Sulla viltà
eBook - ePub

Sulla viltà

Anatomia e storia di un male comune

  1. 304 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Sulla viltà

Anatomia e storia di un male comune

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

A nessuno piace essere definito vigliacco, vile o codardo, parole cariche di disprezzo e di condanna, che stigmatizzano, con un marchio difficile da sopportare, il soldato che fugge in guerra come chi in un rapporto affettivo si sottrae alle proprie responsabilità, o coloro che colpiscono persone piú fragili, non in condizione di difendersi. Eppure, ha scritto Kierkegaard, «chiunque si sforzi di conoscere davvero se stesso dovrà ammettere di essersi non di rado colto a mostrarsi codardo». La viltà, male comune che tutti possiamo riconoscere dentro di noi e che incontriamo in ogni ambito del vivere, è uno dei piú subdoli veleni della vita collettiva: inquina le relazioni, compromette irreparabilmente la fiducia reciproca. In questo libro, la riflessione etica e la ricerca storica e sociale si integrano in modo originale e spesso sorprendente, per raccontare, attingendo a esempi e figure chiave tratti dalla storia come dalle pagine di poeti e romanzieri, la viltà e il coraggio nelle loro diverse manifestazioni e nelle esperienze, anche emotive, che li muovono e accompagnano. Per mostrare che l'essere vili o non esserlo, alla fine, è sempre frutto di una scelta. E per scoprire che questo male che attraversa l'umanità, presente in tutte le epoche e in culture diversissime, ha conosciuto una trasformazione nel tempo: se la «viltà degli antichi» toccava diversamente i nobili e i plebei, le donne e gli uomini, quella «dei moderni» si è spalmata sull'intera società, dando vita a inedite dinamiche di potere.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Sulla viltà di Peppino Ortoleva in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Ciencias sociales e Sociología. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858435724
Parte seconda

La viltà degli antichi, la viltà dei moderni

Capitolo quinto

I signori e la plebe, i borghesi e i cittadini

1. È possibile una storia della viltà?

