Un tempo senza storia
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Un tempo senza storia

La distruzione del passato

  1. 128 pagine
  2. Italian
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Un tempo senza storia

La distruzione del passato

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Si moltiplicano i segnali d'allarme sulla perdita di memoria collettiva e di ignoranza della nostra storia. Nella realtà italiana di oggi c'è un passato che sembra dimenticato. E il peso dell'oblio è qui forse piú forte che altrove. Ma che cosa significa liberarsi dal peso del passato? Questo libro è, al medesimo tempo, un'apologia della storia e uno sguardo preoccupato sulla società dell'oblio in cui viviamo. Una società dove la storia, come disciplina, è vituperata e marginalizzata. E dove dimenticare il passato è un fenomeno connesso alla scomparsa del futuro nella prospettiva delle nuove generazioni, mentre le rinascenti mitologie nazistoidi si legano all'odio nei confronti di chi viene «da fuori». E tuttavia l'offuscarsi della coscienza e della conoscenza storica sembra passare quasi inavvertito. Per cercare di capire come siamo arrivati a questo punto, e per superare questa indifferenza sul tema, Adriano Prosperi propone qui una riflessione sul ruolo della memoria e della storia nella nostra tradizione.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858435557
Capitolo primo

Le intermittenze della memoria

«La storia intellettuale dell’umanità – ha scritto Jurij M. Lotman – si può considerare una lotta per la memoria. Non a caso la distruzione di una cultura si manifesta come distruzione della memoria, annientamento dei testi, oblio dei nessi»1. La verità di questa osservazione non ha bisogno di essere dimostrata. Basta ripercorrere rapidamente i momenti fondamentali della storia dell’Europa e del mondo per trovarci davanti a continue conferme. Se ne viene prendendo coscienza sempre piú man mano che l’onda di alta marea della cultura europea si ritira e fa emergere storie di culture represse o dimenticate. Non è la prima volta che questo accade. La stessa cultura europea prima di diffondere nel mondo il calendario di un tempo giudaico-cristiano dovette fare i conti con l’antichità pagana. Ma oggi nella lotta per la memoria, l’Europa, per secoli protagonista nell’uso della sua cultura come mezzo per conquistare e addomesticare tutte le altre, appare sempre piú in posizione di difesa quando non di silenzioso arretramento. E davanti alla sua storia sembra provare un desiderio bizzarro: quello di fermarla. Forse anche oggi, come nell’età del classicismo francese descritta da Paul Hazard in un suo celebre libro, «il povero navicello umano ha toccato finalmente il porto: possa rimanervi a lungo, rimanervi sempre! […] si vorrebbe fermare il tempo»2. E magari oziare tra le pagine di un libro di gran successo dello storico israeliano Yuval Noah Harari che pochi anni fa (dunque prima del Covid-19) parlava di un trionfale presente in cui l’umanità si era lasciata per sempre alle spalle «carestie, pestilenze e guerre»3. Allora, in laboratori accademici piú cauti la crisi della coscienza europea aveva già rallentato gli assemblaggi frettolosi di storie del mondo intero («Global History» e «World History»). Quei bilanci di chiusura, buoni per guardare serenamente a una umanità tutta unita e pacificata lasciandosi alle spalle barriere identitarie e rancori nazionalistici, cozzavano sempre piú con una esplosione incontrollabile di etnie, religioni e tradizionalismi chiusi, intolleranti e arcigni verso chi bussava alla porta del ricco Occidente.
