Nelle taverne e nei crocicchi si mormora che la fine è ormai vicina. Armfelt, il fedele amico del re deceduto, è stato mandato in esilio, ma pare si stia apprestando a una rivalsa sui suoi avversari. Viaggia di Paese in Paese, da tutti tenuto in considerazione, e sta radunando un esercito a sostegno della sua causa. Gira voce che sia stato persino ospite di Caterina di Russia a Pietroburgo, e che le abbia descritto con parole cosí belle il periodo del regno di Gustavo che l’imperatrice è scoppiata in lacrime e ha perdonato seduta stante il cugino per la batosta inflitta ai russi a Svensksund. La nostra salvezza è vicina, presto tornerà, si bisbiglia, da un momento all’altro Armfelt potrebbe spuntare dietro al promontorio di Skeppsholmen con la flotta russa alle spalle. Porterà a termine con successo la sua missione senza incontrare resistenza e il duca Carlo, tutore del principe ereditario, dovrà ravvedersi. La maggior pecca del duca è sempre stata la debolezza, lascerà che Armfelt governi al posto suo con la stessa disinvoltura con cui ha permesso che lo facesse il barone Reuterholm in questi ultimi, cupi due anni. In ogni taverna dove si racconta questa storia, s’odono altre voci levarsi in un mormorio di protesta, quando i moccoli di sego cominciano a puzzare e la baraonda si quieta: eh, ce li ricordiamo bene i giorni di re Gustavo, chi non vorrebbe che tornassero? È vero che facevamo la fame e abbiamo dovuto mandare i nostri figli a morire al fronte, ma quando mai si erano viste cosí tante rappresentazioni teatrali qui nel profondo Nord, quando mai si era parlato un francese cosí impeccabile a corte?
Su al castello si vedono strane luci alle finestre: apparizioni dall’Aldilà, sostengono alcuni, soltanto fiamme dietro i vetri colorati, dicono altri. I paggi spettegolano: il barone è spaventato, anche se passa le sue giornate a oziare con i cortigiani, ornati come pavoni. In mancanza di meglio parla con i morti, organizza ogni sera sedute spiritiche. Esperti di magnetismo, spiritisti, chiaroveggenti: sono tutti benvenuti al castello quando cala la notte. Se il Paese dovrà essere governato da coloro che stanno all’altro mondo sarà la nostra rovina, dicono i vecchi, perché i morti sono invidiosi dei vivi e vogliono solo che li raggiungano nell’oltretomba.
Mezzanotte si avvicina, il guardiano del campanile ha smesso di gridare le ore e i bambini di strada che sono riusciti a infilarsi sotto le travi basse della taverna sono troppi perché l’oste possa chiuderla. Ha capito che non è stato soltanto il caso ad averli attratti lí quella sera. Sono pochi i segreti della Città tra i Ponti di cui prima o poi non vengano a conoscenza, e adesso è arrivato anche per lui il momento di rivelare i propri. La taverna è incustodita. Non c’è nessuno a difendere i suoi beni.
Presi uno per uno i bambini sono timidi e hanno paura di buscarsi delle bastonate, ma quando si radunano in gruppo, bisogna stare attenti. Se sono in tanti si sentono piú forti e si esaltano a vicenda piú di quanto non faccia l’acquavite. Si dànno alle ribalderie, non avendo nulla da perdere. Assaporano avidamente le ultime gocce rimaste in fondo a boccali e bottiglie dimenticati. Con un gesto di rassegnazione, l’oste decide di guadagnarsi la loro benevolenza e, in cambio delle poche monetine che hanno raccattato, dà loro una caraffa di birra da condividere, già sicuro che il prezzo della sua generosità sarà destinato ad aumentare. All’esterno, il calore che si era insediato tra i vicoli è stato attenuato dalla notte e dalla brezza di terra che spira la sera portando un po’ di fresco. Il cielo è ancora chiaro. Difficilmente arriverà a scurirsi prima dell’alba, la notte non dura che un lampo in queste lunghe giornate di luce. Non ci sono molti altri avventori. Tutti, tranne i gaudenti piú incalliti, sono tornati barcollando ai loro ostelli notturni. I pochi rimasti sono malconci e diventano presto vittime degli scherzi di quei ragazzacci. Appoggiato al muro c’è anche lo sbirro grosso, quello con la faccia piena di cicatrici, che tutti loro conoscono di vista ma con cui di giorno non oserebbero mai incrociare lo sguardo. Quello che una volta beveva molto e adesso invece è astemio, si dice in giro, anche se a vederlo non si direbbe che l’astinenza gli abbia fatto molto bene. È dimagrito dallo scorso inverno, ha le guance scavate, lo sguardo senza luce. Come sempre accade con le voci che corrono nella Città tra i Ponti, l’una contraddice l’altra e dove stia la verità non è dato saperlo. Molti sostengono che sia coperto di debiti e lavori senza sosta al soldo di chicchessia, ma che sia costretto a usare ogni singolo spicciolo che si guadagna per scrollarsi gli scagnozzi di dosso e tenersi lontano dalla gattabuia. Lui non ne parla, e nessuno oserebbe porgli domande. Si è unito alla compagnia di coloro su cui le persone onorevoli preferiscono far scivolare lo sguardo, una figura senza oggi né domani che vive nell’ombra, con la sola compagnia di un passato di rimpianti e ricordi dolorosi.
