L'assemblea degli animali
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L'assemblea degli animali

Una favola selvaggia

  1. 184 pagine
  2. Italian
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L'assemblea degli animali

Una favola selvaggia

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Piena di meravigliose invenzioni, L'assemblea degli animali è una favola che racconta la storia piú urgente del nostro tempo.Il libro che i ragazzi leggeranno agli adulti e che gli adulti leggeranno ai bambini. Un corvo sta volando nel cielo, è in ritardo a un appuntamento importantissimo. Deve raggiungere un luogo segreto che gli animali conoscono dal giorno in cui vengono al mondo; una volta lo conoscevano anche gli umani, ma lo hanno dimenticato. Ci sono tutti, il leone, la balena, l'aquila, il topo... Anche un cane e una gatta. Sono riuniti in un'assemblea perché l'emergenza ecologica non può piú essere ignorata, bisogna salvare la Terra dall'uomo. Per farlo, dopo lunghe discussioni, decidono di inviare un terribile avvertimento: un'epidemia. Ma presto scopriranno che, per salvare la Terra dall'uomo, dovranno prima salvare l'uomo da un male molto piú antico. Narrato dal punto di vista e con la voce degli animali, nella tradizione degli apologhi morali, delle allegorie delle bêtes savantes e dei classici della letteratura antica e moderna, L'assemblea degli animali ha l'appassionante semplicità di una fiaba contemporanea. Ma Filelfo a volte usa «parole non sue» e nasconde tra le righe citazioni letterarie, da Omero a Shakespeare. Sono elencate alla fine, ma tu, lettore, puoi giocare a scoprirle come sassolini nel bosco per ritrovare il sentiero. Perché chi ha dimenticato la propria cultura rischia di dimenticare la natura.«Cantami o musa. No, cantami o muso, di cane, gatto o cavallo, tigre, orso o scimmia, asino, mucca o cammello, l'ira funesta della Terra contro l'uomo. Chi sono io? Chiamatemi Filelfo. Si può credermi? Non ha importanza. Non dico nulla di mio. Ripeto, come nei tempi ai quali con umiltà mi ispiro, parole altrui. Dettate non dalle muse, ma da una progenie altrettanto antica: gli animali. Sono stati loro, abitanti delle foreste, del cielo e dei mari, a parlarmi della natura, dell'anima del mondo, dell'arca che l'uomo ha dentro di sé. Di come ritrovarla. È una storia vera? È un racconto morale, un mito, una fiaba? Giudicate voi. Al nessuno che sono, nell'Anno del Topo, le bestie hanno affidato un messaggio: semi e raccolti, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno - ma solo finché dura la Terra».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
ISBN
9788858434963
Argomento
Literature