Un fatto è certo: siamo davanti a un mutamento profondo. Chi nel 1989 (Francis Fukuyama) aveva immaginato ormai raggiunta la «fine della storia» col crollo del muro di Berlino e giunto il tempo di fermarsi a godere i frutti della liberaldemocrazia e del capitalismo ha poi dovuto fare i conti con l’unica legge fondamentale della storia umana, il mutamento. Cambiano le generazioni e i figli assomigliano ai loro tempi piú che ai loro padri4, come scrisse Marc Bloch. La prospettiva delle nuove generazioni si è fatta diversa da quella dei loro padri, il mondo umano è cambiato, gli spazi e i tempi nuovi sono diversi dagli antichi, quelle che sembravano conquiste ferme e indiscutibili devono di nuovo sottoporsi alla prova della nuova configurazione del mondo. E chi profetizzava la fine della storia è stato presto disingannato. Quello che invece si è fatto sempre piú evidente è un processo che potremmo definire di distruzione del passato. La definizione non ci appartiene. È stato Eric Hobsbawm nel suo celebre Secolo breve a individuare questo fenomeno con parole degne di attenta lettura:
La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni piú tipici e insieme piú strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono5.
Da quando sono state scritte queste parole il fenomeno si è fatto sempre piú evidente, tanto da suscitare diversi allarmi dando vita a diagnosi di vario genere. Oggi si va dicendo che una nuova malattia sociale incomberebbe su di noi: quella della memoria. Inevitabile pensare per analogia alla patologia individuale dell’Alzheimer. Ma mentre questa suscita angoscia al solo evocarla, l’offuscarsi della coscienza e della conoscenza storica nella società sembra passare quasi inavvertito. Eppure è un fenomeno diffuso in molti ambienti e in diverse fasce sociali, minaccia specialmente le nuove generazioni e il mondo della scuola e devasta quello della politica. La cosa non riguarda solo l’Italia: affligge anche altri Paesi di un’Europa formalmente unita eppure resa da questa malattia sempre piú fragile e spesso irriconoscibile. È l’Europa in primo luogo colei che appare oggi nel mondo come smarrita e dimentica della sua grande eredità culturale. Da molti anni la delusione per la costruzione europea nasce soprattutto davanti alla perdita di memoria di una grande realtà risorta dalle macerie e dalle ceneri di milioni di vittime col proposito di restaurare il ricordo e il rispetto dei suoi valori ideali ma che sembra tornare sempre piú indietro: tanto indietro da scambiare per valori europei quelli finanziari di borse e banche, col risultato di emarginare e minacciare di esclusione la Grecia e lasciare spesso l’Italia sola davanti al dovere di accoglienza e aiuto per il popolo dei migranti. C’è voluto il ritorno del flagello biblico del Covid-19 o altrimenti detto coronavirus perché voci isolate richiamassero alla consapevolezza dell’esistenza di valori superiori a quelli della finanza e della produzione di ricchezza: per esempio, quello della tutela della semplice e nuda vita umana, la si ritenga dono divino o frutto del caso. Oggi la minaccia di una pandemia globale costringe credenti e no, cultori del Vangelo o dei valori illuministici, a incontrarsi e riconoscersi d’accordo sulla vera scala dei valori.
Ma intanto bisogna fermarsi a riflettere sul problema della perdita del senso della storia e del generale declino di questa dimensione, negli studi e nella società. È da tempo che i sociologi mandano segnali d’allarme e parlano di perdita di memoria collettiva e di ignoranza della nostra storia recente e delle sue tragedie. Ma è anche da tempo che si moltiplicano segni di allarme davanti a precisi segnali di una tendenza diffusa, con ripetute quanto vane denunzie delle responsabilità delle classi dirigenti e dei poteri pubblici. Il fenomeno è aggravato dalla poca cura dedicata a biblioteche, archivi e musei, considerati enti inutili e non redditizi, colpiti da continue riduzioni di personale, mezzi e strumenti. Ed è rimasta inascoltata la voce di un grande storico e combattente per la libertà come Franco Venturi che nel lontano 1968 scriveva queste parole: «L’Italia è […] uno dei paesi in cui è piú difficile e faticoso giungere a contatto con i testi e i documenti […] Siamo l’unico paese civile a non possedere una biblioteca nazionale, una biblioteca, intendo, in cui ci si possa ragionevolmente attendere di trovare qualsiasi libro e foglio apparso in ogni angolo del proprio paese, dall’invenzione della stampa ad oggi». Il suo augurio conclusivo era allora che «nelle mani dei bibliotecari e degli archivisti nostri vengano finalmente posti mezzi e strumenti che permettan di rendere accessibili a tutti, con ben diversi orari e con strutture organizzative completamente trasformate, i luoghi dove si conservano le testimonianze delle idee, delle lotte e delle speranze delle generazioni passate»6.
