Declino Italia
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Questo libro tenta una lettura unitaria delle cause economiche e politiche del declino dell'Italia, che dura da un quarto di secolo. La tesi di fondo è che il Paese è organizzato in modo meno equo ed efficiente dei suoi pari: la supremazia della legge e la responsabilità politica sono piú deboli, in particolare, e ciò comprime sia la produttività delle imprese sia le opportunità dei cittadini. Il senso di questo equilibrio politico-economico è la difesa della rendita, e la sua forza è la tensione tra la razionalità individuale e l'interesse collettivo. Questa logica è ferrea ma reversibile. Una battaglia di idee può scardinarla, liberando energie civili e risorse materiali ora sperperate, e avviare il rilancio.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858435489
Capitolo primo

Perché l’Italia non cresce?

Il percorso del libro.

Nel primo decennio del secolo l’economia italiana ha avuto il tasso di crescita medio annuo piú basso del mondo. La doppia recessione degli anni 2008-14 è stata la piú grave della storia unitaria. Nel quinquennio successivo la crescita non ha raggiunto la metà della media dell’eurozona. Non serve altro per giustificare la domanda del titolo.
La risposta è pressoché scontata, quanto alle cause prossime della crescita economica. Le cause profonde sono meno ovvie, e la risposta indirizzerà la discussione verso la sfera della politica e il modo in cui la società è organizzata. Seguirò il medesimo percorso: cause economiche del declino, cause politiche, e cause che risiedono nell’organizzazione della società.
Questo capitolo si occupa delle prime, gli altri delle altre. E procederò gradualmente, partendo dalle nozioni principali per giungere alla soglia tra economia e politica.

Reddito e isole felici.

La crescita è l’aumento della quantità o della qualità di ciò che un’economia produce. Si misura comparando la produzione di un dato periodo – un anno, di solito – con la produzione del periodo precedente. Per ciascun anno si stima la quantità dei beni e servizi che sono stati prodotti, e la si moltiplica per la stima dei loro prezzi di mercato. Il risultato è il prodotto interno lordo (Pil). Stimato il Pil dell’anno appena chiuso si sottrae da esso il Pil dell’anno precedente e si depura la differenza dell’inflazione, che gonfia i prezzi e distorcerebbe la comparazione. Se la differenza è positiva c’è stata crescita, se è nulla o pressoché nulla c’è stata stagnazione, se è negativa c’è stata recessione.
Per dare una misura, nel 2019 il Pil dell’Italia fu poco inferiore a 1800 miliardi di euro e crebbe dello 0,3 per cento rispetto al 2018; il Pil della Germania fu di circa 3400 miliardi, e la sua crescita si fermò allo 0,6 per cento. In tempi migliori le economie avanzate erano solitamente in grado di esprimere tassi di crescita di lungo periodo attorno al 2 per cento per anno: nel decennio precedente la crisi del 2008 le attuali economie dell’eurozona crebbero in media del 2,4 per cento l’anno.
Tutto ciò che un’economia produce è prodotto da qualcuno, solitamente, che da questa attività ricava un reddito. All’incirca, pertanto, il Pil rappresenta anche il complesso dei redditi della popolazione. La crescita li aumenta, tipicamente, la recessione li diminuisce.
Ma una società che cresce e si arricchisce non vive necessariamente meglio di una che ristagna. Il benessere sociale dipende anche da quanto equamente reddito e ricchezza sono distribuiti tra i cittadini, dal livello dei sacrifici che essi devono accettare per finanziare lo stile di vita che desiderano condurre, o dagli effetti della produzione sull’ambiente. Gli Stati Uniti sono piú ricchi e crescono piú rapidamente della Francia, per esempio, ma fanno meno vacanze e sono piú disuguali; la Cina cresce piú di entrambi, ma è piú inquinata e meno libera. Non tutti concorderebbero su quale combinazione sia preferibile.
Né la crescita è sempre desiderabile, perché non tutti i consumi e gli investimenti aumentano il benessere sociale o crescono per ragioni apprezzabili. Faccio un esempio poco realistico, che racchiude però una logica sulla quale torneremo. Immaginiamo un’isola felice, in epoca antica, che non conosce il furto. Una tempesta getta una nave sulle sue coste. Accolti e onorati, nella notte gli stranieri rubano tutto ciò che possono caricare sulla nave e salpano. I cittadini sono strabiliati. Tornando dall’assemblea uno di essi, al quale avevano rubato la lanterna, vede quella del vicino appesa al muro, incustodita. Pensando che la colpa sarà data agli stranieri la ruba. Ma il vicino sa che non è cosí: inviperito, ruba la prima lanterna che vede. Ne segue una catena di furti, e tempo una settimana i fabbri dell’isola ricevono ordini su ordini di lucchetti, catene, serrature, e poi pugnali, cotte di maglia, spade… Ne nasce un’industria manifatturiera che presto conquista i mercati vicini. Piú ricca di prima, tuttavia, l’isola è forse meno felice, perché con la crescita il furto le ha portato sfiducia reciproca, violenza privata, leggi draconiane.
Tutto ciò che si può dire è che, a parità di ogni altra condizione, una società che cresce vive meglio di una che ristagna. Nel caso dell’Italia, il cui declino non è compensato dalla riduzione delle fatiche quotidiane o delle disuguaglianze, è verosimile che il ritorno alla crescita aumenterebbe significativamente il benessere sociale.

