Cosa ricordo di lui…
Molte cose, naturalmente. È ovvio, visto che abbiamo vissuto sotto lo stesso tetto, tutti i giorni, in una casa piuttosto piccola, da quando sono nato fino a quando sono andato ad abitare per conto mio, a diciott’anni. E, come succede nella maggior parte dei casi tra padre e figlio, abbiamo avuto momenti belli e momenti difficili. Quelli che però mi tornano in mente con piú forza, chissà perché, non sono né i primi né i secondi, ma piuttosto episodi banali, che non hanno nulla di straordinario.
Questo, ad esempio.
Quando vivevamo a Shukugawa (nel comune di Nishinomiya, prefettura di Hyōgo), un giorno lui e io andammo in bicicletta fino alla spiaggia per abbandonare un gatto; non un gattino: una femmina già cresciuta. Ora non so piú per quale motivo avessimo preso quella decisione. La nostra casa aveva un giardino abbastanza grande da permetterci di tenere un gatto. Può anche darsi che fosse una randagia venuta a stabilirsi da noi, finché i miei genitori scoprirono che era incinta e si dissero che occuparsi dei gattini sarebbe stata una gran seccatura. I miei ricordi sono molto vaghi. A quell’epoca, al contrario di oggi, liberarsi di un gatto era una cosa normale che non attirava nessuna critica. E l’idea di farlo sterilizzare non era nemmeno concepibile. Dev’essere successo verso la metà degli anni Cinquanta, perché io frequentavo la prima o la seconda elementare. Le devastazioni provocate dalla guerra erano ancora visibili, vicino a casa nostra c’erano le rovine di una banca bombardata dagli americani.
Ad ogni modo, un pomeriggio d’estate partimmo per andare ad abbandonare quella gatta.
La mettemmo in una scatola che tenevo io, seduto dietro sul portapacchi della bicicletta, mentre mio padre pedalava. Seguendo la strada lungo il fiume Shukugawa arrivammo alla spiaggia di Kōroen, che distava da casa nostra forse due chilometri, posammo la scatola fra alcuni alberi e ripartimmo senza quasi voltarci indietro. A quei tempi la costa non era stata ancora invasa dal cemento, alla spiaggia di Kōroen c’era molta gente e si poteva fare il bagno. L’acqua era pulita, e durante le vacanze estive ci andavo anch’io quasi tutti i giorni a nuotare con gli amici. A quel tempo i genitori non ci trovavano nessun motivo di preoccupazione, di conseguenza eravamo liberi di sguazzare nell’acqua quanto volevamo. Ricordo anche di aver preso una magnifica anguilla sull’estuario del fiume, una volta.
Comunque, dopo aver detto addio alla gatta sulla spiaggia di Kōroen, mio padre e io ce ne tornammo a casa. Scesi dalla bicicletta, un po’ dispiaciuti ma rassegnati − non c’era altra soluzione −, apriamo la porta di casa e chi vediamo lí, a coda dritta, ad accoglierci con un affabile «miao»? La gatta che avevamo appena abbandonato! Ci aveva preceduti, era tornata! Come accidenti aveva fatto? Senza contare che noi eravamo tornati in bicicletta! Anche mio padre era stupefatto. Per qualche secondo restammo senza parole.
Ancor oggi rivedo l’espressione attonita di mio padre in quel momento. Ma subito la sua sorpresa si mutò in ammirazione, e poi in sollievo. Insomma, decidemmo di tenere la gatta. Visto che aveva fatto tutta quella strada, se lo meritava, dovevamo ammetterlo.
Abbiamo sempre avuto dei gatti, ci piacevano. Per me, figlio unico, erano amici fantastici. E, insieme ai libri, dei compagni preziosi. Adoravo stare col gatto di turno a prendere il sole sulla veranda (nelle case di quell’epoca c’era sempre una di quelle verande che si aprono sul giardino). Allora che bisogno c’era di abbandonare quella gatta sulla spiaggia? Perché non mi ero opposto? Questo − insieme al fatto che fosse tornata a casa piú in fretta di noi − ancora adesso per me resta un mistero.
Un altro ricordo di mio padre (a proposito, si chiamava Murakami Chiaki): ogni mattina, prima di fare colazione, mio padre si inginocchiava davanti al butsudan − il piccolo altare dei morti presente in ogni casa −, chiudeva gli occhi e recitava a lungo e con trasporto i sutra. In realtà non si può dire che fosse un vero e proprio altare. Era una piccola scatola cilindrica di vetro, che conteneva un bel bodhisattva, finemente scolpito. Non so che fine abbia fatto quella statuetta; da quando mio padre è morto non l’ho piú vista, e a un certo punto è sparita. Ormai resta solo nella mia memoria. Né so perché mio padre, ogni mattina, recitasse le preghiere davanti a quella scatola di vetro, e non davanti a un normale butsudan… è una delle cose che non ho mai capito.
In ogni caso, per lui era un rito irrinunciabile, segnava l’inizio della giornata. Per quanto ricordo, non ha mai mancato una volta di compiere quello che chiamava «il suo dovere», e nessuno poteva disturbarlo. L’aura solenne che in quei momenti scendeva su di lui mi impediva di rivolgergli la parola. Quella sua concentrazione fuori dal comune non era qualcosa che si potesse semplicemente considerare «un’abitudine quotidiana».
Una volta, da bambino, gli chiesi per chi pregasse. «Per le anime di chi è morto in guerra», mi rispose. Per i soldati giapponesi, ma anche per i cinesi, che erano i nostri nemici. Non mi disse altro, e io non gli feci ulteriori domande. Anche se lui non sembrava restio a parlare. Se avessi insistito, ho l’impressione che qualche spiegazione in piú me l’avrebbe data. Ma c’era qualcosa − l’atmosfera di quel momento, o una qualche reticenza dentro di me − che me lo impedí.
Dovrei raccontare un po’ di mio padre. Era nato il 1o dicembre del 1917, secondo figlio del priore del tempio Anyōji, a Kyōto, nella municipalità di Sakyō-ku, quartiere di Awataguchi. Una generazione sfortunata, cos’altro si può dire? Quando aveva solo pochi anni, in Oriente un’epoca di pace e di democrazia era al termine, il nostro paese stava andando incontro a una grave crisi economica e ben presto sarebbe sprofondato nel pantano della guerra contro la Cina e nella tragedia di un conflitto mondiale. Mio padre era riuscito a sopravvivere, con angoscia e accanimento, all’incredibile confusione e alla povertà del secondo dopoguerra. Come tutti, portava sulle spalle una piccola parte della sfortuna della sua generazione.
Suo padre, cioè mio nonno Murakami Benkishi, era nato in una famiglia di ricchi agricoltori della prefettura di Aichi. Come succedeva spesso ai figli cadetti, fu mandato al vicino tempio buddista per diventare prete. Pare che negli studi non fosse particolarmente brillante, ma dopo aver fatto il suo novizi...