Ricorda perfettamente la casa, la donna e il marito, la bambina, il vecchio che prende il fucile da sopra la credenza, urla a quelli di andarsene e spara dalla finestra. L’auto che parte sgommando, l’attesa sotto il tavolo, il bicchiere sul pavimento, sta morendo di sete, ma non beve, poi l’altra auto che arriva, il carabiniere con le scarpe lucide che si avvicina, si piega verso di lei, le chiede di uscire da lí sotto, le tende la mano. Ha la faccia giovane, ma gli occhi e la voce di un padre di famiglia. Lei gliela allunga. Poi piú niente. Deve avere perso i sensi. Non sa cosa è successo dopo, quanto è durato il viaggio né dove l’hanno portata. Per quello che sa potrebbe essere di nuovo laggiú.
Tenendo gli occhi chiusi, annusa la coperta sotto il mento. Non puzza di sudore né di sporco. Non punge. Tende l’orecchio: non si sentono le blatte. I loro tonfi nella ciotola. Il lavorio con gli avanzi di cibo.
– Nini!
Apre gli occhi di scatto e lui è lí.
– No! – grida, schiacciandosi contro la testiera del letto. Un riflesso animale che protegge almeno un lato del corpo.
– Stai calma, sei in ospedale, – cerca di posarle una mano sulla spalla lui. – C’è un carabiniere fuori. Guarda! Sei al sicuro.
Lei guarda verso la porta. C’è il profilo scuro di una figura oltre il vetro smerigliato. La sagoma sulla testa fa pensare al cappello dell’arma.
– Il dottore ha detto che stai bene, – le carezza una guancia lui. – Adesso metti questi vestiti che ti ho portato, cosí ce ne andiamo.
– Ma… hai detto che sono al sicuro.
L’uomo sfila un paio di jeans dalla borsa di plastica che ha con sé e li posa sul letto.
– Certo, sei al sicuro, ma dobbiamo andare. Non posso spiegarti adesso.
Lei lo fissa mentre continua a rovistare nella borsa.
– Come hai fatto a entrare?
– Togliti quella roba, Nini, fai in fretta.
Lei lentamente fa scivolare la mano verso il campanello di chiamata.
– Aiuto! – grida, mentre preme il pulsante. – Aiutatemi!
L’uomo le mette una mano sulla bocca, lasciando che con l’altra continui a premere la chiamata. Dal corridoio non arriva nessun trillo. Niente passi di corsa. Il carabiniere però si è voltato verso la porta. Un secondo, due, e torna a girarsi verso il corridoio.
– Secondo te potevamo fare quello che abbiamo fatto senza che nessuno sapesse?
Lei smette di fare resistenza, di combattere. Lui le toglie la mano dalla bocca.
– Tra poco il piantone andrà a prendere un caffè alla macchinetta. Starà via cinque minuti, il tempo di scendere le scale e uscire di qui.
– Ma dove andiamo? Mi stanno cercando! Staranno cercando anche te.
L’uomo le prende il viso tra le mani.
– Ho fatto un accordo, Nini, devi fidarti di…
– Che accordo? – alza la voce lei. – Come hai fatto a fare un accordo con…
Lui spinge la fronte contro la sua. Le mani che le stringono il viso.
– Ho messo insieme dei documenti, – le sussurra a pochi centimetri dalle labbra, – e loro lo sanno. Di sotto abbiamo una macchina, dieci milioni e due passaporti falsi. Domani però dobbiamo essere fuori dal paese! Se no l’accordo salta. È l’unica possibilità. Io in carcere non passerei la notte e tu, anche sotto protezione….
Lei guarda verso la porta, dove il carabiniere non c’è piú. Due dei punti di sutura che le hanno dato sulla fronte sono saltati. Una goccia di sangue cola pigra lungo il naso.
– Ma gli altri?
Lui scuote la testa.
