L’ultima volta che ho pianto senza controllo è stata dopo avere riacceso il cellulare di mamma spento da anni in un cassetto: tra foto e messaggi c’era una breve registrazione in cui la sua voce allegra esclamava «ciao, come stai?»
Lo sto raccontando a Nadir, il mio amico siriano. Un bell’uomo dagli occhi profondi e malinconici, proprietario del ristorante in cui mi trovo seduta a un tavolo un pochino defilato, quello riservato agli amici. Mangiamo pita con purè di melanzane e hummus. Nadir mi versa altro tè.
Vuoi ancora un altro po’ di baba ganush?, chiede facendo cenno a Yusuf di portarcelo. Poi si prende la testa tra le mani pettinandosi i capelli con un gesto affettuoso e disperato. Un anno fa sua madre è morta sotto un bombardamento, ad Aleppo.
Quanto dolore, sospira guardandomi negli occhi. Quanto.
Il ristorante di Nadir ha un’atmosfera da Le mille e una notte. Sulla parete accanto a noi c’è una nicchia con esposta la riproduzione della porta di Babilonia, piú sotto una piccola collezione di rose del deserto. Io e Nadir ci siamo conosciuti grazie a un’amica in comune, Angela, la libraia.
Con tono scherzoso ma non troppo gli confesso che ultimamente mi sento a pezzi. Ogni pezzo sta bene, lo rassicuro, ma messa cosí non posso andare molto lontano.
Serve del collante, dice Nadir. Non per andare lontano ma per stare qui, che è la cosa piú difficile, sai?
Poi si raddrizza sulla sedia appoggiandosi bene allo schienale, le mani abbandonate tra le gambe in una posa fiduciosa, testa alta.
Stare, ripete, è cosí.
Mi raddrizzo sulla sedia anch’io prendendo un bel respiro.
Ma adesso mangia, conclude, ché i tuoi pezzi sono troppo sottili.
Con un triangolino di pita raccolgo un po’ di riso allo zafferano, mandorle e datteri. Nadir ammira come mi nutro della sua cucina. È un uomo virile e materno, Angela me l’aveva ritratto proprio cosí quando ancora non lo conoscevo.
Amo le voci degli uomini. Non tutte, solo quelle che hanno la capacità di ricompormi. Nei momenti peggiori telefono a uno di loro. Mi parlano di soldi e di malanni, di donne delle quali sono stanchi o innamorati, di calcio, di surf, di come si cucina il branzino al sale, nel frattempo io chiudo gli occhi per concentrarmi sul timbro, assegnando a ogni voce un colore e una forma, perché voglio assimilarla come una medicina.
Parlami in arabo, chiedo a Nadir, ho bisogno di parole dolcissime.
Vuoi che ti parlo in arabo?, sorride lui. Dunque, vediamo un po’ cosa posso dirti.
Si ferma a riflettere guardando il soffitto, poi dice: Ah sí, questa è una poesia.
Cosí inizia.
«L’amore mio mi chiede, – traduce poi in italiano: – “Qual è la differenza tra me e il cielo?” La differenza è che se tu ridi, amore mio, io mi dimentico il cielo». È una poesia di Nizar Qabbani.
Quindi sposta il suo piatto da una parte e disegna sulla tovaglietta di carta il profilo di una persona, dal naso alla gola. Mi spiega che la lingua araba è l’unica al mondo che sfrutta tutto il condotto, come uno strumento musicale.
Abbiamo un suono, dice, che si forma proprio qui, alla base del collo, tra le clavicole. Senti come vibra? Nessun’altra lingua al mondo ha questo suono.
A me piacciono le frequenze basse, dico io, quelle voci che fanno vibrare gli schienali delle sedie.
Allora ti piacciono gli arabi, ride Nadir.
Quando lavoravo in uno studio di ingegneri volevo sempre essere io a chiamare il responsabile di zona per la tutela del paesaggio. La sua voce era un balsamo e io sarei rimasta ad ascoltarla per ore mentre mi parlava senza il minimo entusiasmo di vincoli ambientali e stralci cartografici. Posso chiamare Parodi?, chiedevo nelle giornate di lavoro particolarmente monotone. Il fatto che quella voce appartenesse a un uomo prossimo alla pensione era un dettaglio irrilevante. Per me non aveva corpo né fattezze umane, era semplicemente la voce di cui avevo bisogno in quel momento.