Lotte e speranze, generazioni passate: cioè storia. Che non è memoria, termine che da tempo sostituisce insidiosamente quello di storia, magari con l’aggiunta di aggettivi come storia «collettiva» o con piú ardite semplificazioni cariche di veleni ideologici, come «identità». Cosa debba intendersi per memoria collettiva è domanda che ha trovato molte risposte da quando – quasi un secolo fa – il grande pensatore ebreo francese Maurice Halbwachs (morto a Buchenwald nel 1945) propose la sua geniale tesi sull’argomento. A suo avviso, le due realtà non si confondevano né si sovrapponevano: piuttosto, si succedevano e si opponevano. La storia comincia quando finisce la tradizione vivente, quando si estingue il gruppo sociale che quella memoria aveva conservato e trasmesso. Ma dai tempi di Halbwachs molte cose sono cambiate, i gruppi sociali sono diversi e non hanno piú una memoria che li leghi o che possa essere trasmessa come lascito vivente all’interno della famiglia e dell’ambiente di lavoro. L’eredità culturale è qualcosa che ogni individuo si fabbrica grazie alla scuola, alle letture, ai casi e agli incontri della sua vita essendosi dissolti ben presto dietro di lui eredità e ricordi che le generazioni precedenti non hanno avuto modo di trasmettergli. In questo il nostro tempo è diverso dalle grandi civiltà del passato su cui l’egittologo Jan Assmann ha elaborato le sue proposte sulla trasmissione di ricordi, identità e culture. Sull’esperienza del tempo presente, dominata dal contrasto fra il deposito da conservare e la ridotta capacità di ricordare, è stata la sua compagna di vita e di lavoro, l’antropologa Aleida Assmann, che ha proposto di recente una sua tesi sul tema dell’oblio: secondo lei la memoria culturale è la somma di quanto si ricorda e di quanto si dimentica. Funziona come un collo di bottiglia: vi passa attraverso solo una parte del deposito di esperienze e di ricordi. Ma come si rende possibile la selezione e la conservazione della memoria culturale di una società? Secondo la sua analisi, quello che la garantisce e governa è «il tetto protettivo delle istituzioni socialmente deputate alla conservazione del patrimonio, come gli archivi, le biblioteche e i musei»7. Grazie a loro, le cose e le persone che sfuggono all’oblio automatico vengono separate da una forbice e depositate le une nel canone, le altre nell’archivio. Entrano nel canone opere, persone, eventi destinate a fare parte del ricordo attivo della vita sociale delle generazioni future, mentre nell’archivio – una istituzione dalle tante forme e di lunghissima esistenza nelle culture della scrittura – finisce il materiale su cui si potrà esercitare la curiosità storica. Aleida Assmann ha riportato un caso esemplare, che potrebbe dare materia di riflessione agli italiani in tempi di revisione e derisione di monumenti: la vicenda postuma di uno scrittore svizzero, Wilhelm von Scholz (1874-1969) che aveva goduto vivente di grande fama e ricevuto gli onori pubblici della sua città, Costanza. Dopo la morte, lo attendeva l’oblio “conservativo”, cioè la fase di oscurità provvisoria che passa tra la celebrità del vivente e il balzo nel pantheon dei grandi artisti riservato a pochi. Ma ecco che la scoperta di una sua poesia scritta in omaggio a Hitler ha determinato misure pubbliche formali di “oblio attivo” per relegarne nome e opera nell’oscurità.
Possiamo contare dunque sull’educato e ben regolato funzionamento a regime delle istituzioni culturali per selezionare ciò che vale la pena di ricordare? O non sarà piuttosto la violenza del mutamento sociale periodico a spazzare via ogni volta le tracce del passato? Il pensiero va a come sono finite le reliquie dei sovrani di Francia con lo scoppio della Rivoluzione francese, o alla sorte delle statue di Stalin e di altri dittatori del Novecento, un tempo incontro obbligato in tutte le capitali dell’Europa continentale. E proprio sotto i nostri occhi di contemporanei si sta svolgendo la tumultuosa iconoclastia scatenatasi negli Stati Uniti col movimento del Black Lives Matter che non ha risparmiato nemmeno le statue di Cristoforo Colombo.