Parte seconda

Capitolo I

Gli alleati dell’uomo

Racconta un’antica leggenda babilonese che quando l’uomo e la donna furono cacciati dall’Eden avanzarono tra le schiere immobili di animali come tra le ali di un esercito di statue. Nessuno osò proferire verbo o verso. Tutti sapevano che la trasgressione dell’uomo e della donna, causando l’esilio dal giardino, li aveva condannati per sempre alla legge di natura: nascere, sopravvivere, sopraffare, essere sopraffatti, soffrire, morire. I due bipedi con la testa china, tenendosi per mano, implumi e rosei, i fianchi coperti di foglie, si avviavano verso le porte del paradiso sotto il primo cupo tramonto che vedevano con occhi mortali, e quindi ancora piú bello e struggente e sfuggente perché impermanente. Fu allora, secondo la leggenda, che due quadrupedi balzarono via dalle file silenziose e si unirono a loro.
Erano il cane e il gatto. Avevano preso quella decisione senza sapere perché. Un formicolio alle zampe, un drizzarsi del pelo, uno spasmo alle viscere come quando la luna è piena li avevano spinti sulle orme di quei piedi scalzi. Li seguirono spavaldi a pochi passi di distanza. Il cane scodinzolava senza imbarazzo davanti agli sguardi severi degli altri animali allineati sull’erba acerba o sui rami fioriti. Il gatto teneva la coda gonfia e dritta come un pennacchio, conferendo una certa solennità al corteo della strana nuova famiglia che si allontanava.
Ma, ci si potrebbe domandare, che cosa avevano fatto di sbagliato l’uomo e la donna per essere cacciati cosí ignominiosamente dal giardino? Su questo punto le versioni divergono. Secondo una variante del mito, la loro colpa era stata rubare il frutto proibito – mela, fico, melagrana? – dell’albero della conoscenza. Mangiandolo avevano conosciuto il segreto del bene e del male e di qui il castigo. Ma come avrebbe potuto un frutto nato dalla perfezione che allora governava la natura avere in sé qualcosa di proibito? E soprattutto, le specie animali, incluso l’uomo, non possedevano già la conoscenza? Non sapevano già distinguere il bene dal male? Non avevano continua memoria di questa opposizione, che governa l’universo? E come potrebbe essere una colpa, il conoscere?
Forse la tara originaria dell’essere umano non era la conoscenza, ma, al contrario, la dimenticanza. E non veniva dal frutto dell’albero ma dall’acqua, che non può essere contenuta in nessun vaso, di un ruscello chiamato Lete, che scorreva lí sotto, al quale la donna e l’uomo avevano bevuto. Questo li aveva resi diversi dagli altri animali, che si erano guardati dall’abbeverarsene, mentre gli umani avevano trasgredito al loro istinto.
Non vi è sciagura piú grave della dimenticanza. L’uomo, assaggiata quell’acqua, aveva perso nozione del suo stato. Aveva cominciato a considerarsi umano, ossia un animale che però è altro dall’animale. A poco a poco aveva dimenticato tutto ciò che le bestie ricordavano e ricordano ancora dell’abissale passato, delle ère, delle glaciazioni e dei disgeli, dei diluvi e dei terremoti, del ricorso delle comete e dello schianto dei meteoriti, dell’emersione delle terre, del loro sussultare e plasmarsi in continue metamorfosi. Aveva smarrito memoria dell’aggregarsi e coagularsi di acqua, aria, terra e fuoco in composti mutevoli, come il caglio fissa e lega il bianco latte, o in India il sacro ghī. Avevano dimenticato la mescolanza e quella separazione di cose mescolate che dagli umani è chiamata nascita.