Anche mamma era cosí. Lei, oltretutto, da medico sapeva riconoscere se una voce era sana o meno. Aveva avuto a che fare con le corde vocali di moltissime persone e praticato diverse tracheotomie d’urgenza. La gente arrivava soffocante nel cuore della notte e lei doveva fare un’incisione della trachea, alla base del collo.
Da bambina i suoi racconti m’impressionavano molto. Sfogliavo i libri sui quali aveva studiato perché erano pieni di fotografie di gole aperte in due, ma anche di illustrazioni che spiegavano come funzionava la voce o l’orecchio umano. Mamma diceva che non c’era niente di tanto perfetto come l’orecchio, era lí che si vedeva la finezza ingegneristica di Dio. Solo che le persone lo ignoravano e cosí lei, negli anni, oltre ai tappi di cerume canonici, dalle orecchie dei suoi pazienti aveva estratto un fagiolo che aveva radicato lungo tutto il condotto uditivo, un soldatino di plastica che con la punta del fucile aveva perforato il timpano, liquirizie saldate tra loro in un calco appiccicoso, un orecchino con diamante che la paziente aveva perso il mese prima e cercato dappertutto.
Le persone che subivano una tracheotomia permanente, invece, dopo non potevano piú parlare perché il loro fiato usciva dal buco alla base del collo senza piú raggiungere le corde vocali. Per farlo dovevano usare una valvola meccanica: se premevano un bottone, la valvola vibrava trasformando il fiato in una voce artificiale.
Un bidello della mia scuola parlava cosí, sembrava un robot. A volte si dimenticava di premere sulla valvola e allora doveva ripetere quello che alla prima non avevamo capito perché era uscito sotto forma di sputacchi. Era un uomo gentilissimo, suppongo perché valesse la pena trasformare in voce solamente le cose gentili da dire.
E tu, invece?, chiedo a Nadir. Dimmi come stai.
Ah, sospira lui, bene si direbbe. Ma in Siria quasi ogni giorno salta qualcosa. Persone, famiglie, monumenti, parti di città. La mia casa d’infanzia non c’è piú, te l’ho già raccontato? Quando mi hanno telefonato i miei cugini per dirmelo, ho perso la voce per tre giorni. Il mio cuore si era ammutolito.
Nadir raccoglie una mandorla dal mio piatto e l’assaggia.
Eppure guardami, sono tutto intero. A volte mi chiedo: com’è possibile che gli altri vedano un uomo intero?
Scuoto la testa e dico: io non ti vedo intero.
Lo so, sorride Nadir, ma tu sei Ishtar, la dea dell’amore e della guerra.
Indica la porta di Babilonia sopra la mensola, i bassorilievi di animali in ceramica blu, e dice: ecco i tuoi seguaci.
Una notte d’estate avevo riconosciuto la voce tetra dei barbagianni. Ero con Matteo, sulla terrazza della sua casa in Abruzzo, con le luci spente e due birre, a prendere un po’ di fresco. Da lontano ci raggiungeva attutito il fracasso delle giostre.
I barbagianni avevano fatto il nido tra le pietre della casa di fronte. Erano i padroni di quella parte quasi disabitata del paese e volando nel buio come bianchi fantasmi si davano il cambio per sfamare i loro piccoli con topolini e altre prede. Chi dei due rimaneva nel nido emetteva sibili o soffi, zittendosi solo quando rientrava l’altro. All’inizio avevo trovato quel verso raccapricciante, sembrava una risata stridula, poi mi era divenuto familiare.
Da un viaggio in Madagascar, Matteo mi aveva mandato una serie di messaggi vocali in cui si sentivano le grida dei lemuri nella foresta. Un’altra volta aveva registrato per me il cigolio dei rimorchiatori che dondolavano attraccati in porto. Faceva il musicista. Avevamo moltissimi rumori preferiti in comune, per esempio quello della motosega che echeggiava, attraverso le persiane, nei silenziosi primi pomeriggi estivi.
Quanto ci mette?, avevo chiesto staccando nervosamente l’etichetta dalla bottiglia di birra.
Sei in pena per lei?, aveva risposto Matteo.
O per lui.
