Essere singolare plurale
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Essere singolare plurale

  1. 224 pagine
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In questo libro Jean-Luc Nancy rivolge il proprio sguardo alla costituzione stessa della realtà - nella sua configurazione insieme singolare e plurale. Quello che la tradizione filosofica ha chiamato «essere» non è che la relazione originaria in cui le singole esistenze s'incrociano in un nodo comune. A partire da questo semplice presupposto, il testo si presenta, piú che come un trattato sistematico di ontologia, nella forma di un'interrogazione profonda e originale della nostra contemporaneità: dei suoi bagliori e delle sue rovine, dei suoi idoli e delle sue vibrazioni. Dal dispiegamento della tecnica alla società dello spettacolo, dalle antinomie della mondializzazione alla metamorfosi dei corpi, Nancy riconduce la riflessione filosofica al confronto diretto con il nostro tempo. In un mondo da cui il senso sembra essersi definitivamente ritirato, Nancy individua lo spazio aperto per una nuova modalità di pensiero, di cui il dialogo filosofico con Roberto Esposito, che apre il volume, tenta di definire le condizioni e i contorni.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858435212
Le righe che seguono rispondono alla richiesta proveniente dagli Stati Uniti di riflettere su «la guerra e la tecnica»1. Nel bel mezzo della guerra (è meglio annotarlo: comincio a scrivere il 26 febbraio 1991, il giorno in cui ha inizio l’attacco terrestre e il suo avvenire resta ancora incerto), intraprendere questo genere di riflessione potrebbe essere inadeguato, perfino indecente. Ciò che conta oggi, sono le poste in gioco immediate, i morti, le sofferenze d’ogni sorta, la grande pietà che accompagna tutte le guerre (mi auguro che qualcosa ne resti aggrappato, incollato a queste righe). Ciò che conta, d’altro canto, sono le determinazioni politiche, i consensi o le critiche, le cause e le ragioni che possono ancora coinvolgere, se è possibile, la responsabilità di ciascuno. Tuttavia, la nostra responsabilità è già molto coinvolta in un’altra maniera ancora: come responsabilità del pensiero. Accanto alle considerazioni morali, politiche e affettive, «la guerra», cosí come ritorna oggi, in fondo, nel suo stesso arcaismo, è una realtà nuova. Se si preferisce, il ritorno della «guerra», non come realtà di operazioni militari, ma come figura (la Guerra) nel nostro spazio simbolico, è un fenomeno di innegabile e singolare novità: infatti si produce in un mondo dove questo simbolico appariva quasi cancellato. Certamente ciò merita di essere pensato. E questo pensiero potrebbe essere urgente: forse non si tratta piú, ormai, di sapere in che misura la guerra è un male piú o meno necessario o un bene piú o meno avventuroso. Si tratta – per il mondo intero – di sapere in quale spazio simbolico possiamo confinare ciò che si chiama libertà, umanità.

1. La guerra, malgrado tutto.

L’apparente cancellazione della Guerra simbolica riguardava, beninteso, solo la configurazione dell’insieme delle nazioni che compongono il polo di «ordine», di «diritto» e di «sviluppo» del pianeta. Il «terzo» mondo ha sempre continuato a essere devastato da conflitti armati: ma tutto accadeva o come se questi non riguardassero la categoria della guerra strettamente intesa, oppure come se il loro carattere locale ne impedisse l’accesso alla sua piena dignità simbolica. In effetti, dal 1914 sembra che «la Guerra», in una maniera o in un’altra, pretenda di accedere a una dimensione «mondiale». Ritornerò in seguito sulle implicazioni di questo aggettivo. Notiamo innanzitutto che questa «mondialità» si determina piú per il ruolo mondiale – economico, tecnico e simbolico – di taluni Stati la cui sovranità è coinvolta nella guerra, che per l’estensione delle aree di conflitto (ancora una volta, ce ne sono un po’ dappertutto nel mondo). Infatti, la guerra è necessariamente la guerra dei Sovrani, o meglio, non c’è guerra senza Signori della Guerra, ed è di questo che voglio parlare qui.