È possibile trattare la viltà come un oggetto di ricerca e ricostruzione storica alla maniera in cui si può fare la storia di uno Stato o di una tecnologia, di una dinastia o di un’ideologia? Non ci sono dubbi che questo aspetto della vita umana, sempre oggetto di biasimo e sempre parte del vissuto, sia venuto cambiando lungo il corso del tempo: nel modo in cui è stato rappresentato, nel modo in cui è stato punito, e nei soggetti a cui è stato attribuito. Il progetto di tracciare una storia della viltà pone però problemi in parte diversi rispetto al ricostruire le trasformazioni nel tempo di altre realtà piú concrete e circoscritte.
Un primo ordine di problemi è legato al fatto che le diverse epoche storiche non sono caratterizzate solamente da proprie regole etiche, da una propria definizione del bene e del male e da proprie definizioni di specifici virtú e vizi (o mali, secondo la mia definizione). Ogni età ha quello che possiamo definire un suo «paesaggio morale»: un quadro di figure e scene possibili, di esempi positivi e negativi, di ruoli da premiare e da punire. Con l’espressione «paesaggio morale» voglio sottolineare che l’etica vigente in una società in ogni periodo storico non è fatta solo, né tanto, di ideali e di regole espliciti e codificati ma anche di molte regole sottintese; che non è rappresentabile come la somma di tanti diversi valori, quanto come un insieme, nel quale diverse rappresentazioni si integrano e si contrappongono, e danno luogo a immagini e narrazioni diffuse e condivise, spesso difficili da sintetizzare. In un paesaggio morale il peso delle esperienze di vita è pari se non superiore a quello dei principî generali. È per mezzo di esempi, racconti, ricordi del vissuto, che i valori e le regole diventano parte della consapevolezza dei singoli, dei gruppi e delle istituzioni.
Come in tutti i paesaggi, inoltre, anche in questo caso ciò che piú conta non sono tanto gli aspetti piú visibili e che si fanno notare, ma il quadro d’insieme, gli elementi, a volte meno evidenti, che collegano il tutto e danno un tono omogeneo. In un paesaggio morale non ci sono virtú o vizi isolati, oggetto di giudizi a sé, separati dall’insieme. Cosí, nel paesaggio morale di un’epoca o di una cultura, i valori e i dis-valori, le figure esemplari piú note e citate e le norme dichiarate, sono connessi tra loro da assunti spesso meno evidenti e dati per ovvi, da regole implicite e informali. Ne consegue che le regole relative a uno specifico tema, nel nostro caso la viltà, acquistano parte del loro senso dalle norme e dagli assunti relativi a temi apparentemente lontani, come le regole della vita familiare e gli stereotipi relativi ai diversi ceti, e anche (soprattutto per un’epoca piú vicina alla nostra) l’opposizione pubblico/privato e l’emergere dei concetti moderni di «borghese» e «cittadino». È inoltre essenziale, per una storia della viltà cosí concepita, e per poterla leggere come parte delle trasformazioni nel tempo dei paesaggi morali, riuscire a connettere insieme le diverse «scene» in cui i comportamenti vili hanno luogo, dai combattimenti alla vita domestica. Proprio in quanto la storia della viltà è parte delle trasformazioni di un paesaggio morale fatto di norme ma anche di esempi, di principî e di esperienze, nel percorso che traccerò nelle prossime pagine darò spazio (a volte inevitabilmente piú per scorci che per quadri sistematici) a figure e racconti, come ho cominciato del resto a fare nella prima parte.
C’è poi un secondo ordine di problemi che accompagna, ancora come un’ombra, qualsiasi tentativo di tracciare una storia della viltà. Se proiettiamo il nostro vissuto su uomini e donne di altre epoche e civiltà il rischio è di cadere nell’anacronismo, come accade quando si leggono e perfino giudicano figure dell’antichità classica, o dell’età barocca, alla luce di principî e sensibilità che non potevano essere i loro. Ma se nel cercare di comprendere il passato della viltà non mettiamo in campo anche il nostro vissuto, se nel riflettere su di essa come male personale, come stigma e come veleno sociale, non ci sforziamo di dialogare a distanza con gli uomini e le donne di altri tempi, il rischio non meno grave è di ridurla a un’entità astratta e di privarla proprio di ciò che le è piú essenziale: il fatto che è cosí profondamente radicata nel vivere. Di perdere di vista il concetto-esperienza, e il fatto che la sua forza sta nel legare insieme generazioni anche molto lontane.
È quindi possibile ricostruire una storia, per quanto sintetica, dei valori relativi a codardia, coraggio, vigliaccheria e dignità solo a condizione di stabilire un difficile equilibrio: tra il trovare, al di là di ciò che differenzia le epoche, quegli elementi comuni che ci permettono di riconoscere le esperienze di persone per altri versi molto lontane, e il saper leggere sotto l’apparente (e potenzialmente ingannevole) immediatezza dell’empatia o dell’anti-patia le diversità che ci permettono di situare quelle esperienze nel loro tempo, e anche nei paesaggi morali in cui le collocava chi le viveva. È appunto in quest’ottica che ho cercato di leggere le esperienze dei personaggi di cui abbiamo seguito le vicende, e in alcuni casi anche i conflitti interiori, nel secondo e nel quarto capitolo. Cosí, nel confrontare la storia di Pietro con quella di Tersite si è intravisto un passaggio provvisorio da una mentalità che vede la viltà come caratteristica di chi non appartiene alla classe dei signori (e degli eroi) a una che la interpreta come una debolezza