Yale continuava ad augurarsi che Julian lasciasse l’appartamento, ma Julian non voleva rischiare di essere visto. Voleva restare nascosto fino a domenica, quando partiva il suo volo per Portorico. Aveva un compagno di liceo che poteva ospitarlo, dopodiché boh, sapeva solo che sarebbe andato in un posto caldo. – Forse in Giamaica, – aveva detto, e Yale: – Quelli come noi li uccidono in Giamaica –. E Julian aveva risposto con un’inquietante alzata di spalle.
Julian passava quasi tutto il tempo chiuso nella camera padronale oppure ad allenarsi nella palestra di Marina City con le tute da ginnastica che aveva rinvenuto nell’armadio di Allen Sharp. Per quanto risultava a Yale, era ancora pulito, ma chissà cosa combinava durante il giorno. Ogni sera alle sei e mezzo Julian compariva in salotto per guardare la Ruota della fortuna. Yale si chiedeva se gli piacesse davvero, visto che non provava mai a indovinare le risposte. Quando il vincitore sceglieva il premio dopo ogni manche, Julian si chiedeva ad alta voce se avrebbe preso il dalmata di ceramica. Ma il suo interesse finiva lí.
Martedí, dopo il lavoro, Yale incontrò Asher Glass alla piscina della Hull House. Asher si stava già asciugando quando lui arrivò. Si tuffò e gli parlò dall’acqua. Si sentiva rachitico vicino a lui, pallido, e a mollo non si notava. Asher aveva saputo che viveva giú a River North. Yale disse: – Nelle torri a pannocchia. Sto cercando di trovare un bel gioco di parole sulle pannocchie ma non mi viene.
Asher non rise, lo guardò solo con preoccupazione. Disse: – Se ti serve un sostegno legale per recuperare ciò che ti spetta dalla tua ex casa, o economico, sappi che è il mio lavoro, e ti aiuto volentieri.
L’acqua aderiva alle spalle e ai peli del petto di Asher formando sfere perfette.
– Non sai quanto è bello sentirtelo dire.
Non aveva pensato molto alle cose che aveva lasciato da Charlie. Ormai portava da parecchi giorni i maglioni di Allen Sharp, il suo morbidissimo accappatoio, e per il momento aveva tutta la musica, i mobili e i piatti che gli servivano. Ma sapere che Asher avrebbe aiutato lui anziché Charlie, gli scaldò la pelle nell’acqua fredda. Quando Asher se ne andò, Yale si adagiò sul fondo della piscina, a guardare i fili di luce celeste.
Mercoledí Fiona chiamò Yale in ufficio per avvisarlo che poteva andare a prendere Roscoe. Yale non le chiese soldi e neanche Fiona ne parlò; pagò lui i 360 dollari. Portò a casa Roscoe nel trasportino di cartone che gli diedero dal veterinario.
Yale non aveva riferito a Julian l’episodio del gatto – perché lo avrebbe turbato e perché non era sicuro di riuscire a parlarne senza dirgli che aveva fatto il test –, cosí, quando Yale aprí il trasportino, quando Roscoe azzardò un passo fuori, Julian lo fissò smarrito dal divano. Yale disse: – Te lo ricordi?
Julian ebbe solo un attimo di vuoto, poi si accucciò sul pavimento e si strinse addosso il gatto come una coperta perduta da tanto tempo. – Ma da dove sbuca? – disse e, per fortuna, non diede a Yale il tempo di rispondere. – Ehi, bello, adesso vivi in un attico! Resta qui? Può restare?
– Se non ha altri impegni.
Ebbe il timore, vedendolo abbracciare il gatto in quel modo, che nemmeno lui se ne sarebbe piú andato. Ma Julian aveva comprato il biglietto e sembrava ogni giorno piú smanioso. Yale uscí di nuovo a comprare una lettiera, i croccantini, una ciotola e una cuccia per Roscoe. Era quasi fuori dal negozio, quando si voltò e tornò indietro a comprargli un giocattolo, una pallina viola con la coda di piume.
Giovedí un esperto di Foujita arrivò in aereo da Parigi per incontrare Bill. Yale avrebbe voluto ascoltare da dietro la porta. Avrebbe voluto passare il resto della vita a ricostruire la Parigi di Nora mattone su mattone con le zollette di zucchero. Avrebbe voluto un biglietto di sola andata per il 1920. Pensò all’idea che aveva Nora di viaggio nel tempo. Che razza di viaggio orribile, se portava solo verso un futuro agghiacciante, sempre piú lontano da quello che un tempo ci aveva reso felici. Solo che forse lei non lo intendeva in quel senso. Forse intendeva che piú invecchiavi e piú avevi a disposizione anni e anni da ripercorrere a occhi chiusi. Lui non pensava che avrebbe voluto ripercorrere quell’anno. Comunque: fra undici giorni arrivavano i risultati. E forse avrebbe rimpianto quel purgatorio, quando poteva ancora sedersi alla scrivania e aggrapparsi a un brandello di speranza.