I barbagianni avevano continuato a emettere il loro verso fino all’alba e io non avevo chiuso occhio. Ero rimasta a contare l’intervallo tra un richiamo e l’altro, fissando il soffitto della camera rischiarato dalla luce della luna. Matteo dormiva a pancia in giú. Non dimenticare la sua voce, supplicavo me stessa, non dimenticarla.
A una festicciola a casa di amici avevo conosciuto la ragazza alla quale apparteneva la voce di una compagnia telefonica. Tutti le chiedevano di ripetere l’utente da lei chiamato non è al momento raggiungibile, e poi rimanevano stupefatti perché quella voce corrispondeva precisamente alla persona in carne e ossa che avevano davanti. Ma quando eravamo rimaste un attimo da sole, la ragazza mi aveva confessato di essere soltanto un’ottima imitatrice.
Voglio confessarti una cosa anch’io, le avevo detto.
Eravamo un po’ brille, alla terza o quarta sangria, sedute su un dondolo arrugginito nel cortile sul retro.
Durante il primo anno senza mia madre ho provato a chiamarla molte volte, ma ovviamente era irraggiungibile. Cosí le mandavo dei messaggi che si accumulavano nella memoria del telefono. Una volta mi ha risposto. Ricordo che sono rimasta pietrificata e ho fissato a lungo il display prima di aprire il messaggio. Era di uno sconosciuto che mi chiedeva di smettere di scrivergli quei pensieri tristissimi.
Fanno cosí, aveva detto la ragazza. È successo anche a me con il numero di mio padre, dopo un po’ l’hanno riassegnato.
D’istinto le avevo stretto una mano. Fissavamo il gelsomino che ricopriva il muro di fronte, i bicchieri sempre piú inclinati in grembo. Non ricordo la sua vera voce, ovviamente, però la sua mano sí, era ruvida di arsura e aveva un anello con montata sopra una pietra ovale. L’utente da lei chiamato, aveva detto a un certo punto, non è al momento raggiungibile… ma mi ha incaricato di dirle che sta bene e che la pensa spesso.
Nadir mi porta il suo dolce speciale, una torta di pasta sfoglia con sciroppo di miele, noci, mandorle e pistacchi. Nel ristorante siamo rimasti solamente noi e Yusuf, che ha già abbassato metà serranda.
Vi ho fatto fare tardi, dico.
Macché, protesta Nadir, non è tardi. Dimmi se ti piace la baklava, piuttosto.
L’assaggio ed è croccante, molto dolce. Nadir annuisce compiaciuto.
Mi ha fatto piacere rivederti, dice.
Poi mi mostra il palmo aperto della mano destra e dice: guarda.
Non saprei descrivere com’è fatto un pezzo di anima ma in quel momento lo vedo, è al centro della sua mano, vibrante e prezioso.
Con me Ishtar è al sicuro, dice Nadir, e si porta la mano al petto in corrispondenza del cuore, un gesto tipico degli arabi che non si può tradurre in nessun’altra lingua se non in quella, profonda, dell’amicizia.
Yusuf!, esclama l’attimo dopo, vieni a mangiare un po’ di questa torta speciale anche tu.
Il ragazzo arriva a sedersi con noi.
Qui abbiamo una grande intenditrice di voci, dice Nadir a Yusuf, indicandomi.
Il ragazzo sorride incerto, sembra comprendere poco l’italiano, cosí Nadir parla in arabo. Entrambi sorridono, ammiccano, Yusuf si sfiora la gola con le dita, l’accarezza, poi rivolto a me dice qualcosa che io naturalmente non capisco.
Ha detto, traduce Nadir, che sa bene quanto ti mancano le voci delle persone care, a lui manca tremendamente quella di suo padre, che era mio fratello, in Siria.
Poi abbassa lo sguardo sulla tavola. Si pettina i capelli come ad accarezzare un ricordo molto forte, per addomesticarlo, e infine dice: sai perché, cara Ishtar, vogliamo tanto ricordare le loro voci? Perché la voce è ciò che rimane a luci spente, insieme alle carezze.
Parlami, aveva detto lei, fammi sentire la tua voce. Erano le tre di notte e io mi ero appisolata su un bracciolo della poltroncina accanto al suo letto. Le avevo parlato, non ricordo di cosa. La camera d’ospedale era illum...