Produttività e convergenza.

Quali sono le cause della crescita economica? La risposta può essere data su due piani. Ci si può interessare alla crescita di breve periodo oppure a quella di lungo periodo, e di ciascuna si possono distinguere le cause prossime da quelle profonde. Siccome l’Italia ristagna da un quarto di secolo qui interessano soprattutto le cause, prossime e profonde, della crescita di lungo termine.
Il discrimine tra breve e lungo periodo è la struttura di un’economia. Il breve termine è l’arco di tempo – uno o due anni, solitamente – durante il quale ci si può attendere che la struttura di un’economia resti sostanzialmente immutata. Il lungo termine è il tempo durante il quale essa può cambiare, in risposta alle nuove sfide e opportunità che le si presentano. Un’isola che esporta solo velieri, per esempio, ed è spiazzata dall’invenzione del motore a vapore, nel lungo termine deve spostare i propri investimenti sulle navi a elica, mentre nel breve termine potrà solo tentare di limitare i danni.
Nel breve periodo la crescita dipende da variabili come i tassi d’interesse o il saldo del bilancio pubblico, il cui andamento espande o comprime la domanda di beni e servizi. Nel lungo periodo essa dipende soprattutto dalla produttività, ossia dalla capacità di produrre piú o meglio di prima. Dalla capacità, piú precisamente, di ricavare da quantità costanti di fattori di produzione – materie prime, macchinari, sapere tecnico, lavoro umano – piú o migliori prodotti. Ciò dipende dall’investimento e dall’innovazione. L’investimento è comprare un secondo bue per tirare l’aratro; l’innovazione è inventare il trattore e sostituire i buoi.
Investimento e innovazione vanno di solito assieme, ma conviene distinguerli. La crescita per via di mero investimento è una crescita di forza bruta, per cosí dire, e ha un limite. Perché l’agricoltore potrà aggiungere un terzo bue, e magari un quarto e un quinto, ma ciascun animale aggiuntivo porterà benefici decrescenti: ossia darà un aumento di produttività – in termini di metri quadrati arati per ora di lavoro – inferiore a quello apportato dal bue precedente. Lo stesso vale per i trattori: raggiunto il limite, per aumentare la produttività bisogna inventare macchine migliori (innovazione tecnologica) o migliori metodi per combinare macchine e lavoro (innovazione organizzativa).
L’innovazione ha il solo limite dell’inventività umana, ed è pertanto la componente critica della crescita di lungo periodo. Del resto è ovvio: il miglioramento della qualità materiale della vita è derivato soprattutto dalle invenzioni (l’addomesticamento del cavallo, la ruota, la vela, il motore, il volo). Tendiamo a dimenticarlo, perché le invenzioni rivoluzionarie sono rare (la berlina sulla quale Luigi XVI fuggí da Parigi durante la rivoluzione non era molto diversa dal primo carro costruito dall’uomo). Ma attorno a quelle rivoluzionarie sbocciano poi miriadi di altre invenzioni, che le migliorano, diffondono, combinano. Si pensi al passaggio dai primi computer agli smartphone.
L’innovazione è talvolta impalpabile, però, e riusciamo a misurarla solo indirettamente e imprecisamente. Possiamo stimare quanto è aumentata la produttività di un’economia o di un’impresa, e possiamo stimare quanta parte di tale aumento è dovuta agli investimenti che essa ha compiuto: la parte restante rappresenta, per ipotesi, la crescita di produttività ascrivibile all’innovazione tecnologica e organizzativa. Nella contabilità della crescita essa è chiamata «produttività totale dei fattori» (Ptf): una denominazione nella quale l’aggettivo «totale» può essere fuorviante, perché la Ptf è una componente della produttività. Infatti in seguito parlerò sia di produttività (la capacità di produrre piú o meglio, grazie all’investimento e all’innovazione) sia di Ptf (la sua componente che deriva dall’innovazione).
