Il venditore di rose
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Il venditore di rose

  1. 240 pagine
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Il venditore di rose

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Piersanti Spina, vicequestore a Tor Pignattara, non sente il freddo, non sente il caldo, non sente nemmeno i pugni e le ferite. La sua è una malattia, eppure ci sono colleghi che lo invidiano, altri che lo guardano con sospetto, altri ancora che trovano la cosa divertente. In ogni caso, fra i poliziotti è una leggenda. È la notte di San Valentino quando in un parco della periferia capitolina viene scoperto il cadavere martoriato di un venditore di rose bengalese. Qualcuno ha infierito su di lui con un'arma affilata. Cosa si prova a essere pugnalati? A Piersanti Spina la domanda viene in mente quasi subito. E non è strano, perché, se fosse accaduto a lui, non se ne sarebbe nemmeno accorto, a causa di un'insensibilità congenita che gli impedisce di percepire il dolore. Roba che di tanto in tanto lo fa sembrare un superuomo, e spesso lo mette nei guai. Perfino la sua squadra, gente bizzarra a essere sinceri, pare indecisa fra il timore e l'ammirazione nei suoi confronti. Ma quello che molti credono un dono per Piersanti è un incubo: è sempre «sotto anestesia» e, ironia della sorte, ha una compagna anestesista. Lui, però, ha imparato a convivere con il suo problema, e come investigatore ha talento. Non è il tipo che si spaventa per le minacce, da qualunque parte arrivino, in piú sa muoversi tra le ombre di una borgata, fra le piú romane di Roma, dove ciò che pare impossibile diventa probabile. Anche chi ha ucciso il venditore di rose avrà modo di rendersene conto.

«L'arcata dell'acquedotto dove fino al mattino prima c'era il cadavere era ancora delimitata dai nastri della Scientifica, ma tutto intorno la vita aveva ripreso a scorrere regolarmente: qua e là sbucavano i primi bambini vestiti da carnevale. Principi azzurri con gli occhi a mandorla rincorrevano piccole Biancaneve nere in una nuvola di coriandoli. Piersanti osservava la scena restando al margine della strada e pensava che qualcuno, molto verosimilmente alla guida di un pulmino, si era fermato poco piú di ventiquattr'ore prima là dove l'acquedotto si faceva prossimo all'asfalto, aveva scaricato il cadavere e si era dileguato nel nulla; coprire il corpo con il cartone di un ammorbidente era stato il suo unico gesto di pietà».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858435656

1.