Solo nei sogni l’uomo avrebbe avuto frammenti di visioni delle vite precedenti, dello stato di pietra, cristallo, larva, insetto, uccello nel cielo, tigre nella foresta, grande albero in Asia, pesce muto che guizza dal mare. Ma avendo perso il ricordo di tutti i linguaggi della natura, delle sue regole, delle sue maniere, dei suoi divieti, delle sue connessioni, delle sue rotte, dei suoi indirizzi segreti, e non possedendo né memoria né prescienza, non conosceva le conseguenze remote dei suoi atti. Non era e non sarebbe stato in grado di distinguere il ciclo delle reincarnazioni, traendone insegnamento. Né era o sarebbe stato in grado – salvo rare eccezioni – di profetare né di vedere ciò che sarebbe stato. Oltre al passato aveva dimenticato anche il futuro. Dotata di postura eretta e di pollice opponibile, questa scimmia nuda era condannata a un’illusoria e miope attività di pianificazione e previsione, che serviva solo i propri aneliti momentanei e individuali, scissi dall’unico grande palpito di desiderio cui tende il ciclo della natura, in cui ogni cosa muore d’amore per l’altra.
Ma il cane e il gatto avevano adottato l’uomo, anche se lui ancora oggi pensa l’inverso e non comprende perché, ogni volta che guarda nei loro occhi, trae una sensazione di pace. – Ricordi? – dice lo sguardo, – noi eravamo con te quel giorno. Nei secoli veglieremo su di te, ti ricorderemo il tuo lignaggio animale. Ci farai dio egizio, santo levriero, esile sacerdotessa tigrata. I tuoi profeti si taglieranno la veste per non disturbare il nostro sonno. Abiteremo i tuoi templi e i tuoi fori, saremo compagni di maghi e taumaturghi, dormiremo tra i tuoi libri e i tuoi alambicchi, perpetueremo con te la misericordiosa superfluità del gioco. Mendicheremo con te il pane agli angoli delle strade, la nostra effigie campeggerà sui vessilli dei tuoi re e nelle insegne delle locande del popolo. Dalle grandi sale dei tuoi castelli agli angoli piú bui dei focolari delle tue capanne ci sentirai ansimare e fare le fusa, vedrai il nostro sguardo seguirti.
Anche se da allora in poi l’inclinazione dell’umanità fu una perpetua e irrequieta brama di potere dopo potere, onore dopo onore, ricchezza dopo ricchezza, che cessava solo con la morte, il cane e il gatto non rinnegarono mai la loro scelta. Sapevano che gli uomini non trovano la felicità in una condizione di pace mentale, il sommo bene di cui parlano gli antichi filosofi, ma al contrario in un continuo scorrere del desiderio da un oggetto all’altro. La conquista del primo non fa che aprire la via al successivo, cosicché, accecati dal loro tornaconto, sono destinati a desiderare senza tregua a costo di distruggere gli altri e alla fine se stessi. L’anima degli animali è piú felicemente disposta al formarsi della virtú. A differenza che per l’uomo, per le bestie il bene comune non è diverso da quello dei singoli. Spinte per natura a cercare il bene privato, procurano il bene di tutti.
Il cane e il gatto conoscevano le tenebre che avvolgono il cuore dell’uomo da quando il germe della dimenticanza lo aveva offuscato e allontanato dagli altri animali finendo per renderlo il loro oppressore. Ma adesso la decisione dell’assemblea, lo stratagemma del topo, la peste diffusa dal pipistrello, la calamità, l’emergenza, il terrore avrebbero obbligato la specie umana a una scelta: ricordare o perseverare nell’ignoranza rischiando di distruggere non solo la propria specie ma la terra intera. Per questo MoMo e la gatta bianca erano corsi cosí veloci verso le loro case.
Capitolo II

