La fragilità del bene
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La fragilità del bene

Sull'amore. Elogio dell'amicizia. Impara a essere felice

  1. 464 pagine
  2. Italian
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La fragilità del bene

Sull'amore. Elogio dell'amicizia. Impara a essere felice

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Si fa presto a dire amare, ma quante sono le persone che possono dirsi innamorate sul serio? E quante quelle capaci di andare oltre l'innamoramento? Una cosa è certa: l'amore non può diventare un laconico messaggio lanciato nell'universo distratto, né può contare sulla probabilità che un'anima ne incroci un'altra nella notte dei giochi tecnologici. L'amore ha bisogno di essere contaminato, anche quando costa, anche quando sa di amaro e di lacrime. Sentimento «piú dogmatico dell'amore» è l'amicizia, che non conosce sfumature di comodo, che è tutto o niente, e ha bisogno di ancora piú coraggio dell'amore, perché richiede l'assoluta conquista dell'altro e la totale perdita di sé. Ultima tappa di questa guida amichevole sul sentiero della maturità affettiva è la felicità: per raggiungerla, dobbiamo impegnarci ad avviare una piccola rivoluzione della gioia e della positività. Perché essere felici può accadere molto piú spesso di quanto immaginiamo, dobbiamo solo lasciare che accada.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858435526

Sull’amore

Una delle tante autostrade che escono dall’area metropolitana di Londra verso nord. Il traffico scorre lento, il sole tramonta tardi come tutte le sere inglesi: un’estate che si prolunga tra piovaschi e sole tiepido, crudele.
Ascolto un canale della Bbc, musica classica.
Ormai si è fatto buio, la musica s’interrompe per lasciare spazio a una trasmissione d’intrattenimento condotta da una voce femminile un po’ roca che sa di gioventú ben trascorsa.
Risponde alle telefonate in diretta, argomento: l’amore. Cerco di prestare attenzione, m’incuriosisce individuare eventuali differenze tra il nostro e il loro modo di affrontare un argomento tanto abusato. Un signore chiama e racconta quanto gli è difficile parlare d’innamoramento con il nipote, appena adolescente. Dice: «Che ne può sapere lui dell’amore che è ancora un ragazzino e non sa nulla della vita…» La donna replica, pronta: «Ma lei è proprio sicuro che bisogna essere maturi per sapere che cos’è? Poi noi, che la vita dovremmo conoscerla almeno un po’, dell’amore sappiamo davvero tutto, possiamo istruire un giovane ad amare con piú sicurezza e serenità?»
La discussione radiofonica va avanti per un po’, la seguo a tratti, sono già sulle strade non lontano da Oxford, un bagliore di luna illumina i prati attorno e scurisce le ombre delle immense querce che li delimitano. Penso a quelle apparenti ovvietà che avrebbero fatto discutere le radio di mezzo mondo. Mi chiedo se davvero sia tutto cosí banale. E se l’amore semplicemente non rappresentasse l’argomento piú difficile da discutere ma anche il piú urgente?
L’idea di scrivere un libro sull’amore – ben conscio del rischio di semplificazione che esso comporta – nasce da questa sensazione.
Per secoli abbiamo fatto di tutto pur di non vivere d’amore. Abbiamo lasciato questa scelta ai santi e ai folli, ai poeti e agli utopisti proprio per arrivare a dirci – consolandoci – che non è tema cosí importante per comuni cittadini. Prima deve venire il lavoro, il denaro, il potere, la guerra e la pace, l’economia e la politica, la famiglia e lo Stato, l’individuo e la collettività. Abbiamo pensato che perfino la felicità potesse essere vissuta senza amore.
Cosí si progettano e costruiscono esistenze appoggiate sulle palafitte fragili dell’analfabetismo affettivo. Ci siamo perfino dimenticati d’insegnare ai nostri figli a comunicare – nel senso empatico del termine, convinti che sarebbe bastata l’invasione tecnologica e telematica a garantire a ognuno di non essere piú solo.
Abbiamo parlato per decenni di alienazione, poi l’abbiamo organizzata e diffusa in ogni posto di lavoro e in molte case, e ora ci inorgogliamo all’idea che immensi territori orientali siano il teatro di una gigantesca transizione: dalla lentezza dei campi alla follia delle fabbriche di grattacieli. Siamo riusciti ad affogare nel fare, il pragmatismo si apprezza come icona dell’efficienza e della subalternità globale: cosí non pensiamo ad altro se non alla produzione di cose, mai d’idee.
L’amore dunque come rivoluzione, come grimaldello capace di sovvertire un equilibrio anestetizzato di menti e libertà. L’amore come esercizio spirituale, come ginnastica di amor proprio, come fucina di dignità. L’amore come allegoria del tempo necessario ad accorgerci che stiamo vivendo, non sopravvivendo. L’amore come metafora irrinunciabile del bello e del puro.