Il vicequestore Piersanti Spina e l’ispettore Tonino Mio si fecero largo tra la gente dicendo «polizia», finché non arrivarono sotto una della arcate, davanti a un cartone disteso a terra con impresso in blu il logo di un famoso ammorbidente, da cui spuntava un piede del colore del cacao crudo.
A bordo della Giulietta d’ordinanza guidata da Mio, Spina e il suo sottoposto avevano costeggiato l’acquedotto romano, superando l’Osteria Bonelli e i tre palazzoni del Mille Vani. E all’altezza dell’incrocio con via Cencelli si erano imbattuti nella folla delle grandi occasioni. Il popolo del mattino, quel magma eterogeneo di pensionate con i carrelli della spesa, baristi con ancora in faccia i segni del cuscino e liceali con l’eterno permesso per la seconda ora, si mescolava alla piú acida fauna autoctona del parco Giordano Sangalli: donne disperate, uomini sempre nervosi, vecchi con le facce sfrante che elemosinavano un briciolo di attenzione a badanti distratte dal cellulare.
Spina aveva intuito subito che a fare quell’effetto sulla mandria di curiosi non poteva che essere il balsamo della morte. E ne aveva avuto conferma quando, chiuso lo sportello dell’automobile, aveva ricevuto la chiamata lapidaria della pm Pusceddu: – Si occupi lei dell’omicidio e lo faccia in fretta, – gli aveva detto secca, sbolognandogli quella grana con il tono di chi ne aveva già troppe.
E adesso Piersanti era lí, a pochi metri dal cadavere, sotto le fronde spoglie di un albero del paradiso, accanto a un’antica colonna di laterizi romani dell’acquedotto che porta il nome di Alessandro Severo.
Per l’anagrafe, ma solo per quella, il suo braccio destro Tonino era l’ispettore Antonio Paolo Mio, classe 1968, in forze alla squadra investigativa del commissariato VI di Roma dopo dieci anni di servizio nella Digos. La corporatura nervosa, il naso arricciolato a mo’ di punto interrogativo, i capelli lunghi legati in una crocchia alta che se li avesse portati cosí nei carabinieri non sarebbe durato un giorno. Il suo accento siciliano era triste come il tango. E al vicequestore Spina il tango non dispiaceva.
– Amuni’, forza. Non c’è niente da vedere!
Fu una questione di attimi prima che arrivassero quelli della Scientifica a delimitare la zona con il nastro bianco e rosso. Spina indossò una tuta candida e i guanti in lattice e prese a guardarsi intorno.
Pensò che era incredibile come la bellezza millenaria dell’architettura imperiale convivesse cosí serenamente con i preservativi usati, le cacche dei cani chiuse nelle buste esplose, le lattine accartocciate, le cannucce, i tappi, i pacchetti di sigarette vuoti. Piú che un parco vero e proprio, il Sangalli, che a Tor Pignattara chiamavano semplicemente «il Pratone», era un grande spiazzo di terra infossato tra i palazzoni da un lato e una manciata di villini e casotti dall’altro, all’interno del quale, oltre alle colonne di laterizi che sostenevano il dotto, c’erano pochi cipressi, un ulivo, un sentiero di ghiaia che correva per tutta la sua lunghezza e qualche lampione che di giorno dava l’idea di esser lí senza un criterio preciso, ma che di notte illuminava la struttura staccandola dal buio.
Al di là del sentiero, recintata, s’intravedeva un’area gioco per bambini che il comitato di quartiere si sforzava di tenere pulita. E poi, ancora piú in là, uno spazio riservato ai cani in cui giocavano a inseguirsi un bastardino e un husky, e uno slargo in cemento su cui gli skateboard scivolavano senza far rumore.
Sfruttando il suo metro e cinquanta per farsi largo agilmente tra i curiosi, un omuncolo sbucò sulla scena del crimine andando a sbattere contro le gambe di un agente, che non poté fare a meno di sorridere.
– Sbirri! – disse il nanetto guardando torvo il poliziotto. – Vi divertite a fare i duri con tutti, a volte persino con i cattivi.
– Ci mancava solo il pagliaccio... – bofonchiò Tonino, anche lui infagottato nella sua tuta bianca.
– Pagliaccio un corno! Sono uno stand-up comedian, – ci tenne a specificare quello, dando prova di un udito fino, – è una forma di cabaret anglosassone molto tagliente, ma è un’ironia troppo sottile per i vostri standard.
Se di giorno Roberto Rella lavorava come medico legale per la procura, di notte infiammava il pubblico dei club della Capitale con una comicità blasfema che gli era valsa due richiami scritti dai piani alti. Ma lungi dall’affossare quella seconda carriera, le sanzioni disciplinari avevano finito per sortire l’effetto opposto e la sua fama era cresciuta al punto che per assistere a uno dei suoi spettacoli c’era da mettersi in lista d’attesa.