La grande quarantena

Aprí gli occhi all’improvviso. La luce invadeva la stanza, era mattina inoltrata. Si allungò tutta sul letto e fece silenziosamente i suoi esercizi di stretching. Non percepiva alcun rumore, né di colazione né di traffico. Curioso, si disse. Ancora piú curioso che lui, accanto, stesse dormendo. Non avrebbe dovuto essere a scuola? Si alzò agilmente e si affacciò alla finestra. Il viale alberato lungo il fiume era deserto. Sui rami dei platani, tra i primi germogli, poteva distinguere con nitidezza una moltitudine di sagome di piccoli uccelli, e l’insolita varietà dei loro versi la confondeva. Decise che avrebbe ragionato meglio a stomaco pieno. Scivolò silenziosa verso la cucina. In quel momento sentí aprirsi la porta della camera da letto grande, la piú fresca d’estate, e le sbarrarono il passo due caviglie che davanti a lei parvero quelle colossali di una statua di Iside patrona dei gatti, non fosse che si facevano strada, con la goffaggine tipica dell’andatura umana, sul suo tappeto da manicure felina preferito. Poteva resistere a tutto ma non alle tentazioni. Per tre volte affondò le unghie e le ritrasse velocemente provando il piacere acuto che il perfezionismo elargisce ai suoi adepti. Poi in un lampo raggiunse la donna.
Il grande schermo nero si animò prima ancora che si alzasse l’odore del caffè. Un rimbombo concitato svegliò il resto della casa e ne raccolse i tre abitanti intorno al tavolo vuoto, gli occhi spalancati davanti ai filmati che scorrevano. La gatta bianca si arrotolò con destrezza sul bordo estremo della credenza e cominciò a lavarsi con aria indifferente. È questo da sempre il trucco che i piccoli felini adottano per non tradire le loro emozioni e passare inosservati mentre si concentrano intensamente su qualcosa fingendo di fare altro.
Dunque, si disse, era cominciata. Man mano che il sole fuori avanzava, e che nell’ombra della casa le immagini si scomponevano e ricomponevano sui visori grandi e piccoli dei vari congegni che gli esseri umani usano per trasmetterle a distanza, avendo perduto il dono di comunicarle col pensiero come gran parte degli animali tra cui i gatti, qualcosa di impercettibilmente diverso dal solito prese a vibrare intorno a loro come un’aureola. Non era timore, non era stupore, come si sarebbe aspettata. Era euforia.
Gli uomini credono che gli animali non decifrino il loro linguaggio. Non è cosí. La gatta bianca comprendeva e soppesava ogni parola. Al figlio non pareva vero di non andare a scuola. La madre aveva annunciato che non sarebbe tornata in ufficio ma avrebbe potuto lavorare da casa. L’uomo le rivolgeva parole affettuose. Le sue giornate non sarebbero cambiate, ma tutti avrebbero potuto concedersi almeno due ore di sonno in piú ogni mattina e di sera guardare fino a tardi la tv come fosse sempre la vigilia di un giorno di festa. Il piú giovane neanche ascoltava, preso dai continui scampanellii, ronzii, tamburellii e fruscii che facevano sobbalzare il suo cellulare. Lo sguardo obliquo della gatta sorvegliava lo scorrere vertiginoso di frasi, foto, link e commenti disseminati di faccine gialle.