Quando rincasò quella sera, trovò Julian a tavola che leggeva la guida tivú, anche se non era vicino alla tivú. Leggeva un vecchio numero, dell’ultima volta che gli Sharp erano stati lí. Con Roscoe sulle ginocchia.
Julian disse: – Che ridere. Hanno finto di intervistare Kermit e Miss Piggy.
– Sí, l’avevo visto.
– Lui insiste che non sono sposati, lei invece pensa di sí.
– Simpatici. Stai bene?
– Fra due giorni mi levo dalle scatole.
Yale si mise seduto. Se davvero stava per partire, poteva anche chiederglielo. Doveva farlo, prima della sua partenza. Disse: – Lasciami ripetere che ti perdono per quello che è successo con Charlie. Dovrei metterti il veleno nel caffè, ma non sono arrabbiato con te. Però mi devi dire una cosa. Ho bisogno di sapere se è stato davvero solo quella volta.
Julian posò la rivista, aperta a faccia in giú, come se non volesse perdere il segno. Si strinse Roscoe al petto. Uno scudo. – Va bene. Dunque… sí, piú o meno.
– Piú o meno?
– Una volta mi ha fatto un pompino. Un annetto fa. Ma per quanto riguarda… se è quello che mi stai chiedendo, allora sí, solo una volta.
– Ti ha fatto un pompino un annetto fa –. Yale stava cercando di fare i calcoli mentalmente, stava cercando di ricordare cosa succedeva nelle loro vite in inverno. Il giornale di Charlie arrancava. Non avevano ancora fatto il test. Non era sorpreso, ma allora perché il cuore gli batteva come un tamburo?
– Senti, Yale… cioè, sul serio lo vuoi sapere? – Yale annuí. – Si dava parecchio da fare.
Yale controllò il respiro. Disse: – Dovresti essere piú preciso.
– Succedeva che… si teneva tutto dentro. Cioè, lo sai cosa penso della monogamia. Lui è il pilastro della comunità, chiamalo come ti pare, dopodiché, ogni sei mesi o giú di lí, esplodeva. Non dico mica che era un continuo, ma… è come quando non tocchi cibo per tutto il giorno, poi cedi e ti mangi tutta la torta, no? So soltanto che faceva un sacco di sesso clandestino. Bagni della stazione, la riserva naturale, posti cosí. Usava il preservativo. Almeno cosí diceva.
Roscoe diventò sfocato. Il viso di Julian diventò sfocato. Ai bagni della stazione ci andavano quelli delle periferie, uomini furtivi con mogli e figli, i «gay pendolari» contro cui inveiva Charlie. Gente all’altezza del suo senso di colpa, del suo disprezzo di sé. Yale non credette neanche per un attimo che Charlie avesse usato il preservativo. Charlie si stava suicidando. Uno non usa i preservativi se vuole suicidarsi. Disse, con quel poco di fiato che gli era rimasto: – Cazzo.
– Se può tranquillizzarti, credo sia stato alla larga dalla nostra comunità. Non andava a rimorchiare al Paradise né altrove.
Yale si chiese se Charlie avesse voluto proteggere il suo buon nome, i sentimenti di Yale o entrambe le cose. Non poteva essersi illuso di rischiare meno con quegli uomini di periferia.
– Capisci, – disse Julian, – per questo non mi sentivo un verme. Cioè, mi sentivo un verme, ma non è che avevo rotto una cosa che prima era tutta intera, giusto? E non sapevo se fra voi c’era un accordo segreto. Non sembrerebbe.
– Ma tu come le sai, tutte queste cose? – Yale avrebbe voluto chiedere chi altri sapeva, ma non era certo di voler sentire la risposta. Terrence gli era parso davvero convinto di aver assistito a un episodio isolato. Ma se Julian lo sapeva, allora lo sapeva anche Teddy. E chissà Asher, Richard, la redazione di Charlie.
– Si è sempre un po’ confidato con me. Una volta l’ho visto a Montrose Street Beach che bussava come un matto sul finestrino di un’Audi. Dopodiché ha cominciato a raccontarmi delle cose. Mica per vantarsi, era solo un modo per sfogarsi. Non era contento. Perché uno si comporta cosí? O perché è uno sballo oppure perché odia se stesso, e io non credo che lui si divertisse.
