Facebook: l'inchiesta finale
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Facebook: l'inchiesta finale

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Dopo il Watergate e lo scandalo Wikileaks, l'inchiesta che sta facendo tremare i vertici di Facebook.Oltre mille ore di interviste a piú di quattrocento persone fanno luce sulle decisioni, i meccanismi e i protagonisti che hanno trasformato il social network piú famoso al mondo in un monopolio pericolosissimo per la nostra privacy e la stessa democrazia.

«È ancora possibile contenere e regolamentare lo strapotere e l'influenza di un'azienda come Facebook?»
Sheera Frenkel e Cecilia Kang «Questa inchiesta conferma tutti i peggiori sospetti su Facebook».
The New York Times Nel novembre 2018, Sheera Frenkel e Cecilia Kang hanno pubblicato sul «New York Times» un reportage magistrale che ha svelato, attraverso inquietanti dettagli interni, come i vertici di Facebook - su tutti Mark Zuckerberg e Sheryl Sandberg - abbiano consentito, e successivamente tentato di negare, enormi violazioni della privacy e ingerenze da parte della Russia nelle elezioni americane del 2016. Ma quell'inchiesta era soltanto la punta dell'iceberg. Per piú di ventiquattro mesi, interpellando fonti esclusive e attingendo a email, relazioni e documenti ufficiali inediti, Frenkel e Kang hanno ricostruito la storia che ha spinto una delle società piú potenti al mondo a cercare di insabbiare una verità dannosa e inquietante: Facebook, negli ultimi anni, è diventato uno spregiudicato strumento di sfruttamento dei dati personali e un canale di disinformazione, odio e propaganda politica.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858436059
Capitolo 1

Non svegliare il can che dorme

Era sera tardi, i suoi colleghi di Menlo Park erano usciti ormai da ore quando il programmatore aveva sentito l’impulso di riaccendere il computer. Aveva bevuto qualche birra. E forse per questo, pensava, si sentiva tentato. Sapeva che premendo una serie di tasti avrebbe potuto accedere al profilo della donna con cui era uscito alcuni giorni prima. La serata era andata bene secondo lui, ma ventiquattro ore dopo lei aveva smesso di rispondere ai messaggi. Voleva solo sbirciare la sua pagina Facebook per curiosità, vedere se magari fosse malata, o in vacanza, o avesse perso il cane: qualsiasi cosa che spiegasse il motivo per cui non era interessata a un secondo appuntamento.
Alle dieci aveva preso la sua decisione. Accese il computer e la cercò, sfruttando la possibilità di accedere al flusso di dati di tutti gli utenti di Facebook. Conosceva dettagli sufficienti: nome, cognome, luogo di nascita e università, gli ci vollero pochi minuti per trovarla. I sistemi interni di Facebook conservavano un ricco archivio di informazioni, tra cui anni di conversazioni private con amici tramite Facebook Messenger, eventi a cui aveva partecipato, foto caricate (comprese quelle cancellate) e post che aveva commentato o su cui aveva cliccato. Vide in quali categorie l’aveva collocata Facebook a scopo pubblicitario: la società l’aveva posizionata come una trentenne, politicamente orientata a sinistra e con uno stile di vita attivo. Coltivava un’ampia gamma di interessi, dall’amore per i cani ai viaggi nel Sudest asiatico. E grazie all’applicazione di Facebook che aveva installato sul cellulare, lui poteva vedere dove si trovasse in quel momento. Dopo circa una settimana dal loro primo appuntamento, era venuto a sapere piú di quanto avrebbe potuto scoprire in dieci inviti a cena.
I manager di Facebook insistevano sul fatto che chiunque fosse stato scoperto ad approfittare della possibilità di accedere ai dati per uso personale, per guardare l’account di un amico o di un membro della famiglia, sarebbe stato licenziato in tronco. Sapevano anche però che non c’era modo di evitarlo. Il sistema era stato pensato per essere aperto, trasparente e accessibile a tutti i dipendenti. L’idea di eliminare le lungaggini che rallentavano il lavoro degli informatici e impedivano loro di procedere in modo snello e autonomo era parte dell’etica fondante di Zuckerberg. Era una regola stabilita già da quando Facebook impiegava meno di un centinaio di persone. Anni dopo, con migliaia di informatici alle dipendenze dell’azienda, nessuno l’aveva ripensata. Era solo la loro buona fede a trattenerli dall’abusare della possibilità di accedere alle informazioni private degli utenti.