Quando l’uomo tornò sovraccarico di buste della spesa era quasi ora di cena. Lei ne approfittò per scivolare sul ballatoio e da lí guadagnare la grondaia. Sono due le ragioni principali per cui i gatti frequentano i tetti: avere la visuale piú ampia possibile e raccogliere informazioni. Si dice che ciascun gatto abbia tre nomi: quello con cui viene al mondo, quello che gli dànno gli umani e un terzo nome segreto. I primi due servono a identificarlo, rispettivamente, tra i suoi simili e nella società degli uomini, il terzo ad accreditarlo presso le altre specie animali (e, in certi casi, anche vegetali), quali appunto i numerosi pennuti che si incrociano sulle cime dei palazzi.
La gatta bianca guadagnò la torretta irta di antenne arrugginite di vecchi televisori, reclinate e intrecciate come ossa in un cimitero di belve, e invasa dalle parabole cresciute come giganteschi funghi velenosi in un bosco pietrificato. La prima cosa che notò fu che non era presidiata come al solito dal bieco gabbiano di guardia, enorme organismo mutante che dell’uccello marino conservava ormai solo il grido sgraziato. Con l’andare degli anni aveva allenato l’udito a ignorarlo, per non farsi sfuggire i sempre meno numerosi messaggi degli uccelli piú piccoli. Ma non fece in tempo a dirsi altro che oltre il bordo della torretta si spalancò la visione.
La grande città si dominava quasi tutta dalla cima della casa – il che non era estraneo alla scelta di farsi accudire dai suoi inquilini, se pure senza impegno e conservando la sua libertà di movimento, indipendenza di giudizio, licenza di lunghe sortite non annunciate e peraltro mai particolarmente notate da quel distratto nucleo umano. I rumori della città in genere salivano fin lassú, solo un po’ attutiti, insieme all’odore del fumo delle automobili che brulicavano nei viali lungo il fiume attraverso i ponti e fino alle strade laterali, spartendosi come una colonna di formiche, arrotolandosi intorno alle piazze come una colonia di lombrichi, scalando e scavalcando i colli, senza diradarsi, ma anzi infittendosi nelle tangenziali e riversandosi nelle periferie per poi confluire in parte nelle arterie suburbane. Un unico getto di metallo pervadeva d’abitudine la grande città in ogni suo capillare. Ma adesso quel sistema circolatorio era completamente sgombro. Solo il soffio del vento e la luce scarlatta del sole scorrevano come sangue fresco, pulito, nelle sue vene.
Notò un piccolo stormo di rondini planare dal fiume verso la sua postazione, lente, composte e pettegole come suore. Quando le salutò gentilmente e domandò loro che nuove portassero, fu tutto un accavallarsi e un rincorrersi di cinguettii. Gli umani erano imprigionati nelle loro case, in ogni quartiere della città, annunciò una. Gli uffici, le scuole, i bar, i negozi erano chiusi, tranne quelli di medicine e alimentari e fortunatamente i negozi di cibo per animali. Lo erano in tutte le città, e non solo di quella regione, aggiunse un’altra, che lo aveva saputo da una cinciallegra in transito. Non c’era bisogno di interpellare i migranti, la rimbeccò una terza: in quel silenzio bastava ascoltare i segnali delle colonie di uccelli che di ramo in ramo, di tetto in tetto, di traliccio in traliccio avevano cominciato a trasmettere le nuove, sconvolgenti, esclusive notizie da tutta la terra.
Furono interrotti, e questo sorprese anche la gatta, cosa che avveniva di rado, da un suono che si alzava dai balconi intorno. Era musica. Gli umani chiusi nelle loro gabbie stavano cantando proprio come gli uccelli. O, meglio, come uccelli in gabbia.
Capitolo III