Si potrebbe pensare che non è altro che lo sviluppo di un’interrogazione sulla «guerra e la tecnica». Vedremo subito che invece di occuparsi delle tecniche militari (delle quali non c’è nulla di speciale da pensare) spostare l’attenzione sul sovrano della e nella guerra, ci consente di disvelarla come techné, come arte, esecuzione o messa in opera della Sovranità stessa. Questa è una puntualizzazione decisiva, imperiosa, esemplare dell’intera simbolica del nostro Occidente.
La guerra degli Stati e delle coalizioni di Stati, la «grande guerra» – la guerra che, di diritto, fa parte – e parte eccellente, esemplare – dell’esercizio di sovranità statali/nazionali che essa presuppone, la guerra propriamente detta, cosí come è definita fin dall’inizio della nostra storia (ritornerò su questo punto) – sebbene sia semplice distinguerla dalle altre, abbiamo creduto di circoscriverla, se non di sospenderla, nella sua figura di guerra «fredda» e nella dissuasione nucleare.
È esattamente questa guerra che fa ritorno, o per lo meno tutti i suoi segni. O meglio ancora, è stato necessario che ciò che accadeva, qualsiasi nome dovesse esattamente portare, fosse accompagnato dai segni, i significati e le insegne della guerra. Si è trattato di un processo irresistibile e non certo attribuibile a una semplice negligenza nell’uso delle parole.
Da quarantacinque anni, per limitarsi alle figure meglio identificabili da un punto di vista strettamente formale, le guerre delle Malvine e di Grenada avevano prefigurato un tale ritorno. (Devo a Robert Fraisse l’indicazione decisiva di questo «ritorno» e, come scriveva, della «soddisfazione selvaggia» che ha accompagnato la guerra delle Malvine). Le altre operazioni armate non riguardavano ufficialmente il nostro «mondo» se non come interventi di gendarmeria in conflitti ascrivibili all’ordine della rivolta, della sovversione o della «guerra civile» (il cui nome indica, come la statis greca o la seditio romana, che non si tratta della guerra tra sovrani, della «guerra guerriera»), o anche come conflitti di sovranità per noi lontane e, spesso, piú o meno incerte. (Occorrerebbe esporre minuziosamente gli usi, le rivendicazioni, le manipolazioni, le aporie della sovranità nel mondo post-coloniale come pure, al giorno d’oggi, nel mondo post-sovietico. E includervi anche i nostri rapporti con tutta questa sovranità, il cui concetto è nostro).
Ma ora c’è la guerra, e la «guerra mondiale», in questo nuovo senso in cui vi sono implicati molti di quei Sovrani la cui sovranità decifriamo in modi complessi e contraddittori. Anche se le poste in gioco del conflitto non si collocano interamente tra Nord e Sud, la loro presenza mondializza ancora, se cosí si può dire, la guerra mondiale. C’è, quindi, la guerra – per tre mesi il mondo non ha avuto altro che questa parola sulla bocca. Ma con essa, «la guerra», che cosa c’è esattamente e che cosa c’è oggi? È ciò che vale la pena chiedersi.
La cosa piú sorprendente non è tanto che ci sia (se c’è) questa guerra. In ogni caso, non sorprende che ci sia questo combattimento o quella battaglia, qualunque ne siano la genesi e le modalità. Ciò che davvero sorprende è che l’idea stessa di guerra abbia ritrovato un diritto di cittadinanza tra di noi (non saprei dirlo meglio di cosí). In altri termini, è molto significativo che l’idea della violenza statale/nazionale legittima, cosí a lungo tempo sospettata e anche colpita da una delegittimazione per lo meno tendenziale, abbia potuto riconquistare, o quasi, la sua piena legittimità. Questo significa: la legittimità della Sovranità, in assoluto.
Si è detto e si è scritto che nel caso attuale non era né esatto, né legittimo, secondo la buona semantica politico-giuridica, servirsi della parola «guerra». Ritornerò su questo punto. Tuttavia, questa osservazione è rimasta isolata, confinata nel purismo giuridico e nel moralismo delle anime belle mentre il discorso generale si è invece felicemente scagliato contro la semantica, la logica o la simbolica della guerra.
Di certo queste non erano mai state annullate. Ma ancora una volta, sembrava che la guerra restasse nell’ombra nella quale l’avevano sospinta le due guerre «mondiali» prima di questa. A differenza dei secoli precedenti, lo spirito del tempo non metteva il diritto di guerra al primo posto tra le prerogative dello Stato – come accadeva, per esempio, fino alla Prima guerra mondiale, quando si era soliti dire «le Potenze» per designare gli Stati.