– Dobbiamo dire a qualcuno che sono là! – insiste lei. – Telefoniamo da fuori, senza…
– Non possiamo fare niente, Nini, – le pulisce il sangue sul naso con un lembo del lenzuolo. – Era deciso cosí fin dall’inizio.
– Perché non l’avete fatto subito allora? – grida lei, allontanandolo.
Gli occhi di lei si riempiono di lacrime. Nella stanza restano i rumori lontani che arrivano dal corridoio. Il ronzio della grata del condizionatore.
Lui le prende con dolcezza il braccio e sfila l’ago della flebo.
– L’unica cosa che adesso possiamo decidere, – dice, – è se vogliamo fare qualcosa per noi.
Mentre infila la chiave nella toppa, Arcadipane realizza che di lí a mezz’ora in casa non ci sarà nessuno. Potrebbe ridiscendere, fare distrattamente colazione al bar due vie piú in là, dove guarda caso nessuno dei tre deve passare, e poi risalire con calma, rinviando alla sera quello che inevitabile l’attende.
La chiave però ormai ha dato il primo scatto. E allora tanto vale…
Apre la porta e verifica il corridoio: sgombro. Un primo passo, un secondo. Dalla cucina arrivano rumori di tazze. Avanza cauto, senza posare la cesta che ha sottobraccio e le borse nell’altra mano, quasi potessero fargli da scudo.
Mariangela è di schiena alla macchina del caffè, Loredana sta pucciando una delle sue fette senza sale, zucchero e piacere nel tè. È lei a vederlo per prima. Un mezzo sorriso, poi abbassa lo sguardo e quel poco di allegria le si spegne. La fetta si flette con lentezza straziante, smottando nel tè.
– Cos’è quello?
Mariangela si gira.
– Ma dov’eri finito, potevi almeno… – poi vede Trepet e si zittisce.
– Giovanni! – urla. – Papà si è preso il cane!
Arcadipane si volta verso la parte buia del corridoio proprio mentre Giovanni sporge la faccia dalla porta della sua camera. Il ragazzo guarda Trepet che, avvertendo l’aria, si è accostato alle gambe dell’unico umano conosciuto.
– Fico, – dice Giovanni. – Come si chiama?
– Trepet.
– Ma… Vincenzo… – Il caffè di Mariangela giace sotto il beccuccio cromato della macchina di design. – Dove l’hai preso?
– Al canile. Qui ci sono guinzaglio, shampoo, crocchette, ciotole. Adesso ha solo bisogno di un bel bagno.
– Io non ho nessuna intenzione di toccarlo, – fa Loredana.
Arcadipane guarda verso il figlio in cerca di alleanze, ma è già sparito in camera. Mariangela ha preso la tazza e beve senza togliergli gli occhi di dosso.
– Non è facile trovarne uno cosí, – dice. – Avrai dovuto girare per canili tutta la notte.
Arcadipane posa il cestino-cuccia e le borse vicino al mobile delle chiavi. Fruga nella borsa, trova lo shampoo e si avvia.
– Vieni, – dice.
Trepet dedica un ultimo sguardo alle donne e lo segue.
Chiusa la porta del bagno, Arcadipane siede sul water e cerca in tasca un sucai sotto lo sguardo di Trepet, accucciato sul tappetino a pelo lungo ai piedi della vasca.
Mentre mastica il sucai, si costringe a pensare a qualcosa di buono.
La prima cosa che gli viene in mente è Bramard: non troppo invecchiato, in pace, una donna a fianco, due bambini di cui occuparsi. Niente piú bottiglia. Niente scalate suicide in montagna. Il passato finalmente alle spalle. Almeno fino a quando lui non è andato a rompergli i coglioni con l’unico caso che come poliziotto non ha risolto. E a metterlo a parte delle sue azioni illegali. E a chiedergli di aiutarlo a gettare merda in un ventilatore. Del resto se uno come poliziotto, marito e padre fa cagare, difficile che come amico…
In lacrime va alla vasca, mette il tappo e comincia a far buttare l’acqua. Trepet si sposta quel tanto che basta a evitare ogni contatto. Ora la diffidenza con cui segue i suoi movimenti si è fatta sospetto.