Il medico legale si avvicinò con i suoi piccoli passi al cadavere scuotendo la testa in maniera affettata.
– Ancora un morto ammazzato. Ma che originalità. Sembra che la gente non faccia altro che uccidere e uccidersi.
Poi, chinandosi accanto al cadavere, si rivolse a uno di quelli in tenuta da acchiappafantasmi che scattava foto a raffica.
– Questi morti chiamano piú paparazzi delle dive. Mi dica lei quando posso.
L’uomo con la macchina fotografica fece cenno di aver terminato il suo lavoro e Rella sollevò finalmente il cartone che copriva il cadavere. Il corpo asciutto di un ventenne dalla carnagione scura giaceva supino, in mutande, con il tronco e le braccia martoriate da decine di ferite.
Sebbene il suo viso fosse contratto per lo strazio, agli occhi di Piersanti lo straniero aveva un che di familiare: gli zigomi tondi, le guance rasate, gli avambracci forti; la morte si era divertita a modificargli i tratti, spingendogli nelle orbite gli occhi antracite, ma quel cadavere era stato qualcuno che il vicequestore Spina aveva incontrato di recente. Quando in un lampo realizzò di chi si trattava, intuí anche il terribile impatto mediatico che quella grana si sarebbe trascinata dietro.
– È il tizio dei fiori, – disse all’ispettore Mio, – il bengalese che ieri vendeva le rose al ristorante!
Piersanti aveva festeggiato San Valentino, la sera precedente, con la sua fidanzata Patrizia in una trattoria poco distante dal Pratone, e non aveva dubbi. Era stato quell’uomo a vendergli i tre boccioli che aveva regalato alla sua bella.
– Un venditore di rose ucciso la notte di San Valentino? – fece Rella, insinuandosi nel discorso. – Conosco cronisti della nera a cui viene duro per molto meno... È come Babbo Natale ammazzato la notte della Vigilia, la Befana strangolata il giorno dell’Epifania, il presidente della Repubblica ucciso il 2 giugno! Ma si immagina i giornali? Ne parleranno per settimane…
– Per favore, Rella, – lo interruppe Spina, abbassando il tono della voce a un livello che per lui equivaleva a urlare. – Sa darmi un orario approssimativo del decesso?
Rella avvicinò un termometro istantaneo al corpo, pigiò il grilletto e l’apparecchio emise un beep metallico.
– Considerando che ci sono buone probabilità che sia morto dissanguato, direi sei, sette ore. Quello che le posso assicurare già adesso è che non l’hanno ucciso qui, altrimenti avremmo le scarpe zuppe come Tampax.
Il vicequestore Spina ricordò che il venditore di rose era uscito dal ristorante intorno alle ventitre. Se era stato ucciso intorno alle tre del mattino, voleva dire che avrebbe dovuto scoprire cosa gli era successo nell’arco di quelle quattro ore.
– C’è altro? – tagliò corto.
– Non ci sono macchie ipostatiche importanti sul dorso, segno che potrebbe essere stato portato qui da non piú di tre ore. Ma per questi dettagli mi sa proprio che ci rivedremo piú avanti… Sempre che non voglia venire a vedermi stasera. Faccio uno spettacolo in un localino a Colle Oppio.
– Come se avessi accettato, – rispose Spina.
Poi Rella sparí nella selva di gambe dei poliziotti da cui era comparso.
Fu allora che il vicequestore si accorse di due solchi leggeri nella terra: dai talloni della vittima conducevano alla strada ed erano la conferma che il poveretto non era stato ucciso lí. Quelli della Scientifica si sforzarono di isolare le impronte dell’assassino, ma il calpestio dei curiosi e la terra umida avevano reso il compito particolarmente difficoltoso.
– Faremo il possibile, – disse uno di loro a Spina, accompagnando quelle parole con un’alzata di spalle che era come dire: «Non crediamoci troppo».
Il vicequestore sollevò lo sguardo sulla folla di curiosi. Le sciarpe, i cappelli e i baveri alzati gli suggerirono che la temperatura dell’aria non fosse delle piú miti e gli fecero chiudere l’ultimo bottone del trench: lui da solo non poteva accorgersene. Perché Spina non sentiva nulla; niente di niente. Il mondo delle sensazioni gli era da sempre precluso, come se l’aria che respirava fosse un potente anestetico. Le mezze stagioni continuavano a esistere per lui, per lui soltanto, eterne e temperate. La sua fortuna, nella sfortuna, fu che suo padre, medico, aveva azzeccato la diagnosi giusta quando Piersanti era ancora in fasce: Insensibilità Congenita al Dolore. L’unica malattia che anziché dare pena, la toglieva.