Di contro, il favore accordato all’idea dello «Stato di diritto» attirava l’attenzione verso ciò che, nella sovranità, è considerato privo della violenza e del suo splendore. Meglio ancora: verso là dove deve essere cancellata, sublimata o imbrigliata la violenza che avrebbe retto l’istituzione del potere. La guerra sembrava riposare sulla pace del feudalesimo e dei nazionalismi, entrambi reputati morti o obsoleti. Anche lo splendore della sovranità vi si offuscava. Del resto, la si era fatta finita con le «ideologie» dell’«estinzione dello Stato»: questo sembrava entrato nell’età del self-control, che declinava dinanzi ai complessi mondiali della tecno-economia e si offriva come controparte in un ruolo – molto poco sovrano – di gestione regolatrice, giuridica e sociale.
Si dà il caso che il nazionalismo riemerga da ogni parte (e talvolta anche il feudalesimo). Le sue figure sono eroiche o risibili, patetiche o arroganti, dignitose o discutibili, ma sono sempre inquietanti, per vocazione o per destinazione. Certo, un riconoscimento mondializzato del «valore» o della norma democratica tende a regolare queste affermazioni di identità (e) di sovranità. Le figure statali/nazionali non sarebbero tratteggiate da un gesto violento, sinistro e glorioso, ma spontaneamente modellate all’interno di una legittimità generale completamente disponibile.
Tuttavia, si sa – e questa guerra rianima precisamente il dibattito sul tema – che non c’è (ancora?) diritto sovranazionale o pre-nazionale. Non c’è «democrazia» (vale a dire, in questo caso, fondamento del diritto) già pronta al di sopra delle nazioni o dei popoli. Recentemente c’è un diritto incaricato di delimitare gli Stati-nazione, che ha ben poca certezza di esser universalmente fondato ma è molto certo di essere privo di sovranità. Un diritto detto «internazionale», di cui questo «inter», questo tra costituisce tutto il problema, dal momento che può essere compreso solo come spazio vuoto di diritto, vuoto di tutte le forme di «messa in comune» (senza la quale non c’è diritto), ma nel concreto strutturato sia dalle reti tecno-economiche che dalla sorveglianza dei Sovrani.
In questo contesto, la guerra esibisce la sua grande figura. Che sia «guerra» o «polizia», che «abbia luogo» o meno in quanto «guerra», in un certo senso importa poco. È stato accettato e anche «richiesto» (lo abbiamo detto) che ci fosse la guerra. Per un po’ di tempo avremo avuto diritto alle allegorie di Marte o di Bellone, all’occorrenza temperate da una bella, cioè da un’arrogante esigenza di «giustizia» e di «moralità».
Almeno (aggiungo questa osservazione ritornando su queste righe dopo il cessate-il-fuoco) ci vengono annunciate parate di vittoria, dopo che il mondo intero ha adottato estasiato la formula fiera de «la Madre di tutte le battaglie», che è stata la parola sovrana del vinto. Affinché si manifestasse quello che un’altra parola sovrana aveva chiamato «la logica della guerra», occorreva che fosse percepibile, anche in maniera furtiva (cioè sfuggente), il possibile ritorno di questa figura. Gli Stati incaricati hanno saputo captare virtualità che affioravano all’interno delle «opinioni pubbliche»: la guerra ritornava ad essere esigibile o desiderabile. I pacifismi non erano altro che di routine o d’occasione, screditati, del resto, per aver da poco misconosciuto il pericolo fascista e per aver rappresentato, fin dall’inizio del secolo, l’esatto, impotente rovescio della «mondializzazione» anche della guerra.
Ma cosí, nonostante oggi il pacifismo si limiti a essere un habitus privo di sostanza, la cui morale non si articola né su un diritto né soprattutto su una politica (la sua unica dimensione rispettabile è la pietà: ma la tragedia della guerra non è la sola in questo mondo – sebbene sembri l’unica ad avere celebrità…) – in fin dei conti, su un piano diverso, la riaffermazione della guerra deriva da un habitus ritrovato, rigiocato in un nuovo contesto. Un habitus: un modo di essere, una disposizione dei costumi, un ethos.