In un periodo che va dal gennaio 2014 all’agosto 2015, il programmatore che era entrato nell’account della sua ragazza di una sera fu solo uno dei cinquantadue dipendenti di Facebook licenziati per aver sfruttato questo privilegio. Erano soprattutto uomini che accedevano ai profili di donne a cui erano interessati. In genere si erano limitati a controllare delle informazioni. Alcuni di loro però si erano spinti ben oltre. Uno ne aveva approfittato per rintracciare una donna con cui aveva fatto un viaggio in Europa; durante la vacanza i due avevano litigato e lui aveva trovato l’albergo in cui alloggiava lei, dopo aver lasciato la stanza che condividevano. Un altro era entrato nella pagina Facebook di una ragazza ancora prima di iniziare a frequentarla. Aveva visto che andava regolarmente al Dolores Park, a San Francisco, e un giorno l’aveva trovata lí a godersi il sole con gli amici.
Gli informatici licenziati avevano utilizzato i computer aziendali per accedere ad account specifici e questa attività insolita aveva allertato i sistemi di Facebook e avvisato i loro capi delle violazioni. Erano quelli che erano stati scoperti dopo aver commesso il fatto. Non sappiamo quanti altri siano passati inosservati.
Il problema fu portato all’attenzione di Zuckerberg per la prima volta nel settembre 2015, tre mesi dopo l’arrivo di Alex Stamos, il nuovo responsabile della sicurezza di Facebook. Riuniti nella sala conferenze di Zuckerberg, l’«Aquarium», i top executive si erano preparati alla possibilità di ricevere brutte notizie: Stamos aveva la fama di essere estremamente esigente e diretto. In estate, quando era stato assunto, uno dei primi obiettivi che si era posto era una valutazione generale dello stato della sicurezza di Facebook. Si trattava della prima operazione del genere eseguita da qualcuno che veniva da fuori.
Gli executive si dicevano che era impossibile realizzare una valutazione accurata in un tempo cosí breve e che il resoconto di Stamos avrebbe potuto evidenziare solo problemi superficiali che gli garantissero delle vittorie immediate all’inizio del suo incarico. Sarebbe stato piú semplice per tutti se si fosse uniformato all’atteggiamento di ottimismo sfrenato tipico delle cariche piú alte di Facebook. L’azienda non era mai andata meglio, con le pubblicità che erano appena approdate anche su Instagram e il nuovo traguardo di un miliardo di utenti che ogni giorno accedevano alla piattaforma1. Non dovevano fare altro che rilassarsi e lasciare che la macchina continuasse a lavorare.
Al contrario, Stamos si era presentato descrivendo nel dettaglio i vari problemi dei prodotti piú importanti, dei lavoratori e della struttura aziendale. Informò i presenti del fatto che in termini di sicurezza l’organizzazione dedicava troppi dei suoi sforzi a proteggere il sito web, trascurando abbondantemente le app, comprese Instagram e WhatsApp. Facebook non aveva fatto progressi quanto alla promessa di criptare i dati degli utenti presso i suoi centri; cosa che al contrario Yahoo, precedente datore di lavoro di Stamos, aveva cominciato a fare due anni prima, in seguito alle rivelazioni di Edward Snowden sulla National Security Agency secondo cui il governo russo spiava i dati degli utenti, lasciati incustoditi dalle società della Silicon Valley2. In Facebook, le responsabilità sulla sicurezza erano sparse per l’azienda, la quale, secondo quanto riferito da Stamos, non era «tecnicamente né culturalmente preparata ad affrontare» attacchi del livello attuale.
