Mi prendo il mondo ovunque sia
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Mi prendo il mondo ovunque sia

Una vita da fotografa tra passione civile e bellezza

  1. 288 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Mi prendo il mondo ovunque sia

Una vita da fotografa tra passione civile e bellezza

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Letizia Battaglia, la fotogiornalista italiana piú famosa e premiata al mondo, racconta per la prima volta e in prima persona senza censure la sua vita. È la biografia di una donna che ha trovato il coraggio di combattere per conquistare se stessa. La fotografia è la scintilla che fa brillare la stella nel suo cielo, dentro la camera scorre la pellicola di libertà con cui rivoluzionerà il significato delle immagini nel racconto di cronaca e, soprattutto, la sua vita. Un libro profondo, sincero e appassionante, in cui la sua storia, di donna e fotoreporter, s'interseca con la Storia di Palermo, insanguinata dalla guerra di mafia. Sabrina Pisu, coautrice del volume, ricostruisce e analizza gli scenari socio politici e gli esiti giudiziari di quella stagione in cui Letizia Battaglia ha avuto un ruolo di primo piano, come grande e coraggiosa testimone, impegnata per costruire una società piú giusta.

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Informazioni

Parte seconda

L’orrore e la bellezza

di Sabrina Pisu

Il documentarismo lirico di Letizia Battaglia

«Ma perché non buttò tutto via in quel momento? Forse perché voleva poterselo riguardare. Forse perché per lei significava qualcosa. Qualcosa? O molto? O forse tutto»1. Queste parole della scrittrice britannica Penelope Lively, nel suo romanzo La fotografia, rispecchiano molto il significato che la fotografia ha avuto nella vita di Letizia Battaglia. Ha significato «forse tutto» perché è stato il motore di un cambiamento personale e, nella visione e nell’uso fatto da Letizia Battaglia, anche politico e sociale.
Nell’era della fotografia digitale e della manipolazione e del ritocco dell’immagine, la fotografia come testimonianza di verità acquista, se possibile, ancora piú valore. In un’epoca in cui la fotografia si allontana dalla realtà attraverso la sua alterazione, la vicinanza al mondo, al suo orrore e alla sua bellezza, della camera di Letizia Battaglia, tanto vicina da poterlo prendere a “cazzotti” o “accarezzarlo” il mondo, ci restituisce fiducia nella fotografia, nel suo ruolo documentaristico, nel suo valore sociale, del «fotografare» che, come scriveva Susan Sontag, «significa appropriarsi della cosa che si fotografa, stabilire con il mondo una relazione particolare che dà una sensazione di conoscenza e quindi di potere»2.
«Nel regno del digitale, in cui ogni immagine è un mosaico malleabile, la distanza è ingrandita. La fotografia, non piú automaticamente un meccanismo di registrazione, non è tanto capace di “appropriarsi della cosa che si fotografa” quanto di simularla. Forse, nell’era dell’immagine, il rapporto con il mondo che essa propone non è di conoscenza o potere, ma qualcosa che assomiglia alla vanità»3, scrive Fred Ritchin, uno dei personaggi piú importanti del mondo della fotografia, dal 2017 decano emerito del prestigioso International Center of Photography di New York (Icp), fondato nel 1974 dal fotografo Cornell Capa. Fred Ritchin, fino al 2014 docente di Fotografia e Imaging alla New York University, è stato uno dei demiurghi del riconoscimento nazionale e internazionale del lavoro di Letizia Battaglia.
«Oggi, nell’era digitale, la fotografia è meno credibile come testimone e non ha quell’urgenza morale che si trova nelle immagini di Letizia Battaglia»4, mi dice Ritchin che nel 1985 era il presidente della giuria che selezionò Letizia Battaglia come vincitrice, insieme a Donna Ferrato, del premio organizzato da The W. Eugene Smith Grant in Humanistic Photography: un sostegno complessivo di 15 000 dollari per continuare il lavoro fotografico in ambito sociale, stanziato in memoria di Eugene Smith, che era morto in povertà nel 1978 a 60 anni, uno dei maggiori fotonarratori e documentaristi dell’ultimo secolo, quello che «lottava per realizzare l’assoluto»5, come ha sintetizzato con grande efficacia il curatore Urs Stahel.