in cui può cadere anche l’uomo che dovrebbe essere il piú forte: si è potuta cogliere insomma una transizione storica tra due concezioni della viltà e tra due diverse visioni dell’uomo. Ma al tempo stesso ci siamo resi conto che sia il pianto vergognoso e umiliato di Tersite sia quello amaro di Pietro «ci parlano», che possiamo riconoscerci in entrambi, nella sofferenza e soprattutto nella vergogna che hanno provato e che noi sentiamo con loro. Cosí, la storia del giovane Henry Fleming ci ha fatto intravedere un altro passaggio storico, quello legato all’avvento della guerra industriale e di massa, nella quale il coraggio da virtú nobile e dei nobili è diventato un dovere anonimo e collettivo, nella quale alla violenza e al fulgore degli scontri sul campo è subentrata la noia di giornate sempre uguali. Ma se riusciamo a comprendere l’andirivieni della sua coscienza tra la paura di mostrarsi codardo e il cedere all’altra paura, quella di morire, è perché quell’oscillazione ci risulta umanamente vicina, perché la scrittura chirurgica e sperimentale di Crane ci fa penetrare dentro esperienze che, al di là del tempo e dello spazio, sentiamo come simili alle nostre.
Se teniamo conto da un lato del fatto che la viltà è stata nel corso del tempo collocata in diversi paesaggi morali, dall’altro del fatto che uno studio storico parla sempre degli uomini e delle donne del passato ma anche di noi, capiamo che una storia della viltà deve incrociare diversi punti di vista, tali da mettere in prospettiva i giudizi di cui è stata oggetto, le esperienze che l’hanno accompagnata, e anche le funzioni che la stigmatizzazione della codardia può avere assunto. Prima di tutto si deve indagare il mutare delle rappresentazioni della viltà e dei suoi opposti, a cominciare dal coraggio. In secondo luogo, dovremo considerare le norme che oltre a definire o meno come codardo l’uno o l’altro comportamento possono in alcune epoche stabilire le sanzioni a cui la viltà è sottoposta, o trasformare la riprovazione sociale in vera e propria pena giuridica: com’è avvenuto ad esempio con l’introduzione di reati di codardia e simili nei codici militari della seconda metà dell’Ottocento, quelli per cui sono state fucilate decine di soldati italiani nelle due guerre mondiali. Infine, elemento importantissimo per la nostra riflessione, i soggetti: la ripartizione dei vizi e della virtú sulla base di pretese qualità intrinseche dei signori e della plebe, degli uomini e delle donne, e il superamento (sempre parziale, sempre contraddittorio) di questa ripartizione.
Quando ci si propone di tracciare una «storia della viltà» è normale chiedersi se alla base del progetto ci sia (piú o meno dichiarata) una tesi da dimostrare, la convinzione di poter dare a quella storia una direzione e un significato univoci. È il caso ad esempio della già ricordata «breve storia» della cowardice di Chris Walsh, in cui si sostiene che concetti come viltà e coraggio, parallelamente all’idea di onore che è per l’autore strettamente connessa a quella di ardimento militare, starebbero diventando sempre meno rilevanti nella nostra cultura occidentale, a differenza per esempio di quella islamica. In sostanza, altre epoche avrebbero avuto sempre ben chiaro che cos’è la viltà e che cos’è il coraggio, valori maschili, bellici, riconoscibili da tutti; la nostra, in particolare il secondo Novecento, ne avrebbe perso la piena percezione. Ciò deriverebbe secondo l’autore, e secondo la corrente di pensiero neoconservatore a cui sembra ricollegarsi, dal pacifismo diffuso nella gioventú occidentale a partire dalla guerra del Vietnam, e dal prevalere in pace e in guerra di un atteggiamento psicoterapeutico che trova giustificazioni per tutto, inclusi comportamenti «poco virili» come il rifiuto di esporsi ai rischi, comportamenti che erano stati oggetto fino a pochi decenni fa di disprezzo e di sanzioni. Gli uomini della nostra epoca (il libro di Walsh è quasi totalmente declinato al maschile) non saprebbero piú, a differenza dei loro antenati, veramente riconoscere la viltà, capirne le cause e difendersene. Sarebbero, in sostanza, piú vili rispetto alle generazioni che li hanno preceduti, e non se ne renderebbero pienamente conto.
I lineamenti della storia della viltà che intendo tracciare in queste pagine non sono basati su una tesi e un giudizio cosí a senso unico, né seguono una direzione lineare: cercano al contrario di far emergere in tutte le epoche trattate l’intreccio tra continuità e cambiamento, tra giudizi impliciti e rappresentazioni esplicite. Certo, soprattutto nella storia piú recente individueremo alcune chiare tendenze e trasformazioni: ma diverse e sicuramente piú contraddittorie e complesse rispetto a quelle ipotizzate da Walsh. A cominciare dal fatto che gli ultimi tre secoli hanno visto un mutare (tutt’altro che lineare) sia delle rappresentazioni sia dei soggetti della viltà; si è arrivati cosí a una certa individualizzazione e «democratizzazione» di questi valori.
Il passaggio da una rappresentazione classica a quella che ho chiamato la «viltà dei moderni» può aiutarci a capire alcuni aspetti complessi e non sempre evidenti del mondo contemporaneo, a patto di riconoscerlo come terreno di tensioni che restano irrisolte tra sistemi di valori differenti. E può anche permetterci di guardare alcuni fenomeni e tendenze degli ultimi secoli da un punto di vista, almeno in parte, inatteso. Senza dimenticare che la storia recente della viltà può essere utile solo se la si colloca in un quadro di lunga durata.