Peggio ancora, sosteneva Stamos, era che pur avendo licenziato decine di impiegati negli ultimi diciotto mesi per violazione dei dati degli utenti, Facebook non stava facendo nulla per risolvere o prevenire quello che era evidentemente un problema strutturale. Attraverso un grafico Stamos mostrò come gli informatici avessero violato la privacy degli utenti di Facebook quasi ogni mese e si fossero infiltrati nella loro vita approfittando degli strumenti che semplificavano l’accesso ai dati per creare nuovi prodotti. Se tali violazioni fossero state rese pubbliche avrebbero causato uno scandalo: era da piú di dieci anni che gli informatici di Facebook consultavano liberamente i dati privati degli utenti. I casi evidenziati da Stamos erano solo quelli noti all’azienda. Chissà quanti ancora potevano essere sfuggiti al controllo.
Zuckerberg fu ovviamente preso alla sprovvista dai numeri presentati da Stamos, nonché scioccato dal fatto che il problema non gli fosse stato sottoposto prima. «A livello dirigenziale tutti sapevano di incidenti in cui i dipendenti avevano gestito i dati in modo inadeguato. Nessuno aveva mai messo insieme tutti quei casi e ora erano stupiti della quantità di informatici responsabili di violazioni», ricorda Stamos.
Zuckerberg domandò perché nessuno avesse pensato di rivedere il sistema che permetteva tutto questo. Nessuno tra i presenti gli fece notare che l’aveva progettato e implementato lui stesso. Negli anni, i suoi dipendenti avevano suggerito invano dei modi alternativi di organizzare la conservazione dei dati. «In vari momenti della storia di Facebook si sono presentate strade che avremmo potuto percorrere, decisioni che avremmo potuto prendere in grado di limitare o persino ridurre i dati degli utenti che stavamo raccogliendo», ha affermato un dipendente storico entrato in Facebook nel 2008 e che ha lavorato in diversi team all’interno dell’azienda. «Era però qualcosa di antitetico al Dna di Mark. Ancora prima di proporgliele sapevamo che erano strade che non avrebbe mai scelto».
Ai nuovi assunti nei loro team, gli executive di Facebook, compreso chi dirigeva gli informatici come Jay Parikh e Pedro Canahuati, spacciavano questa possibilità di accedere ai dati come un vantaggio. Facebook era il piú grande laboratorio del mondo, con un quarto della popolazione mondiale come cavie. Per i manager quel privilegio faceva parte della trasparenza radicale di Facebook e della sua fiducia nello staff informatico. Quando faceva gli auguri di compleanno a suo fratello, un utente riceveva un tasso di risposta piú alto se inviava dei palloncini o l’emoji di una torta di compleanno? Invece di affrontare un processo lungo e macchinoso per scoprire che cosa funzionava meglio, un programmatore poteva controllare in diretta. Canahuati però avvisava il suo staff che l’accesso ai dati era un potere di cui non abusare. «L’abuso non era tollerato e per questo l’azienda aveva sempre licenziato chiunque fosse stato scoperto ad accedere ai dati in modo improprio», ha dichiarato.
Stamos disse a Zuckerberg e agli altri dirigenti che non bastava licenziare una volta commesso il fatto. Era responsabilità di Facebook, sosteneva, garantire che simili violazioni non accadessero affatto. Chiese il permesso di cambiare il sistema e revocare l’accesso ai dati privati alla maggioranza degli informatici. Se qualcuno aveva bisogno di informazioni su un privato cittadino avrebbe dovuto presentare richiesta formale tramite i canali adeguati. Con il sistema allora in uso, 16 744 dipendenti di Facebook potevano accedere ai dati privati degli utenti. Stamos voleva scendere sotto i cinquemila. Per le informazioni piú sensibili, come posizione Gps e password, voleva limitare l’accesso a meno di cento persone. «Mentre tutti sapevano che c’era una grande quantità di dati accessibili agli informatici, nessuno aveva pensato a quanto fosse cresciuta l’azienda e quante persone potessero accedervi in quel momento, – ha spiegato Stamos. – Non ci si faceva attenzione».