Un’impresa o un’economia possono innovare sia creando invenzioni sia importandole. Ma le due strade non sono equivalenti, sia perché da quando le invenzioni sono brevettate per usarle bisogna pagare i diritti, sia perché non sempre le invenzioni create dalle economie avanzate sono adatte a quelle piú arretrate. Alcune tecnologie digitali possono esprimere tutte le loro potenzialità solo in una popolazione altamente istruita, per esempio, ed è probabile che la Roma imperiale abbia usato l’energia del vapore solo per l’eliopila (una palla rotante) e curiosità consimili a causa dell’ampia disponibilità di schiavi. Le tecnologie avanzate, che tipicamente richiedono forti investimenti per essere impiegate nella produzione, possono essere inadeguate alle economie nelle quali il lavoro umano è relativamente poco costoso rispetto al capitale, e di frequente devono essere adattate alle condizioni tecnologiche ed economiche del Paese che le importa.
Nondimeno, spesso le economie arretrate riescono a crescere piú rapidamente di quelle avanzate, anche molto piú rapidamente, perché importare e adattare invenzioni già sperimentate è piú facile che crearle. Questo è detto il «vantaggio dell’arretratezza», e il processo mediante il quale le economie arretrate si avvicinano ai livelli di produttività e di reddito di quelle piú avanzate è chiamato «convergenza». Ne sono esempi l’Italia del trentennio successivo alla guerra e la Cina dell’ultimo trentennio. Il punto d’arrivo della convergenza è la «frontiera tecnologica», ossia i piú alti livelli di tecnologia ed efficienza organizzativa disponibili al mondo, settore per settore, che per ipotesi corrispondono ai piú alti livelli di Ptf. È un processo non solo di crescita ma anche di sviluppo: se la crescita è il mero aumento del Pil, non è troppo sbagliato intendere lo sviluppo come l’aumento della produttività, e soprattutto della Ptf.
Per dare una misura, si stima che nei sette decenni che ci separano dalla guerra la Ptf degli Stati Uniti sia cresciuta dell’1,3 per cento l’anno. Nella media, in questo periodo l’economia statunitense era la piú vicina alla frontiera: quel tasso dunque approssima la velocità di avanzamento della frontiera1. Grazie al vantaggio dell’arretratezza e a felici combinazioni di politiche economiche ed estere, nel periodo 1950-73 l’Italia crebbe a un tasso medio annuo pari a oltre il quadruplo della frontiera.
Man mano che le economie arretrate si sviluppano, tuttavia, la loro crescita di lungo periodo rallenta, perché il divario tecnologico gradualmente si colma e il vantaggio dell’arretratezza si riduce. Quando esse raggiungono la frontiera i loro tassi di crescita si allineano a quello medio delle economie piú avanzate – che dipende dallo sforzo di spostare in avanti la frontiera mediante nuove invenzioni – e la strategia fondata sull’importazione e l’adattamento dell’innovazione altrui diviene insufficiente: per restare al passo delle economie di punta bisogna anche iniziare a generare innovazione.
Nel valutare la strategia di crescita e le politiche economiche di un Paese occorre dunque tenere presente il suo stadio di sviluppo. Scelte vantaggiose per un’economia distante dalla frontiera possono essere dannose per una che le è prossima.