Il portfolio di Donna Ferrato, che presentava un progetto in cui documentava in presa diretta l’orrore della violenza domestica, gli abusi negli Stati Uniti dei mariti sulle proprie mogli, spesso davanti ai figli, era molto ben organizzato e presentato in un volume6. Il lavoro di Letizia Battaglia arrivò cosí: una scatola con una pila di fotografie in bianco e nero con didascalie scritte a mano in italiano. «È stato il fotografo Pedro Meyer – membro della giuria insieme alla photo editor americana Sandra Eisert – che, essendo messicano, ci aiutò a leggere e capire il contenuto delle didascalie», racconta Fred Ritchin ricordando quell’edizione del premio, vinto in passato da fotografi come Eugene Richards e Sebastião Salgado e che per la prima volta nella storia, e non senza portarsi dietro qualche critica, venne attribuito a due persone, due fotografe. In quei tempi il lavoro di Letizia Battaglia, anche se pubblicato su diversi giornali, era ancora poco riconosciuto. Sia lei che Franco Zecchin non avevano ancora avuto la visibilità e l’apprezzamento che meritavano. «È stato un momento straordinario quando abbiamo deciso di conferire il premio a queste due fotografe. Il lavoro di Letizia Battaglia mi ha subito colpito», racconta Fred Ritchin, «perché rappresenta una coraggiosa, impegnata, potente testimonianza del male. Letizia Battaglia è una fotografa con un’energia incredibile e un grande senso morale per discernere il bene dal male e condannare quello che è sbagliato. Una fotografa con uno sguardo poetico, in grado di comprendere la sofferenza e con una profonda capacità di entrare in empatia con le persone, cogliere il dramma nella vita quotidiana, nel teatro della strada». Letizia Battaglia occupa un posto unico nella fotografia di genere documentaristico e giornalistico per il forte impegno sociale, per il suo approccio militante, mosso dal caparbio convincimento che si possa costruire un mondo diverso: «È una documentarista lirica, interessata alla gente comune, e una grande femminista. Una persona forte, inarrestabile, che ha deciso da sola di aiutare la società a costruirsi un futuro migliore». Fred Ritchin vede gli antecedenti di Letizia Battaglia in Lewis Wickes Hine e Jacob Riis. L’americano Lewis Wickes Hine è stato uno dei grandi maestri della fotografia sociale. Sono sue le fotografie degli operai sospesi nel vuoto, sulle travi dell’Empire State Building in fase di costruzione nel 1931, con New York che sfuma all’orizzonte, tra le immagini-icona del secolo scorso. Per Lewis Wickes Hine la fotografia è stato uno strumento di conoscenza e denuncia sociale e politica, le sue immagini da lui stesso definite «documenti umani» sono servite per mostrare il prezzo umano pagato in nome delle promesse tradite dello sviluppo della società industriale e il dramma dello sfruttamento minorile. Le immagini dei bambini ripresi all’interno e all’esterno delle fabbriche aprirono gli occhi a una America che faceva finta di non sapere, stimolando il dibattito politico per l’approvazione di leggi a protezione dei minori. Jacob Riis, emigrato negli Stati Uniti e d’origine danese, giornalista di cronaca nera a New York prima al «Tribune» e poi a «The Evening Sun», indagò le condizioni di vita degli emigrati – una condizione che aveva vissuto in prima persona – che spesso vivevano in miseria. Divenne famoso per il suo fotoreportage sugli slums newyorkesi, How the Other Half Lives: «la luce accecante rivela con impietosa minuzia i sordidi interni, ma illumina quasi con tenerezza i visi delle persone condannate a viverci dentro. Guardò sempre con simpatia la gente, sia che fotografasse i ragazzi di strada arabi che rubavano da un carretto, o gli abitanti del vicolo noto come “Bandits’ Roost” (Covo dei banditi) che fissavano con arroganza l’apparecchio dalle porte, dai balconi, dalle finestre. Queste fotografie sono importanti non solo come fonte di informazione, ma anche per la loro forza emotiva. Sono nello stesso tempo interpretazioni e testimonianze; pur non essendo piú attuali, hanno qualità che dureranno fintanto che l’uomo si interesserà dei suoi fratelli»7.