Sa ancora fare a botte, ma stasera non ne sarebbe in grado. I bambini si avvicinano di soppiatto. Sta dormendo profondamente, con un russare strascicato a ogni respiro e le braccia incrociate sul petto. A tutti questi bambini è già capitato di dormire a quel modo, piú sovente che non il contrario. È il torpore provocato dalla fame, quello che fa venire i brividi anche quando l’aria è calda e costringe a incrociare le braccia sul diaframma spingendo forte, per far credere allo stomaco di esser pieno.
Adesso fanno una scommessa. Il pesante braccio di legno dello sbirro è noto a tutti e temuto: chi di loro avrà il coraggio di rubarlo? Uno dei piú piccoli vede l’opportunità di accrescere la sua reputazione, si avvicina a passo felpato e comincia a strappare con cautela la manica sinistra della camicia lungo la cucitura. Le sue agili dita scoprono la pelle slabbrata e irregolare stretta da cinturini in cuoio e trattenendo il fiato comincia ad allentare le fibbie. Verso la fine perde la pazienza e, afferrando il legno screziato, tira con tutto il suo peso. Non ci vuole molto perché il braccio, prima cosí minaccioso, scivoli via dalle cinghie e il ragazzino cada a gambe all’aria con il suo bottino. Corrono tutti verso l’uscita portando il trofeo in alto sopra le teste, urlando e ridendo tra di loro. Una fuga inutile. Mickel Cardell non si è mosso da dov’era. Rimane cosí ancora per un’ora o due di sonno travagliato, finché il canto del gallo e i crampi lo svegliano. Esce barcollando e, annaspando con il braccio e il moncherino nel labirinto dei vicoli, raggiunge la stanza di cui da svariate settimane non paga piú la pigione.
L’estate si fa sempre piú rovente e quel sollievo che la primavera aveva portato dopo il freddo dell’inverno genera ora pericoli di altro tipo. Il calore nelle case aumenta e quando i muri di pietra, prima gelidi, si riscaldano troppo, nemmeno la notte riesce piú a regalare un po’ di fresco. I canali di scolo si imputridiscono e le finestre vengono tenute chiuse per evitare il contagio che può arrivare dall’aria ammorbata. Il legname si prosciuga e le strutture portanti degli edifici scricchiolano, restringendosi sotto la morsa dell’arsura. La paura degli incendi è tale che nessuno si azzarda ad accendere i focolari e le braci nelle fucine dei fabbri vengono lasciate carbonizzare. La calura inizia a mietere le sue vittime tra coloro che non sono abbastanza furbi da cercare un pozzo finché hanno ancora la forza per farlo. Anche le ferite piú piccole si gonfiano e infettano. I piú anziani, cosí come i piú piccoli, soccombono nei loro tuguri divenuti fornaci, quando l’estate giunta al suo culmine chiede il conto.
Cardell fa del suo meglio per far passare in fretta questi mesi estivi. Suda copiosamente come tutti ma è ancora forte, e quando la sete diventa insopportabile va a riempire i suoi bicchieri vuoti alla pompa dell’acqua. Cerca di dormire piú che può per sopprimere la fame che gli attanaglia lo stomaco, calmata solo con quel poco che scambia con i vicini recandosi per conto loro al pozzo con il giogo sulle spalle. Nessuno gli sta piú offrendo lavoro e nelle taverne lo sanno bene, ma nell’unica dove potrebbe trovare un po’ di misericordia Cardell evita di andare. È il Markattan, dove Anna Stina, la ragazza, sarebbe ben contenta di offrirgli tutto il vitto di cui dispone, manderebbe in rovina la sua attività pur di ricompensarlo del bene che le ha fatto. Ma quel poco di dignità che gli è rimasta conta per lui piú del cibo. Quando non riesce ad attirarsi i favori di nessuno si accontenta di bere acqua e, una volta che se n’è riempito lo stomaco, si corica sulla panca a ribalta che gli fa da letto, gira il muso verso la parete e abbraccia il suo moncherino pruriginoso finché lo coglie il sonno.