2. «La paura svela gli animi senza valore».

Possiamo prendere le mosse dal primo dei racconti tracciati nel secondo capitolo, quello che parla di Tersite, della sua protesta e della sua punizione, per ragionare sui soggetti a cui spettano il coraggio e la viltà. Quando Odisseo, rivolgendosi a un principe, dice «Caro, non è bello che tu subisca la paura come un vile, ma devi tu fermarti per primo e arrestare gli altri uomini», stabilisce una linea di demarcazione che è insieme sociale ed estetica. Chi sta in alto ha doveri che derivano dalle sue prerogative: a lui va l’onore e l’onere di comandare e guidare, a lui e a lui solo si confà quel «combattere per il bello» di cui parlerà poi Aristotele; se cede alla paura scende al di sotto del suo ruolo, appare come un vile. Contro la sua stessa natura, che vile non dovrebbe essere. D’altra parte le parole che lo stesso Odisseo rivolge a quei plebei che si rendono colpevoli, come appunto Tersite, di «schiamazzare», li schiacciano in una viltà che corrisponde al loro status: «Tu sei un imbelle e un vigliacco, e non conti niente […] No, non faremo, è chiaro, tutti il re». Il potere spetta ai pochi che si suppone sappiano esserne degni, per la stirpe a cui appartengono. E devono darne prova, a cominciare dalla prestanza e bellezza fisica. La plebe invece ha solo un’alternativa: obbedire e quindi adeguarsi tacendo al suo ruolo subalterno, o non accettare la sua condizione, facendosi proprio per questo marchiare come imbelle e codarda. In ogni caso «non conta niente». In quella mentalità, il comportarsi come individuo era in quanto tale un privilegio; se chi era vile per definizione pretendeva di agire come una persona libera e uscire dai ranghi andava «rimesso al suo posto», ricacciato nella sua bassezza, «al di sotto di quei valori che meritano rispetto», per riprendere la nostra definizione di viltà. A questo serviva la degradazione, un rito di esplicito abbassamento che poteva produrre riso in chi vi assisteva, e lacrime di umiliazione in chi lo subiva.
Un’analoga rappresentazione della viltà e del coraggio come derivanti dalla nascita e dalla stirpe, come «connaturati» (le parole natura e nascita, ricordiamolo, hanno la stessa radice), si ritrova in uno dei piú celebri momenti della poesia occidentale, i versi dell’Eneide in cui la regina Didone confessa alla sorella Anna il suo amore per l’uomo che ha accolto come ospite:
Per la sua parola, per la forza che dimostra con il petto e con le armi
credo, e non è un’illusione, che sia di stirpe divina.
La paura svela gli animi senza valore1.
Didone ribadisce l’idea radicata secondo la quale la paura non era solo la radice della viltà ma si identificava direttamente con essa: l’insieme di pavidità e codardia era considerato prova di animi bassi. E insieme lega inscindibilmente un giudizio morale e anche estetico con il riconoscimento di un’appartenenza di ceto ereditaria. Il verso latino parla di animi «ignobili», che indica la bassezza e insieme la caduta, lo svilimento. Agli occhi di Didone Enea non è affascinante perché coraggioso, è coraggioso perché di stirpe divina; il suo ardimento è soprattutto prova dei suoi natali, e sono proprio la sua «natura» e la sua presunta nascita a sedurla. Questo tra l’altro dovrebbe ricordarci che il sentimento di Didone, per quanto caro alla letteratura amorosa di tutti i tempi, non è da confondere con quell’amore romantico che ci è familiare, e che nasce dall’aver trovato, o dal credere di aver trovato, un’affinità di spirito indipendente dalle appartenenze familiari. Virgilio invece parla prima di tutto dell’incontro tra due persone che sono (o intuiscono di essere) «degne» per nascita l’una dell’altra.
Nell’Eneide come nei poemi omerici il coraggio è conseguenza della posizione dominante e insieme è legittimazione del potere, è un metro di misura dello status e conseguenza di una superiorità «naturale», che deve però trovare sempre conferma nel comportamento di fronte al pericolo. Sono gli aristocratici del resto i veri destinatari delle prescrizioni che abbiamo trovato nell’Etica nicomachea di Aristotele: il loro non è il coraggio interessato dei soldati di mestiere, né quello puramente impulsivo che nasce dalla rabbia. A loro soltanto spetta il diritto e al tempo stesso il dovere di dimostrarsi impavidi «come può esserlo un uomo», e di battersi principalmente per amore del bello.
Simmetricamente, la condizione ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. Ringraziamenti
  5. SULLA VILTÀ
  6. Parte prima. Sul crinale
  7. Parte seconda. La viltà degli antichi, la viltà dei moderni
  8. Conclusione. Il segreto della viltà
  9. Commiato
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Dello stesso autore
  13. Copyright