Fred Ritchin riconosce, tuttavia, nel lavoro di Letizia Battaglia anche peculiarità espressive proprie della sua terra: «È anche una fotografa molto siciliana, con una sua poetica del bene e del male, della Chiesa, della mafia, del governo della città, e tutto illuminato da una luce siciliana molto particolare. È importante che il suo lavoro sia stato fatto in bianco e nero, non a colori, perché emerge una sorta di chiaroscuro che contiene al suo interno le dimensioni morali del bene e del male, di quello che è giusto e sbagliato». Fred Ritchin intravede nelle fotografie di Letizia Battaglia anche la lezione del Neorealismo italiano: «Lei si pone nella tradizione di fotografi come Enzo Sellerio che ha saputo usare la luce in modo differente e ha saputo cogliere il dramma nella vita quotidiana. Non sarei, inoltre, sorpreso di vedere Anna Magnani spuntare da una delle sue fotografie», dice sottolineando come sia stato «un senso di urgenza morale a muovere non solo la sua attività di fotografa, ma anche quella politica e la sua solidarietà nei confronti delle donne, dei giovani e degli anziani che cercano di sopravvivere e persino prosperare in un ambiente difficile». Neorealistica, guardando soprattutto al cinema, è anche la definizione che la stessa Letizia Battaglia dà della sua fotografia, un realismo che per Roberto Rossellini è «la forma artistica della verità», un’opera, il film nel suo caso, «che pone e si pone dei problemi» o come diceva Vittorio De Sica che ha la capacità di «rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane»8.
Il Neorealismo ha avuto una sua espressione non solo nel cinema ma anche nella fotografia. «Sono un fotografo d’intelligenza», diceva di sé Enzo Sellerio, editore, autore e uno dei maestri della fotografia neorealista italiana. Convinto che «un fotografo sia uno scrittore che si esprime per mezzo di immagini»9, come raccontano i suoi scatti, uno tra tutti la Fucilazione nel quartiere della Kalsa nel giorno dei morti, fatto a Palermo nel 1960, dove un gruppo di ragazzini del quartiere giocano a formare un plotone di esecuzione fucilando per finta un coetaneo. Sono tanti i bambini nelle sue fotografie ritratti nel momento del «gioco che è la forma in cui la vita dovrebbe essere vissuta»10. E la vita vissuta era, anche, quella delle esecuzioni a Palermo, città che lui definiva «senza scheletro», chiedendosi come facesse a camminare: «In questo senso è un luogo miracolato»11, diceva.
Palermo, una città ferita come la Roma di Pina, interpretata da Anna Magnani in Roma città aperta – capolavoro di Roberto Rossellini del 1945 –, popolana e madre come le donne ritratte da Letizia Battaglia nei luoghi della povertà. Donne che restano aggrappate ai figli dentro il letto di una stanza buia in pieno giorno, donne stanche, come quella seduta su una sedia con lo sguardo perso nel vuoto e con addosso i suoi bambini, il piú piccolo con il dito fasciato perché rosicchiato da un topo durante la notte, mentre lei dormiva, vinta dalla stanchezza non lo aveva sentito piangere. Donne che soffrono ma che, anche quando mostrano le lacrime, conservano la fierezza e la forza del loro essere donne, e madri che devono sfamare, proteggere i figli.
«Francesco, Francesco»: la voce e la corsa di Anna Magnani, il suo braccio alzato, il corpo che cade, i colpi dei fucili nazisti come l’orrore della mafia, una madre disperata a terra come quelle che vedono uccisi i figli dalla ferocia di Cosa Nostra sotto i propri occhi. Palermo «amore amaro», come lo definisce Fred Ritchin, è il racconto che si snoda nelle immagini di Letizia Battaglia, come sequenza, quasi, di un’unica pellicola.
Le fotografie hanno sempre stratificazioni di significati che cambiano, non sono gli stessi e ovunque e per tutti, e non è l’autore a poterli definire, non completamente. È stato proprio nel corso del suo viaggio a Palermo per presentare Letizia Battaglia come vincitrice del Premio Eugene Smith che Fred Ritchin ha avuto la conferma che la fotografia non è un linguaggio universale, che è solo un mito considerarla capace di essere interpretata nello stesso modo e da chiunque. È vero, invece, il contrario, la sua interpretazione cambia a seconda della cultura dei Paesi e degli individui. «Nel corso di un incontro pubblico durante la mia visita a Palermo», racconta Fred Ritchin, «ho mostrato fotografie in bianco e nero di Sebastião Salgado, il fotografo brasiliano, del suo lavoro nella regione dell’Africa del Sahel dove negli anni Ottanta morirono migliaia di persone a causa di carestia e malattie. Prima di iniziare il mio discorso, ho suggerito ai genitori con bambini di uscire, per la durezza di alcune fotografie. Nessuno abbandonò la sala. Dopo, chiesi alle persone cosa ne pensassero. La risposta fu che quelle fotografie dei morti non le avevano infastidite, perché erano abituate a vedere corpi di persone uccise per la strada. Ma erano rimaste invece molto turbate dalle fotografie delle persone ammassate nei campi per i rifugiati, che non avevano mai visto prima. Quella è stata la riprova che le risposte alle fotografie possono essere molto diverse nel mondo. Non significano la stessa cosa».