Ne moriranno migliaia

MoMo, pur non leggendo i giornali, sapeva che guai si stavano preparando. Il suo udito pareva essersi sviluppato esageratamente, cosicché non solo riusciva a intercettare le cronache trasmesse in tempo reale dall’ansimo del suo amico labrador due vie piú in là come se lo avesse sotto il muso, ma coglieva notizie in diretta da ogni ringhio, abbaio, uggiolio, mugolio, guaito, latrato o ululato di ogni cane di grandi o piccole dimensioni, forte o fragile muscolatura, lungo o corto pelo a partire dal quartiere in cui viveva fino a chissà dove. Vox Canis, Vox Dei: il contagio era arrivato. Ma il primo segno concreto del grande mutamento fu, appena sceso in strada, il desiderio irrefrenabile, e infatti non lo frenò, di starnutire. Cacciò con insigne veemenza e grande scuotimento di tutto il corpo uno starnuto squassante, demonico, panico, come gliene uscivano quando il suo padrone gli spalancava la portiera della macchina appena arrivavano in spiaggia in un limpido giorno di maestrale. Poi un altro e un altro ancora, tanto che si domandò, scrollandosi perplesso, se non avrebbe passato il resto dei suoi giorni a starnutire. Ma no, semplicemente l’aria era pulita perché le auto erano ferme. Di qui anche la portata dei suoni che nel silenzio della città penetravano le sue orecchie tese di pastore.
Faticò a ricomporsi e a darsi un minimo di contegno, tanto che subito fuori dal portone scialacquò maldestramente una metà abbondante del prezioso fluido in genere razionato per gli abituali disegni di conquista del territorio. Con coscienza piú lucida, il muso basso a fiutare ogni pista investigativa del fondo stradale, puntò la piazza. Sembrava una scacchiera i cui pezzi fossero stati concepiti dalla mente folle di un allevatore inglese maniaco degli incroci. Dislocate a regolari intervalli intorno ai lampioni le poche presenze erano figure ibride come centauri, se non licantropi: coppie uomo cane e cane donna in posa nei loro riquadri come concorrenti senza pubblico di un’improvvisata esposizione antropocanina. Sembrava a MoMo che non esistessero piú cani perduti senza collare, quasi che si fosse avverata una grande utopia. Inoltre, mentre i cani secondo abitudine si avvicinavano l’uno all’altro il piú possibile, la componente umana si manteneva a rigida e diffidente distanza sociale, dando alle effusioni di segugi e meticci, levrieri e bassotti, mastini e barboncini parecchio filo di guinzaglio da torcere.
E si poteva notare come non fossero i padroni a portare a passeggio i cani, ma il contrario. Difficile descrivere un tale ribaltamento di prospettiva. Come diceva quel francese, si crede di dover portare fuori il cane a mezzogiorno e a sera per i suoi bisogni corporali, ma è un grave errore: sono i cani che ci invitano due volte al giorno alla meditazione. In effetti non è mai chiaro, nelle rodate abitudini e negli itinerari prestabiliti che accomunano uomini e cani a passeggio, chi guidi e chi segua. È di solito un’impresa in cui il comando viene equamente suddiviso: il cane detta il percorso, l’uomo i tempi, ma può accadere che l’uomo cambi tragitto a capriccio o che il cane rivendichi per sopraggiunte esigenze pause piú lunghe. Adesso era tuttavia evidente che l’equilibrio di quell’accordo vacillava e il cane aveva conquistato il maggior peso cosicché l’uomo gli aveva conferito pieni poteri. La conferma arrivò al crocicchio della fontanella, quando ebbe uno scambio ravvicinato e assolutamente non spiacevole con una border collie, da sempre le piú affidabili per via di quel loro indomito cuore scozzese, che nell’occasione gli confidò le ultimissime.
A quanto pareva, i soli umani autorizzati a uscire di casa erano i possessori di cani, tenuti in quanto tali a esibire alle ronde di polizia legittimo titolo di proprietà. Si mugolava addirittura – ma forse era una boutade – che fossero già comparse tariffe orarie di noleggio canino, per dare la possibilità di fare due passi agli stolti sprovvisti di cane proprio. In altre parole, i cani erano i soli cittadini di cui non fossero stati calpestati, protestavano alcuni umani, i diritti costituzionali, in primis la libertà di circolazione. A MoMo vennero in mente quei cartelli umilianti affissi alle vetrine dei negozi, con un cane barrato e la scritta «Io resto fuori», e vi lesse ora una beffarda rivincita della sua specie.
Quando il pomeriggio declinò e la luce si fece radente, dalle case si alzarono le note dell’inno nazionale e, poco dopo, un applauso. Le finestre e le terrazze esponevano bandiere. MoMo non ne aveva mai viste sventolare tante, neanche per le feste nazionali o le vittorie ai campionati mondiali di calcio. Quanto al battimani, non comprese lí per lí a chi fosse rivolto: ai cani? Ai padroni di cani? O a qualcun altro in quel momento in strada? Ma passavano, anzi sfrecciavano ululando, solo i furgoni bianchi con su la croce rossa, lacerandogli le orecchie che cercava di abbassare il piú possibile, e poi ogni tanto, piú lente, le camionette lampeggianti della polizia. A chi fosse destinato l’applauso partito quel giorno, che la folla affacciata alle finestre ne fosse già o non ancora consapevole, MoMo lo avrebbe, purtroppo, realizzato presto.
Dal giorno successivo lo stato delle cose cambiò ancora piú radicalmente. Quello che l’uomo chiama stile di vita, ma che in realtà spesso subisce come se non fosse libero di scegliere, per il cane non è né scelta né schiavitú, ma un’educazione naturale. Nessun metodo, nessun esercizio umano possono eguagliare la naturalezza di un cane nello stare sempre sul chi vive. Che cos’è un corso di storia o filosofia o poesia, per quanto ben scelto, o cosa sono la migliore frequentazione o la piú ammirevole pratica di vita, di fronte alla disciplina di guardare sempre ciò che deve essere veduto, fiutare ciò che deve essere annusato, fare ciò che deve essere fatto? L’uomo l’aveva dimenticata e il cane, per quanto gli stesse accanto, non era mai riuscito del tutto a ricorda...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’assemblea degli animali
  4. Parte prima
  5. Parte seconda
  6. Fonti e commenti bibliografici
  7. Il libro
  8. L’autore
  9. Copyright