Qual è questo ethos? Di cosa è fatto? In prima battuta, la mia risposta sarà semplice: è l’ethos stesso della guerra, è questa disposizione dei costumi, della civiltà, del pensiero che afferma la guerra, non solo come strumento di una politica, ma in quanto fine consustanziale all’esercizio della sovranità, che sola ne detiene il diritto eccezionale.
Questa risposta presuppone che si convenga sul chiamare «polizia» l’impiego di una forza dello Stato secondo il suo proprio diritto e «guerra» l’esercizio di un diritto sovrano di decidere di attaccare un altro Stato sovrano. Questa convenzione è precisamente ciò che è stato riattivato, che lo si sia voluto riconoscere o meno (nei termini della sua Costituzione, per esempio, la Francia non è in guerra – e del resto, chi lo è e nel senso di quale Costituzione?)
Un diritto sovrano non ha niente che gli sia superiore (superaneus: che non ha niente al di sopra di sé). Il diritto della guerra è il piú sovrano di tutti i diritti, poiché consente a un sovrano di decidere che un altro sovrano è suo nemico e di darsi da fare per sottometterlo, per distruggerlo, vale a dire per sottrargli la sua sovranità (la vita viene prima del mercato). Affrontare ad mortem il suo alter ego è il diritto del sovrano: in questa prerogativa risiede non solo un effetto della sovranità, ma la sua manifestazione suprema e qualcosa della sua stessa essenza – come vuole la nostra tradizione.
Non c’è niente di valido nel contesto sovrano della guerra, salvo alcune convenzioni che dovrebbero mantenerla entro un certo ordine morale (un tempo, sacro). Ma questo ordine non è esattamente superiore alla guerra: è l’ordine stesso di cui la guerra è un’estremità sovrana, il ferro di lancia e il punto di eccezione. (È esattamente il motivo per cui Rousseau, contrariamente a quasi tutta la tradizione, non voleva vedervi un atto speciale di sovranità, ma solamente «un’applicazione della legge»; la sovranità di Rousseau è un conflitto intimo con l’eccezione e con lo splendore che non potevano non ossessionarla…)
Cosí, è la guerra stessa a poter creare un nuovo diritto, una nuova distribuzione delle sovranità. E tale è l’origine della maggior parte delle nostre sovranità – o legittimità – statali e nazionali. Ed è anche il punto da dove la guerra rivoluzionaria aveva potuto ereditare, mediante alcuni spostamenti, il nucleo essenziale del concetto della guerra di Stato. (A partire dalle guerre della Rivoluzione francese che sono una combinazione di guerre di Stato e di guerre condotte in nome di un principio universale contro i nemici del genere umano. Da quel momento, fu posta la questione di sapere se si potesse dare una sovranità universale…)
Il diritto della guerra fa eccezione dal diritto proprio nel punto in cui gli appartiene, come origine e come fine: in un punto di fondamento, sebbene non possiamo pensare fondamento senza sovranità, né pensare la stessa sovranità senza pensarla come eccezione ed eccesso. Il diritto di guerra fa eccezione dal diritto in un punto dove balena uno splendore sovrano. Il diritto non possiede questo splendore ma ha bisogno della sua luce e del suo evento fondatore. (È per questo che la Guerra è anche l’Evento per eccellenza: non quello di una «storia evenemenziale» che scandisce le date delle guerre, delle vittorie e dei trattati [anche questo, però, la dice lunga], ma l’Evento che sospende e riapre il corso della storia, l’evento-sovrano. I nostri re, i nostri marescialli e filosofi non hanno pensato altrimenti).