Innovazione e distruzione creatrice.

Come si genera l’innovazione? Essa è imprevedibile per natura, ma sappiamo che le invenzioni sono favorite dagli investimenti nell’istruzione e nella ricerca. È importante sia l’istruzione universale, per fare sbocciare i talenti sparsi nella popolazione e agevolare la diffusione delle nuove tecnologie, sia l’alta istruzione, per spingere l’innovazione di frontiera. Gli investimenti nella ricerca sono piú rischiosi, perché i risultati sono piú aleatori. Infatti la ricerca di base è generalmente finanziata soprattutto dal denaro pubblico. Ma anche le imprese fanno ricerca, tipicamente per ricavare dalle innovazioni di avanguardia nuovi o migliori prodotti, e generalmente piú sono grandi e meglio capitalizzate piú investono in ricerca.
Istruzione e ricerca sono però solo cause prossime dell’innovazione e della crescita della Ptf. Le cause profonde risiedono nell’organizzazione della società. La crescita mediante innovazione è un processo intrinsecamente conflittuale, infatti, che minaccia il potere e gli interessi delle élite consolidate (le quali in ciascun momento sono, per ipotesi, le élite prodotte dalla fase di sviluppo precedente). Questo processo è detto di «distruzione creatrice», perché in esso le nuove innovazioni soppiantano le vecchie e rivoluzionano i rapporti di forza tra vecchi e nuovi innovatori. Quindi i primi, ossia le élite, hanno tipicamente interesse a impedirlo o imbrigliarlo, per difendere il proprio potere – economico e politico – e le rendite che esso assicura. Per i grandi imprenditori del trasporto a cavallo, per esempio, l’invenzione del motore può essere catastrofica, e per la medesima ragione gli imprenditori del treno a vapore tenteranno a loro volta di ostacolare la diffusione del motore elettrico.
Nelle economie di frontiera, pertanto, la crescita richiede mercati aperti alla concorrenza, nei quali i nuovi innovatori abbiano spazio per proporre alla società le proprie invenzioni. E richiede supremazia della legge, ossia regole effettivamente uguali per tutti, uniformemente applicate, affinché le imprese già forti – ossia i vecchi innovatori – non possano godere di trattamenti privilegiati a danno delle nuove imprese che vogliono sfidarle. Piú deboli sono la concorrenza e la supremazia della legge meno si avrà innovazione, tipicamente, perché piú agevolmente le élite potranno difendersi dalla distruzione creatrice.
Cruciali alla frontiera, tuttavia, queste due condizioni contano meno nelle economie arretrate, il cui sviluppo dipende soprattutto dall’importazione dell’innovazione altrui. Forte concorrenza può anzi nuocere alla loro convergenza (e proprio per questa ambivalenza la relazione tra concorrenza e innovazione è dibattuta). Nell’Italia del trentennio dopo la guerra e nella Cina del passato trentennio, per esempio, concorrenza e supremazia della legge erano certamente piú deboli che nelle economie avanzate dei due periodi, ma ciò non impedí l’ammirevole sviluppo di entrambe.
La tensione tra gli interessi delle élite consolidate e quelli dei nuovi innovatori è quindi particolarmente forte nel momento in cui un’economia sta completando la propria convergenza e deve gradualmente passare a un modello di crescita fondato maggiormente sull’innovazione, che richiede concorrenza piú intensa e piú forte supremazia della legge. In Italia questo passaggio avvenne negli anni Ottanta.
Per finire, alcuni ritengono che anche la democrazia favorisca la crescita per via di innovazione. La tesi, molto controversa, è questa: se il potere è diffuso e le autorità politiche sono soggette al giudizio degli elettori e alla critica pubblica, è piú difficile che si formino concentrazioni di potere economico capaci di sopire la concorrenza o posizioni di privilegio fondate sull’ineguale applicazione della legge. Il futuro percorso della Cina potrebbe corroborare questa tesi, se la crescita calasse decisamente, o confutarla. Vedremo, e la questione comunque è irrilevante per chi pensi che la democrazia sia desiderabile a prescindere dagli effetti sulla crescita. Piuttosto, ricavo da questo dibattito la conclusione che la responsabilità politica delle autorità pubbliche – ossia la contendibilità del loro potere e la sua vulnerabilità alla critica pubblica – tende a favorire l’innovazione e la crescita della Ptf, quantomeno nelle economie avanzate. La ragione è la medesima: ove non abbia effetti paralizzanti, un vigoroso regime di responsabilità politica crea un forte incentivo a perseguire l’interesse generale, e pertanto favorisce l’istruzione universale e l’espansione delle opportunità economiche dei cittadini, e insieme sfavorisce l’emergere di concentrazioni di potere protette dalla concorrenza e dalla supremazia della legge.

Perché l’Italia ha smesso di crescere?

Nella sua saggezza [don Ciccio Ingravallo sosteneva] che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare […]
CARLO EMILIO GADDA, 1958.
Non me ne vorrà don Ciccio, ma la risposta a questa domanda è una: l’Italia ha smesso di crescere perché ha smesso di innovare. Lo dimostrano le teorie appena discusse, da un lato, e l’evoluzione della Ptf dalla guerra a oggi, dall’altro.
Al termine del conflitto il Giappone e le grandi economie dell’Europa occidentale sono molto distanti dai livelli di Ptf dell’economia statunitense (ossia dalla frontiera mondiale della tecnologia e della produttività). Quasi subito però inizia un rapido processo di convergenza, che nel trentennio successivo riduce notevolmente il divario. A questa fase di sviluppo, l’«età dell’oro» del capitalismo occidentale, danno un contributo decisivo l’importazione e l’adattamento delle tecnologie di frontiera, provenienti principalmente dagli Stati Uniti. Quelle economie spostano ingenti capitali e milioni di lavoratori nei settori che meglio possono impiegarle, e crescono molto rapidamente. ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione
  4. Avvertenza.
  5. Declino Italia
  6. I. Perché l’Italia non cresce?
  7. II. Il debito, l’austerità, l’euro e altre risposte
  8. III. Politica e potere
  9. IV. La società civile
  10. V. Storia e cultura, interessi e idee
  11. VI. Un equilibrio reversibile
  12. VII. Una rifondazione repubblicana
  13. Nota bibliografica
  14. Ringraziamenti.
  15. Il libro
  16. L’autore
  17. Copyright