Molti tasselli andarono a posto, pezzi sparsi negli anfratti del suo cervello. Disse: – E tu non mi hai avvisato. Lo sapevi, e non mi hai avvisato –. Se Fiona aveva ragione, se davvero Charlie non piaceva a nessuno, perché lo avevano protetto cosí a lungo?
– Io… Io non vorrei che gli altri parlassero di ogni mio errore. Chi siamo? La buoncostume? Io non sono la buoncostume, chiaro? Non sono la buoncostume. Ehi. Mi dispiace un sacco, va bene? Non sai quanto. Mica ti sarai… non ti sei infettato, vero? – Gli occhi di Julian si riempirono di una specie di panico, come se gli fosse venuto in mente solo in quell’istante.
Yale disse, perché era la verità, in senso lato: – Sono negativo –. Da maggio. Be’, era negativo, e Dio solo sapeva da quanto tempo Charlie lo esponeva all’infezione. Si alzò, fece alzare Julian, lo abbracciò. Se davvero Julian partiva domenica, non voleva che la loro amicizia finisse con un litigio. Poteva arrabbiarsi dopo, in solitudine. Poteva tracciare dei bersagli sul muro, disegnare le facce di tutti quelli che lo avevano tradito, e tirargli le freccette. Ma poteva anche tenere stretto Julian per un secondo. Gli fece bene. Disse: – La buoncostume sarebbe una maschera fantastica per Halloween.
Restò sveglio fino alle tre. Le probabilità che Charlie si fosse infettato con un solo rapporto sessuale e che Yale si fosse infettato dopo essere stato solo poche volte con Charlie erano infinitesime. Ma adesso non aveva piú il conforto della statistica. Sapeva che il virus se ne fregava della giustizia, delle probabilità: ma questo non lo faceva sentire piú al sicuro.
A un tratto gli venne il dubbio che Charlie non si fosse sottoposto al test, in primavera. Erano stati dal medico insieme ma avevano fatto il prelievo separatamente ed erano stati contattati separatamente per i risultati. Ormai la sua immaginazione non escludeva piú nulla, nessun tipo di inganno. Magari Charlie si era cacato sotto e aveva fatto marcia indietro, si era convinto di stare bene finché non si era trovato davanti alla realtà innegabile che era andato a letto con una persona infetta.
Quando andò al lavoro venerdí, ancora mezzo addormentato, Yale trovò un biglietto: «Chiamare Alfred Cheng». Non capí subito che si trattava del dottor Cheng, il dottor Cheng che non doveva telefonargli prima di dieci giorni. Gli venne un nodo in gola. Avrebbe voluto richiamare subito e allo stesso tempo aspettare un secolo, ma farlo dall’ufficio era impensabile. E non poteva nemmeno chiamare dall’appartamento. Julian aveva intenzione di stare in casa tutto il giorno a guardare le soap e a giocare con Roscoe. Probabilmente non era nulla, un problema con la fattura, una domanda sulla sua salute. Era troppo presto per i risultati, e quale brutta notizia poteva esserci all’infuori dei risultati? Forse le analisi del sangue avevano mostrato qualcos’altro. Colesterolo. Un cancro all’ultimo stadio.
In tarda mattinata lo chiamò Teddy, per chiedergli se aveva visto Julian. – No, – disse Yale, – ma sono sicuro che sta bene.
– Perché non dovrebbe stare bene? – disse Teddy. – Chiedevo solo se l’hai visto.
Yale avrebbe voluto che Teddy facesse due piú due, che si rendesse conto che Julian preferiva stare con lui piuttosto che soffocare sotto la sua sorveglianza. Avrebbe voluto chiedergli se sapeva che Charlie andava a letto con chiunque come un tossico adolescente.
A mezzogiorno, mezzogiorno spaccato, si avviò verso l’auditorium senza cappotto. Nell’atrio c’erano i telefoni pubblici. Le mani gli tremavano troppo per inserire bene la moneta, troppo per sfogliare con attenzione l’agendina che si era ficcato in tasca. Mentre faceva il numero, si maledisse per aver aspettato fino all’ora di pranzo; probabilmente non avrebbe trovato nessuno. Da qualche parte suonavano la tromba: una musica veloce, agitata, che non lo aiutava.
Ma la segretaria rispose e il dottor Cheng venne al telefono un attimo dopo. – E va bene, ho detto una bugia!
– Prego?
– Ho detto una bugia sul fatto che non avrei chiamato dopo l’ELISA. Lei è negativo.
– Oh, – Yale levitò tra il pavimento e il soffitto. – Come… negativo come?
Il dottor Cheng rise: – Negativo negativo. Non esiste un falso negativo. Il risultato è certo.
Ma rischiava di morire lí, nell’atrio.
– L’avevo vista cosí ne...