Amore come occasione per accorgersi dell’altro, come crescita, riappropriazione della coscienza di sé, del corpo, dei sensi, della libertà di pensare e sentire.
Cosa c’è di piú strategico dell’amore?
Come potrebbe un politico pretendere di guidare una nazione se non sa amare? Come potrebbe un industriale pretendere di capitanare mille dipendenti se non conosce il senso della passione dei sentimenti? Eppure la Storia è lastricata di leader cinici e di manager emotivamente irrisolti, cosí come la maggioranza di noi. Ecco perché, di fronte alla piú profonda crisi dell’Occidente, non sappiamo far altro che replicare le scelte del passato: facciamo crescere la concorrenzialità, la violenza, l’indifferenza per l’altro, la piú cinica delle ambizioni. Sappiamo distruggere per poi ricostruire, uccidere per poi perdonare, tradire per poi chiedere scusa.
E se la rivoluzione partisse dall’homo cupidus (ovvero l’uomo emotivo), non piú da quello laboriosus né da quello «tecnologicus»? E se fosse venuto il tempo di prendere e dare delle lezioni d’amore? Se il vero frutto di un’acquisita modernità corrispondesse con il concedersi il tempo, la voglia, il coraggio, il lusso d’innamorarsi?
L’assoluto dell’amore si riconosce dall’inquietudine incessante di chi ama.
PAUL VALÉRY
Ho passato gran parte dell’infanzia in una tranquilla città di pianura. Abitavo in una piazza circondata da una fila di portici profondi e scomposti, lastricati di pietra scura, che la cattiva stagione accarezzava d’umidità e riempiva di velature luccicanti come bave di lumache.
Proprio sotto una di quelle volte, non lontano dal portone di casa, di buonora, ogni mattina, attratto da un rituale a lui stesso ignoto, un uomo spingeva un vecchio carretto di legno verniciato di verde fino a parcheggiarlo proprio sotto uno di quegli enormi occhi di pietra.
Era tarchiato e silenzioso, vendeva frutta e verdura: stava sempre solo. Non appena arrivava la stagione piú fredda, accendeva un braciere posto a fianco delle ruote: vi coceva castagne e patate americane. Non cambiava mai la posizione di quella minuscola bottega ambulante, e nemmeno quella della sua vecchia sedia impagliata: restava sempre nello stesso posto, immancabile, estati e inverni, con l’afa e con la neve. Sguardo vuoto, mani minuscole, grasse, annerite dalla carbonella.
Accadde la sera di uno di quei giorni nei quali il freddo mischia il vapore rappreso della foschia a pioggia fitta e lieve. Tornavo a casa con papà, ci fermammo a comprare qualcosa per cena e mentre l’uomo preparava il cartoccio, a mio padre scappò di chiedergli per quale ragione, nonostante l’ora tarda, il tempo impietoso, i passanti ormai radi e frettolosi, si ostinasse a rimanere al gelo e non preferisse tornarsene a casa.
E l’uomo delle patate americane, pronto, a bassa voce, senza alzare lo sguardo: – Ghe vada iu da me muier…
«Ci vada lei da mia moglie».
Risposta greve, ma solo in apparenza. A distanza di anni, infatti, rende ancora bene l’idea di quanto la nostra comunità sia stata davvero brava a insegnare ai propri figli a studiare, lavorare, guadagnare. C’è chi si è cosí costruito sette ville in Sardegna e chi è soltanto riuscito a sbarcare il lunario, ma la maggioranza di noi – soprattutto quella dei maschi – ha imparato che l’importante sono le cose materiali – l’infinita lista delle «robe» da acquisire ed esibire – e non davvero le emozioni: tanto che le prime hanno fornito un’identità assai piú delineata e forte delle seconde.
Senza che se lo potesse nemmeno immaginare, quel verduraio ha incarnato una delle metafore piú inquietanti del nostro attuale modo di vivere e comunicare. Bravi a vendere in piazza, un po’ meno a far crescere rapporti, coltivare sentimenti, alimentare affetti fra le mura domestiche.
Se oggi si facesse un censimento per stabilire chi sono i migliori lavoratori e chi gli amanti esemplari, si scoprirebbe che i primi posti di quella classifica non sarebbero occupati dalle stesse persone, anzi. Per decenni abbiamo ritenuto che l’uomo fosse portato all’alienazione dal lavoro, in realtà la vera alienazione è quella vissuta nella quotidianità, non quella degli uffici o delle Borse ma quella del talamo, dove s’annida spesso il piú profondo dei nostri naufragi, quello degli affetti.
Si fa presto a dire «amare»: molti ritengono che sia sinonimo del piú insipido «volere bene». Quante sono le persone che possono dire di essere – o essere state – innamorate davvero? E quante quelle capaci di fare il salto di qualità, di andare oltre l’innamoramento, fino all’amore?