Per la fotografia vale, forse, lo stesso discorso che il romanziere e saggista Maurice Blanchot faceva per la letteratura, ovvero che l’opera, una volta realizzata, risponde solo a se stessa, completandosi o acquistando un significato solo nell’incontro con chi la vedrà, la leggerà. E quindi possiamo dire, parafrasando Maurice Blanchot, che la fotografia è sempre «a venire». Come ha scritto Susan Sontag: «Le intenzioni del fotografo non determinano il significato della fotografia, che avrà vita propria, sostenuta dalle fantasie e dalle convenzioni delle varie comunità che se ne serviranno»12.
Le fotografie di Letizia Battaglia escono da Palermo e invadono lentamente il mondo, partendo proprio dagli Stati Uniti dove Melissa Harris, senior editor della rivista «Aperture», storico trimestrale di fotografia americano, rimase sopraffatta vendendo alcune sue immagini pubblicate su «The New York Times Magazine», in riferimento al Premio Eugene Smith che le era stato conferito. «Nell’estate del 1993 ho incluso un capitolo dedicato a lei nel numero 132 della rivista “Aperture”, e le sue immagini nella mostra correlata aperta alla Peggy Guggenheim Collection di Venezia e poi portata a New York, dedicata alla fotografia italiana e intitolata Immagini Italiane. Le ho scritto poi, chiedendole se poteva farmi vedere altre fotografie, poiché volevo proporre un libro al direttore ed editore della Fomdazione Aperture dell’epoca, Michael Hoffman, cosí come al team editoriale. Letizia mi ha risposto, dopo qualche giorno, dicendo solamente che le sembravo una ragazza molto simpatica ma senza fare nessun riferimento alla mia proposta. Alla fine, decisi di conoscerla e sono andata a Palermo. Abbiamo preso un caffè insieme e ho pensato che fosse meravigliosa! Non mi ha mostrato nemmeno una fotografia. Sono tornata a New York». Due settimane dopo Melissa Harris ricevette una grande scatola piena di immagini con il «lavoro bruciante, intenso, straziante di Letizia», fotografie con «un’esplosione di coraggio, intensità, passione e impegno» che hanno commosso e commuovono ancora Melissa Harris. Le immagini di Letizia Battaglia sono state importanti negli Stati Uniti dove il cinema ha contribuito a diffondere quella che Melissa Harris definisce una «visione romantica»13 della mafia, a partire da Il padrino, la saga mafiosa scritta da Mario Puzo nel 1969, diventata una trilogia per il cinema diretta da Francis Ford Coppola con 9 Oscar in totale vinti. Nella pellicola del 1972 Marlon Brando ammaliava il pubblico con la figura di don Vito Corleone che, come disse lo stesso regista Coppola: «suscita simpatia perché non lo vedi mentre commette crimini. Se lo avessero visto mentre uccide, non sarebbe stato cosí amato»14.
A questo immaginario si oppongono le fotografie verità di Letizia Battaglia che «trasmettono il dolore, la violenza e l’oppressione con chiarezza vivida e inconfutabile», dice Melissa Harris. Letizia Battaglia è ormai riconosciuta ovunque nel mondo come una delle piú grandi narratrici per immagine del Novecento, per la sua capacità unica di sintetizzare l’inferno e la speranza, di Palermo e la sua. Ogni fotografia racconta una storia, sono immagini con una terza dimensione che è il racconto della lotta tra il bene e il male, la sua non è una fotografia muta, ma una fotografia che grida. Non sono immagini frutto del caso, o della fortuna, come minimizza sempre lei, perché come scrive lo storico americano della fotografia e curatore Newhall Beaumont: «la fortuna aiuta spesso i fotoreporter, ma le fotografie di attualità che fanno colpo non sono mai accidentali»15.
Non solo la denuncia della guerra di mafia nella sua produzione, come lei stessa ha ra...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Questo libro. di Sabrina Pisu
  4. Una premessa. Picchí idda?. di Letizia Battaglia
  5. Mi prendo il mondo ovunque sia
  6. Parte prima. Mi prendo il mondo ovunque sia. di Letizia Battaglia
  7. Parte seconda. L’orrore e la bellezza. di Sabrina Pisu
  8. Apparati iconografici
  9. Il libro
  10. Le autrici
  11. Copyright