Dorme con la camicia addosso per i pidocchi, e quando si sveglia il sudore cola sotto il tessuto di lino. Lancia un’occhiata fuori dalla finestra e il campanile di Sankt Niklas lo informa dell’ora, con le lancette che sembrano tremare nell’aria torrida che sale dalle tegole roventi. Presto sarà sera, grazie al cielo. Ancora confuso dal sonno annaspa alla ricerca dell’acqua, scoprendo con una imprecazione di aver prosciugato l’ultima bottiglia. Si veste.
La tromba delle scale è peggio di camera sua. I vetri che sono andati in frantumi sono stati sostituiti da assi di legno e stracci. Tutto ciò che gli abitanti della casa non hanno piú l’energia di portar giú per buttarlo via giace abbandonato sulle scale, dove ogni angolo è usato a mo’ di latrina da quelli che hanno bisogni urgenti. Cardell deve tapparsi il naso quando inizia a scendere, con la vana speranza che la provvidenza salvi le suole delle sue scarpe dal peggio. L’odore è come quello di una tomba aperta e capisce presto il perché. Tre gradini piú sotto si trova davanti un fantasma. Il respiro gli manca all’improvviso come dopo un cazzotto in pieno stomaco. Lo stesso viso pallido ed emaciato, gli stessi occhi e capelli, lo stesso fazzoletto da naso davanti alla bocca per nascondere il sangue sulle labbra. Paralizzato dal terrore, rimane immobile finché lo spettro non si rivolge a lui.
– Jean Michael Cardell?
– Winge?
La voce è simile ma non è la stessa, e quando il fazzoletto viene abbassato, Mickel Cardell vede che anche il viso è diverso. Abbastanza simile da poter ingannare un altro, ma non lui. Sotto l’insistente sguardo dello sbirro, lo sconosciuto si liscia a disagio l’orlo sfilacciato della marsina.
– Sí, in persona. Ma non quello che intendete voi.
Cardell reagisce con sufficiente prontezza indicando al suo visitatore di scendere le scale, ed escono insieme nel vicolo.
– Mi avete fatto prendere un colpo, per Satana. Perché ve ne stavate nascosto nella tromba delle scale anziché bussare alla porta?
La voce dello sconosciuto è incerta, le parole gli escono a fatica.
– Vi ho sentito russare. Anziché disturbarvi, ho preferito aspettare.
– Capisco. Se è Mickel Cardell che stavate cercando, lo avete trovato.
– Il mio nome è Emil Winge. Cecil era mio fratello.
Cardell fa fatica a staccare gli occhi dal viso di questo Winge, ed Emil, intimidito da uno scrutinio cosí insistente, abbassa lo sguardo inquieto a terra, senza piú alzarlo fino a che l’altro rompe il silenzio, imbarazzato.
– Andiamo a parlare allo Svarta Katten, è qui vicino. È l’unico posto dove mi fanno ancora credito. Aspettate un momento mentre mi sciacquo la faccia.
Winge annuisce e Cardell rientra nel cortile, dove una botte da vino segata in due contiene l’acqua per le galline. Sembra abbastanza pulita e lui inizia a lavarsi. Sperando di potercisi specchiare mette l’acqua nella mano a coppa, ma gli trema troppo.
La strada che percorrono è senza vita, le poche persone che incontrano sembrano ombre grigie. A inizio anno, l’ultimo decreto di Reuterholm è stato letto dai pulpiti. Una legge suntuaria. Solo i piú anziani ricordano quella precedente, che risale a una mezza generazione fa. Pizzi, ricami, sete, tessuti colorati sono stati vietati per impedire che i riksdaler svedesi escano dal Paese per finire nelle tasche di commercianti stranieri. Il colore è stato scacciato dai vicoli.
Per quelli che non possiedono quasi nulla è piú facile privarsi del poco che hanno. Gli allegri nastri che le cameriere usavano per legare i capelli, unica concessione alla vanità, sono stati sostituiti da stoffa priva di colore, con le macchie di sudore come unico ornamento. I vestiti pregiati che le apprendiste hanno ereditato rimangono appesi a fare da cibo per le tarme, quando arriva il lunedí libero. I cicisbei, che prima sfilavano in marsine e panciotti variopinti, osano indossare questi indumenti solo quando la luce scende abbastanza da attenuarne lo scintillio, le fantasmagorie di colore sono riservate unicamente a chi possiede una posizione tale da poter guardare dall’alto in basso le guardie cittadine. È come se gli abitanti di Stoccolma fossero stati privati di ogni sfavillio per indossare unicamente uniformi grigie. Le lingue taglienti ha...