Per secoli amare non è stato l’obiettivo primario, la vera necessità. La priorità è stata la sopravvivenza: bisogna trovare cibo e acqua, ripararsi dal freddo, scongiurare una guerra o doversi armare, pregare che la prossima epidemia non semini nuovi lutti. Poi, una lenta emancipazione, il raggiungimento di un relativo benessere ha permesso alle generazioni che ci hanno immediatamente preceduto di scoprire che si poteva vivere, non solo sopravvivere, concedersi il lusso di pensare a se stessi: occuparsi anche dei sentimenti, dei moti dell’animo. In altre parole, del senso immateriale della vita.
Eppure, anche adesso che da qualche decennio abbiamo conquistato la modernità (diritti, libertà, prolungamento dell’esistenza), la maggioranza dei cittadini di questa piccola porzione del mondo occidentale ancora non conosce i sentimenti, anzi li teme.
Basterebbe contare i negozi di biancheria intima: decuplicati rispetto a vent’anni fa. Non rappresentano certo il segnale di un cambiamento profondo nella capacità di conoscere le emozioni, non dimostrano che sappiamo amare meglio. Provano, invece, l’esatto contrario: che la nostra società soffre dell’ossessione dell’amore vissuta in termini di sessualità (ovvero di competizione sessuale), ma non sa vivere l’amore.
La maggioranza dei cittadini moderni ama poco, ama male: altrimenti non sarebbe nata la psicoanalisi.
È paradossale che ciò stia accadendo proprio ora che non ci manca il tempo per sviluppare rapporti: mio nonno non conosceva i weekend, io sí. Basterebbe dimostrare la volontà di migliorarsi, semplicemente quella d’imparare, necessaria soprattutto nel momento cruciale in cui ha inizio la grande magia che lascia incantati.
L’innamoramento. Senza il quale non si cresce, senza il quale la vita non ha sapore, spessore, stupore.
L’innamoramento è una malattia.
Solo che funziona esattamente al contrario di una patologia organica: fa tanto bene quanto piú fa male. Piú il virus è invasivo, virulento e contagioso, piú l’innamoramento è sconvolgente; appena il virus si attenua e stempera la sua portata morbosa, ecco che il sentimento si placa e si trasforma. E, come tutti i virus, l’innamoramento colpisce allo stesso modo in ogni parte del mondo. Non conosce differenze di condizione sociale e di nazionalità, non ha bisogno di traduzioni per essere compreso né di climi speciali per attecchire.
Quand’ero ragazzo, una sorella di mio nonno mi raccontò una storia accaduta a Venezia ai suoi tempi. Una signorina di buona famiglia incontrò a una festa un giovane forestiero e se ne innamorò. La relazione fu da subito burrascosa, tanto che dopo solo pochi mesi la signorina rimase incinta. In casa le chiedevano come fosse potuto succedere dal momento che parlava solo veneziano e il giovanotto una lingua straniera. E lei, non sopportando piú tante insistenze, aveva risposto nel modo piú ovvio, scontato e bello del mondo: – L’amore non ha bisogno di parole, ma di sguardi.
L’innamoramento prescinde da verbi e vocaboli, ma non dai sensi: sono loro che preannunciano quella magnifica febbre. Piú si è ammalati, piú ci si fa avvolgere e travolgere da un sentimento che va oltre la ragione, l’interesse, la convenienza. Un sentimento cosí bello e cosí nobile lo si dovrebbe augurare ai propri figli, nella speranza che anche loro possano ammalarsi, cioè vivere – non un giorno soltanto – questa folle ossessione.
L’innamoramento è autentico solo quando è insano, dissennato, quando ti fa stare ad aspettare un Sms o un’e-mail per giorni, quando fa trovare scuse inverosimili pur di arrivare puntuali a quell’appuntamento. Chi non lo ha conosciuto, dice che sono cose assurde, al di là della logica e del tempo, eppure sappiamo bene che, come diceva Pierre Corneille, «la ragione e l’amore sono nemici giurati».
L’innamoramento non può avere nulla a che vedere con la ragione. Accade in tutti i campi, non solo in quello sentimentale: quella magica forza funziona allo stesso modo anche per la musica, la letteratura, la pittura, qualsiasi espressione umana. Soffre della medesima ossessione il musicista di talento che a un certo punto si isola dal mondo con i suoi spartiti, proprio come fa l’innamorato, perché non pensa ad altro, improvvisamente catapultato su un altro pianeta dimentica cosa deve fare, infila una sciocchezza dietro l’altra, non si rende bene conto degli impegni che si è preso, è totalmente disinteressato a ciò che fino al giorno prima gli riempiva la vita. È vittima della dolcissima, straziante, incontrollabile seduzione dell’amore.