– Finora abbiamo fatto a modo tuo, – dice Arcadipane, – ma adesso…
Quando l’acqua è alta una spanna, chiude il rubinetto, allunga le braccia e lo afferra da sotto le ascelle. Trepet emette un piccolo guaito, nient’altro. Mentre lo solleva, Arcadipane sente sotto le dita la pelle grinzosa dell’animale tendersi sul corpo compatto e tiepido. La pancia è rosa, i testicoli uno bianco e l’altro nero, coperti di pelo rado. Al posto della gamba una breve cicatrice, come se l’arto fosse stato risucchiato all’interno attraverso un foro.
Mentre lo deposita dentro l’acqua, sente i ragazzi salutare, uscire, la blindata d’entrata sbattere senza essere trattenuta. Immagina che da quando è lí dentro non abbiano parlato d’altro.
– Posso? – chiede Mariangela bussando alla porta.
– Vieni.
Mariangela schiude il battente e guarda il marito disteso nella vasca piena a metà, il petto che emerge dalla schiuma. Ai suoi piedi la testa del cane sbuca dalle bolle.
– Io adesso comincio davvero a preoccuparmi, Vincenzo.
– Ah sí?
– Sí.
Ha in spalla la borsa che porta a scuola, una grande sacca con la bretella e molte tasche. Da una delle tasche spuntano le penne, dall’altra il badge, da un’altra ancora la chiave per la macchinetta del caffè.
– Mi dici cosa ti è passato per la testa? Non era meglio andare a sceglierlo con loro? Cosí sei riuscito a fare quello volevano e a farli arrabbiare lo stesso.
Arcadipane sposta un po’ di schiuma coprendosi la pancia e quel che c’è sotto. Trepet fissa vago la finestra. Ha una bolla sulla testa.
– Serve per vedere se mi si drizza ancora.
– Il cane? Ma cosa cavolo…
La bolla esplode.
– Non posso spiegarti. È una cosa di due o tre settimane. Se funziona funziona, altrimenti…
Esce dall’ascensore e prende a destra come alle informazioni gli hanno detto di fare.
I corridoi dal terzo piano in su sono lunghi e stretti come li ricordava, ma il colore delle pareti, le porte vetrate e il pavimento fanno pensare a un posto diverso. L’unica cosa che non è cambiata sono i fogli appiccicati con lo scotch sulle porte degli uffici chiusi: orari di appelli, liste di testi, elenchi di nomi. Un’abitudine che non amava allora e che adesso gli sembra addirittura pornografica. Ma non è lí per quello.
Un ragazzo siede sulla panca di fronte a uno degli uffici. È l’unico nel corridoio. Capisce di essere arrivato.
– Aspetti di entrare? – gli chiede.
Il ragazzo solleva lo sguardo dalla «Gazzetta»: calcio regionale.
– No, c’è dentro la mia ragazza.
Corso siede. Da dentro arrivano due voci, ma molto attutite. Un discorso senza picchi. Il ragazzo probabilmente vorrebbe essere altrove, è sabato mattina, ieri di sicuro ha fatto tardi. «Chi cazzo riceve il sabato mattina!» deve aver discusso, ma poi ha capito che lei ci teneva, che l’avrebbe pagata cara se non l’avesse accompagnata.
– Fai ancora l’università?
Corso lo guarda, probabilmente è un po’ che lo studia e pensa di chiederglielo.
– No.
– Buon per te. Comunque non rischieresti.
– Perché, cosa si rischia?
– Molestie, – accenna alla porta. – È cosí figa che hanno già allungato le mani due volte. Per questo la devo accompagnare. Agli esami no, c’è gente, ma al ricevimento… I suoi volevano sporgere denuncia. Sí, cosí poi le fanno passare l’inferno per laurearsi. N...