Tuttavia, questo modo di istaurazione del diritto diventa inammissibile in un mondo che rappresenta il diritto stesso come la sua propria «origine» o il suo proprio «fondamento», che accada a titolo di un «diritto naturale» dell’umanità o di una sedimentazione irreversibile delle conquiste di un diritto positivo divenuto poco a poco quello di tutti (mentre i soldati dell’Anno II potevano ancora rappresentare questo fondamento come una conquista ancora da compiere o da rifare). Da qui il turbamento che ci coglie dinanzi all’idea della guerra, e piú precisamente della «guerra giusta», espressione che potrebbe tranquillamente sottomettere allo stesso tempo la guerra al diritto e il diritto alla guerra. (Dopo tutto, e per l’intera tradizione [ci ritornerò] questa espressione è ridondante in diritto, come lo è in effetti quella di «guerra sporca»…)
Il nostro turbamento testimonia il fatto che questo mondo – il mondo della «mondializzazione» – sposta il concetto della guerra insieme a tutti i concetti politico-giuridici della sovranità. Il «ritorno» della guerra si produce proprio all’interno di questi spostamenti – ed è per questo motivo che alcuni sono stati tentati di dire che non si produceva affatto. Ma testimonia anche (e talvolta per le medesime persone), non direi un rimpianto, né una nostalgia (anche se…), ma una difficoltà a fare a meno dell’istanza sovrana, fin nel suo splendore piú terribile (perché è anche il piú eclatante). È questa persistenza, in noi, della sovranità che voglio esaminare – prima di comprendere verso dove, verso quale «altro» della sovranità potremmo andare. Vedremo come essa passi per la «tecnica».
Non ignoro certo quali precauzione sia necessario prendere affinché questo semplice programma non cada nel semplicismo, vale a dire nella rozzezza di pensiero. Quindi, le prendo:
1) Non è mia intenzione ridurre la storia della guerra del Golfo a una pura e semplice decisione sovrana di guerra, che sia stata presa da uno o da piú attori. In un contesto generale connotato da un miscuglio di guerre endemiche, di proliferanti sedizioni, di sovranità contestate e di multiple e conflittuali polizie (diritti e interessi statali, minoritari, economici, religiosi, internazionali, ecc.), si è prodotto un processo misto di guerra e di polizia dove ognuna ha continuato a rinviare all’altra. Non pretendo di chiarire completamente la parte che ciascuna svolge e, senza dubbio, non è neppure possibile. Ancora una volta tutto si sposta e la coppia guerra/polizia non si lascia piú maneggiare con semplicità – se mai sia stato possibile. Ma intendo interrogare, in questa coppia, ciò che sembra mantenere ostinatamente, vale a dire accanitamente come limite del diritto stesso l’esigenza della guerra, che porta in sé e che manifesta l’eccezione sovrana.
Infatti, non si comprende che di questa logica dell’eccezione – del «sovrano» in quanto «senza diritto» – nessun pensiero disponibile sa darne conto in maniera soddisfacente. Oggi lo stile dominante di un umanesimo neo-kantiano ci rinnova solo l’infinita promessa di moralizzare la politica, offrendo al diritto le armi di una politica ancora da moralizzare. Lo stile rivoluzionario è affondato insieme alla pretesa di designare il soggetto di un altro diritto e il sorgere di un’altra storia. Quanto allo stile «decisionista», esso è relegato all’interno dello stile «totalitario». Non c’è via d’uscita, che sia per pensare hic et nunc la sovranità o per pensare al di là di essa. Una storia delle dottrine e dei problemi del diritto internazionale, della sovranità e della guerra dal primo conflitto mondiale, testimonierebbe largamente questa difficoltà generale.
Per il momento, non possiamo che tirare le piú stringenti conseguenze di questo bilancio. Quindi, non interpreto la guerra del Golfo alla luce di nessuno di questi schemi. Dico solo che tra uno schema sempre debole e confuso della «guerra (polizia) del diritto» e un ripristinato (riscaldato?) schema della «guerra sovrana» si estende uno spazio vuoto. E questo spazio non è quello di una...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Dialogo sulla filosofia a venire. di R. Esposito e J.-L. Nancy
  4. Essere singolare plurale
  5. Avvertenza
  6. I. Che noi siamo il senso
  7. II. La gente è strana
  8. III. Accedere all’origine
  9. IV. La creazione del mondo e la curiosità
  10. V. Tra di noi: filosofia prima
  11. VI. Essere singolare plurale
  12. VII. Co-esistenza
  13. VIII. Condizioni di una critica
  14. IX. Comparizione
  15. X. Spettacolo della società
  16. XI. Misura del «con»
  17. XII. Corpo, linguaggio
  18. XIII. Analitica co-esistenziale
  19. Guerra, diritto, sovranità – Techné
  20. 1. La guerra, malgrado tutto
  21. Elogio della mescolanza
  22. Sorpresa dell’evento
  23. Dismisura umana
  24. Il libro
  25. L’autore
  26. Dello stesso autore
  27. Copyright