Nell’epistolario di Italo Calvino ed Elsa De Giorgi, lo scrittore annota: «Amore mio, non avrei mai pensato che innamorarmi di te, incidesse cosí profondamente in me, fino a toccare, a aprire una crisi anche nella strumentazione piú tecnica del mio lavoro, cioè nel mio stile».
Essere innamorati è avere in testa un’idea che non t’abbandona giorno e notte. È addormentarsi con quell’immagine e ritrovarla che aspetta sul cuscino al primo battito di ciglia. Che abbia nome di donna, di uomo o di un quadro di Vermeer o di una sinfonia di Brahms cosa cambia? Il principio è lo stesso. È estraniamento, un incantesimo che sovverte e sobilla la comune, ordinaria quotidianità.
Se una donna o un uomo dovesse arrivare ad affermare di essersi innamorata/o in modo giudizioso, dovrebbe sospettare che non è cambiato granché nella sua vita: continuerebbe a compiere tutte le azioni quotidiane, esattamente come faceva prima d’incontrare l’amore. E se insistesse nel convincersi di essere attratta/o da quell’uomo o da quella donna, rivelerebbe che il suo è soltanto un sentimento dettato dal buonsenso, privo di acuti, sottratto allo strazio: l’emozione trasformata in burocrazia. L’innamoramento invece è sentimento estremo, non tepore ma febbre alta. Produce sempre una rivoluzione.
Il che non implica per forza un sovvertimento totale, esterno e interno. A volte il vero innamorato cuoce di una febbre interiore che non appare necessariamente come una sorta di dicotomia tra anima ed esteriorità, che detesta le pose istrioniche, quella contraddizione cui faceva riferimento Flaubert quando diceva che «occorre vivere da borghesi e scrivere da folli».
Oggi è abbastanza raro incontrare un persona innamorata del proprio lavoro e sembra quasi un eccesso romantico affermare che si possa innamorarsi di un’idea, appassionarsi follemente a un ideale. Eppure, nella mia generazione, ma soprattutto in quella di mio padre, uomini e donne hanno dato la vita per un valore: una straordinaria ossessione, un meraviglioso innamoramento per l’idea di libertà e di dignità.
Questo amore è merce rara proprio in quanto dono, virtú, occasione, fortuna. Richiede una buona dose di estrosità, un po’ di follia senza la quale non scocca la scintilla del furore sentimentale.
Arturo Benedetti Michelangeli, il grande pianista, divenne famoso non solo come sublime interprete di musica romantica, ma anche per le sue alzate d’ingegno, le stravaganze, le nevrosi. Si diceva che si comportasse come una primadonna, che mettesse la musica davanti a tutto, che vivesse solo con a fianco il suo accordatore e ne pretendesse la presenza ovunque viaggiasse. Non gli interessava il pubblico e nemmeno troppo la critica, solo quella fuga di Bach o quel preludio di Chopin riuscivano a ossessionarlo.
Esattamente come succede a un ragazzo quando finalmente riesce a portare a cena, dopo tanta fatica, la ragazza che lo fa sognare. Nulla al mondo riesce a trattenerlo: non la partita di calcio, non l’interrogazione del giorno dopo, non gli orari, neppure gli amici. Il suo desiderio piú grande è avere quella ragazza tanto vicina da intuirne l’odore della pelle.
Diceva sant’Agostino: «Da mihi amantem et sentit quod dico» («Dammi un innamorato e capirà quel che dico»). Dunque l’ulteriore paradosso: l’irrazionalità porta alla comprensione, ovvero alla ragione piú profonda, la follia contempla la soluzione. L’antica tradizione persiana c’insegna che quando in un villaggio si doveva prendere un’importante decisione, i vecchi si ritrovavano la sera sotto una tenda e bevevano fino a ubriacarsi, quindi discutevano di ciò che si doveva fare e l’indomani, finalmente sobri, confermavano la decisione che quella disinibizione aveva facilitato. L’irrazionalità avvicina alla saggezza.
Gesú Cristo, uomo incredibilmente innamorato nel senso piú grande e sorprendente, pazzo d’amore per un’idea: quella di amare tutti gli uomini e di volerli salvare. Sant’Agostino si spinge oltre: «Dilige et quod vis fac» («Ama e fa’ ciò che vuoi»), ovvero l’amore – attraverso il dolore della perdita della ragione e del conseguente controllo su di sé – conduce al bene assoluto: la libertà.
Come avrebbe potuto Michelangelo non essere posseduto da quel terribile virus se, ormai anziano e malconcio, ha affrescato la volta della Cappella Si...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. La fragilità del bene
  5. Sull’amore
  6. Elogio dell’amicizia
  7. Impara a essere felice
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Dello stesso autore
  11. Copyright