire agli elettori come alternative di governo rispetto alle forze tradizionali, invece che come temporanei serbatoi di voti in uscita dalle tradizionali contrapposizioni destra-sinistra. E questo creò un cortocircuito nell’approccio populista alla politica.
Mentre i cambiamenti della globalizzazione spinsero le destre a reinventare un nazionalism...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. Tornare cittadini
  5. I. L’enigma populista
  6. II. Populisti al potere
  7. III. Quel che resta della democrazia
  8. IV. Tornare cittadini
  9. Ringraziamenti.
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Dello stesso autore
  13. Copyright