2.

Osservando le finestre che affacciavano sul luogo del ritrovamento, il vicequestore notò che erano poche e tutte ben coperte dai voraci rami degli Ailanthus.
Qualche decina di metri piú a nord, però, c’era la facciata di un grande palazzo che aveva piú finestre di un calendario dell’Avvento. Magari qualcuno, da lí, poteva aver visto l’assassino o un suo complice.
Spina indicò il palazzo all’ispettore Mio.
– Tonino, fatti un giro in quel condominio e senti tutti quanti. Qualsiasi cosa abbiano visto va bene, – disse.
Quando Mio si allontanò, il vicequestore Spina rimase da solo a scrutare la vittima e per un attimo ebbe l’impressione che quegli occhi fissassero i suoi con severità e rancore. Per togliersi di dosso quella spiacevole sensazione, calò una mano in tasca, tirò fuori un pacchetto verde e sfilò una delle sigarette ayurvediche che aveva preso a fumare in seguito al suo ultimo compleanno, il quarantesimo. Spinto dagli sfottò di alcuni suoi amici d’infanzia che gli avevano dato del «perfettino», aveva stabilito che si sarebbe tolto l’aura da brav’uomo fumando. L’idea di darsi alle bionde, però, lo aveva fatto sentire presto in colpa e Piersanti aveva finito anche in quel caso per optare per la giudiziosa via del compromesso, instillando del buon senso persino nella scelta dissennata di abbracciare un vizio: avrebbe fumato, ma avrebbe scelto delle sigarette che non facessero troppo male, questo si era detto.
Spina non fece in tempo a godersi tre boccate che il suo cellulare intonò la solenne marcia funebre di Chopin, il che significava una cosa soltanto: a chiamarlo era il questore Aldo Barletta.
La fragranza della brioche calda che stava sbocconcellando in una pasticceria di viale Regina Margherita filtrava attraverso il cellulare e persino Spina sembrò per un secondo percepirne il profumo.
– Possibile che certe notizie debba venire a saperle dall’Ansa?
– Mi ha preceduto di due secondi. Giuro che stavo per chiamarla! – mentí.
– Che cosa sappiamo?
– Bengalese, pachistano o giú di lí. Sui venti, venticinque anni. Lo abbiamo ritrovato nudo. Due dozzine di ferite da taglio su tutto il corpo.
– Dimmi qualcosa che non sia online tra cinque minuti.
Piersanti si schiarí la voce, prevedendo a cosa andava incontro.
– Ieri notte girava per il quartiere vendendo rose.
Al questore per poco non andò la brioche di traverso.
– Un venditore di rose ucciso la notte di San Valentino! Chi lo sa oltre a me e a te?
– Tonino Mio.
– È affidabile questo Tonino tuo?
– Ci posso mettere la mano sul fuoco, signor questore. E comunque… Mio è il cognome.
– Altri?
– Rella, il medico legale.
– Oddio, quello non si sa tenere un cecio in bocca. Digli che se questa storia viene fuori gli toccherà farsi l’autopsia da solo.
– Riferirò. La tengo informato in caso di nuovi aggiornamenti.
– Linea allo studio!
– Che dice?
– Dico che dal ministero mi chiameranno tra pochi secondi e anch’io dovr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il venditore di rose
  4. 1.
  5. 2.
  6. 3.
  7. 4.
  8. 5.
  9. 6.
  10. 7.
  11. 8.
  12. 9.
  13. 10.
  14. 11.
  15. 12.
  16. 13.
  17. 14.
  18. 15.
  19. 16.
  20. 17.
  21. 18.
  22. 19.
  23. 20.
  24. 21.
  25. 22.
  26. 23.
  27. 24.
  28. 25.
  29. 26.
  30. 27.
  31. 28.
  32. 29.
  33. Il libro
  34. L’autore
  35. Copyright