Parikh, responsabile degli informatici di Facebook, domandò a che scopo sovvertire l’intero sistema. Certamente si potevano adottare delle misure per limitare la quantità di informazioni accessibili o far scattare allarmi nel momento in cui qualcuno esaminava determinati dati. I cambiamenti proposti avrebbero seriamente rallentato il lavoro di molti membri dei team di sviluppo.
Canahuati, responsabile del prodotto, era dello stesso avviso. Disse a Stamos che una proposta per cui un informatico doveva inoltrare richiesta scritta ogni volta che volesse accedere ai dati era inaccettabile. «Avrebbe gravemente rallentato tutti i settori dell’azienda, inclusi quelli impegnati su altri progetti legati alla sicurezza», ha poi spiegato Canahuati.
Zuckerberg affermò che cambiare il sistema era una priorità assoluta. Chiese a Stamos e Canahuati di proporre una soluzione e aggiornare il gruppo sui progressi fatti nel giro di un anno. Per i team di programmatori questo comportava però un vero e proprio sconvolgimento. Molti dirigenti presenti borbottarono tra sé e sé che Stamos, presentando la peggiore delle ipotesi, era appena riuscito a convincere il capo a imbarcarsi in una ristrutturazione massiccia.
L’assenza di una degli executive a quell’incontro del settembre 2015 fu particolarmente evidente. Erano trascorsi solo quattro mesi dalla morte del marito di Sheryl Sandberg. La sicurezza era responsabilità di Sandberg e tecnicamente Stamos era un suo sottoposto. Lei però non gli aveva mai suggerito simili cambiamenti radicali, né era stata consultata al riguardo.
Quel giorno Stamos ebbe la meglio, facendosi però diversi nemici potenti.
L’8 dicembre 2015, a tarda sera, Joel Kaplan si trovava nella sala congressi di un albergo a Nuova Delhi quando ricevette una chiamata urgente da Menlo Park. Un collega lo informava che era atteso per una riunione di emergenza.
Qualche ora prima, lo staff di Donald Trump aveva postato su Facebook il video di un discorso tenuto dal candidato a Mount Pleasant, in South Carolina. Trump prometteva di adottare una linea decisamente piú dura nei confronti dei terroristi, collegando poi il terrorismo all’immigrazione. Il presidente Obama, diceva, aveva trattato gli immigrati illegali meglio dei reduci feriti. Trump si sarebbe comportato in altro modo, assicurava alla folla il candidato presidente. «Donald Trump richiede il blocco totale e completo degli ingressi dei musulmani negli Stati Uniti finché i rappresentanti del nostro Paese non capiscono che diavolo sta succedendo», annunciava3. Il pubblico esultava.
Trump aveva messo al centro della sua campagna elettorale posizioni provocatorie su razza e immigrazione. L’utilizzo dei social media da parte del suo staff gettava benzina sul fuoco. Su Facebook, il video del discorso anti-musulmano generò rapidamente oltre 100 000 like e 14 000 condivisioni.
Quel video mise la piattaforma in difficoltà. Non era preparata a un candidato come Trump, che stava ottenendo un seguito enorme ma che al contempo divideva molti dei suoi utenti e dipendenti. Per avere indicazioni Zuckerberg e Sandberg si rivolsero al vicepresidente della policy pubblica globale di Facebook, che si trovava in India per cercare di salvare il progetto di connessione gratuita di Zuckerberg.
Kaplan si collegò in videoconferenza con Sandberg, con il responsabile di policy e comunicazione Elliot Schrage, con la responsabile della gestione policy globale Monika Bickert e alcuni altri addetti alla policy e comunicazione. Era tredici ore e mezzo avanti rispetto ai suoi colleghi nella sede centrale e viaggiava da giorni. Guardò il video in silenzio e ascoltò le preoccupazioni del gruppo. Zuckerberg, gli dissero, si era dichiarato allarmato per il post di Trump e pensava che ci fossero le condizioni per rimuoverlo da Facebook.
Quando infine intervenne, Kaplan sconsigliò ai colleghi azioni affrettate. Decidere come comportarsi di fronte alla retorica anti-musulmana di Trump era complicato dalla componente politica. La lunga storia di sostegno economico e pubblico ai democratici aveva offuscato l’immagine di Facebook tra i repubblicani, sempre piú diffidenti della neutralità della piattaforma. Kaplan non faceva parte del mondo di Trump, ma considerava la sua campagna una minaccia reale. L’ampio seguito di Trump su Facebook e Twitter rivelava una frattura enorme all’interno del Partito repubblicano.
Kaplan aggiungeva anche che rimuovere il post di un candidato alla presidenza era una decisione colossale, interpretabile come censura da Trump e i suoi sostenitori. Sarebbe stata considerata un ulteriore segno di favoritismo nei confronti della principale rivale di Trump, Hillary Clinton. «Non svegliare il can che dorme», ammoní4. Sandberg e Schrage non si esposero allo stesso modo. Si fidavano dell’istinto politico di Kaplan, non avevano legami con l’entourage di Trump e nessuna esperienza della sua caratteristica shock politics. Alcuni dei partecipanti all’incontro di quel giorno erano allibiti. Sembrava che Kaplan mettesse la politica al di sopra dei principî. Come ha dichiarato uno dei presenti a quella videochiamata, era talmente ossessionato dal calmare le acque da non capire che le mosse di Trump non facevano che agitarle.
Alcuni senior executive concordarono con Kaplan. Espressero la loro preoccupazione per i titoli di giornale che sarebbero apparsi e la reazione che avrebbe scatenato bloccare l’account di un candidato alla presidenza. Trump e i suoi sostenitori consideravano leader come Zuckerberg e Sanders rappresentanti dell’élite progressista, ricchi e potenti detentori di informazioni che con i loro algoritmi segreti potevano censurare la voce dei conservatori. Facebook doveva apparire imparziale. Era fondamentale per salvaguardare il suo business.
Il discorso virò su come giustificare una decisione simile. Il post si poteva leggere come una violazione degli standard della comunità di Facebook. Già in passato gli utenti avevano segnalato l’account della campagna elettorale di Trump per incitamento all’odio e il reiterarsi della situazione era un presupposto sufficiente per rimuovere interamente l’account. Schrage, Bickert e Kaplan, tutti laureati in Legge a Harvard, si misero a cercare appigli legali per avallare quel post. Analizzarono nel dettaglio che cosa si potesse considerare incitamento all’odio e arrivarono a cavillare sull’uso della grammatica fatto da Trump.
«A un certo punto scherzarono sul fatto che Facebook avrebbe dovuto trovare qualcosa di simile alla definizione di pornografia data una volta dalla Corte suprema: “Lo so quando lo vedo”, – ricorda un dipendente che prese parte alla conversazione. – Era possibile stabilire in modo univoco che cosa avrebbe potuto dire Trump per farsi bloccare? Non sembrava saggio farlo».
Tecnicamente Facebook metteva al b...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Facebook: l’inchiesta finale
  4. Nota delle autrici
  5. Prologo. A tutti i costi
  6. Capitolo 1. Non svegliare il can che dorme
  7. Capitolo 2. Un successo annunciato
  8. Capitolo 3. Di cosa ci occupiamo, qui?
  9. Capitolo 4. L’Acchiapparatti
  10. Capitolo 5. Il canarino nella miniera
  11. Capitolo 6. Un’idea un po’ balorda
  12. Capitolo 7. La società prima della nazione
  13. Capitolo 8. Cancellate Facebook
  14. Capitolo 9. Pensa prima di condividere
  15. Capitolo 10. Il leader in tempo di guerra
  16. Capitolo 11. Coalizione dei volenterosi
  17. Capitolo 12. Lotta per la sopravvivenza
  18. Capitolo 13. L’interferenza ovale
  19. Capitolo 14. Un bene per il mondo
  20. Epilogo. Guardando avanti
  21. Ringraziamenti
  22. Il libro
  23. Le autrici
  24. Copyright