Non è un caso, tuttavia, che queste considerazioni di tipo antropologico e sociologico quando si concentrano sulla età contemporanea non parlino piú di memoria ma di oblio. La questione della memoria difettosa o deformata rende di nuovo attuali le esperienze e i suggerimenti ereditati da culture diverse o piú antiche, facendoci scoprire quanto delicata e preziosa sia sempre stata considerata questa facoltà della nostra specie, che essendo priva dell’istinto ereditato dalle altre specie viventi ha dovuto inventare tecniche apposite per rimediare. Cosí si è riaccesa la curiosità per le arti della memoria, nel tentativo di capire che cosa le abbia fatte ritenere importanti nel passato della grande tradizione occidentale. La loro caratteristica fondamentale era quella di connettere parole e immagini. Oggi quella piú sviluppata e che ci è piú familiare nella vita quotidiana sembra essere la connessione tra luoghi e memoria: a lei hanno dedicato la loro attenzione antropologi come Mary Douglas e Pierre Bourdieu. Ma c’è una soglia fondamentale che divide il mondo moderno dall’età preindustriale. Come ha ricordato Paul Connerton rifacendosi a Karl Marx, «il mondo moderno è il prodotto di un gigantesco processo di lavoro e la prima cosa che viene dimenticata è proprio questo processo»8. Questo perché il modo di produzione capitalista ha reificato il tempo del lavoro incorporato nel prodotto trasformandolo nel “feticcio” della merce. E il processo di cancellazione della memoria del lavoro e dei luoghi e delle storie di chi vi è impiegato è diventato travolgente con l’avvento della finanziarizzazione dell’economia capitalistica e col trionfo del neoliberismo.
È in questo contesto che la malattia dell’oblio è diventata sempre piú diffusa non solo in generale nel mondo ma in modo speciale nella realtà italiana di oggi. E il peso dell’oblio vi appare forse piú forte che altrove perché si aggiunge a una serie di trasformazioni – di tipo demografico, culturale, economico e sociale – che hanno investito con sorprendente velocità la società italiana rovesciando completamente quella che era stata per secoli la sua identità. Qui c’è come l’ingombro di un cadavere non sepolto: il passato dimenticato. Ma la crisi si avverte in realtà nelle due direzioni del passato e del futuro. Lo si segnala da piú parti come problema di diffusa ignoranza e di false idee su eventi del passato specialmente tra i giovani: un’ignoranza che si allea con un voltare le spalle al futuro, una specie di malattia della speranza. Prendiamo ad esempio un indizio minimo: il pellegrinaggio, le sue antiche tradizioni religiose e le sue forme attuali. Paul Connerton, il sociologo di orientamento marxista che ha riflettuto molto sul fenomeno dell’oblio, analizzando le forme di costruzione di memorie collegandole a luoghi, ha citato la vicenda della trasformazione di Roma in sostituzione dei genocidi e di Gerusalemme come luogo di memoria per costituirla come centro di pellegrinaggio: il disegno fu voluto da papa Sisto V e venne realizzato nei cinque anni del suo pontificato. Oggi il pellegrinaggio di memoria si presenta soprattutto nella forma di dovere civile e rito di conoscenza e di condivisione collettiva del dolore e del male causato dalla nostra specie con le guerre e gli stermini di civili. E l’epoca del secondo dopoguerra mondiale ha sviluppato specialmente quello ai luoghi degli stermini di civili e ha fatto del lager di Auschwitz il luogo proprio della memoria: un obbligo del ricordare come unico argine difensivo dal pericolo di ripetizione dell’orrore della Shoah. Ma nell’Italia d’oggi questi pellegrinaggi da un lato sono visti come propaganda politica di parte, dall’altro sono ben lungi dal raggiungere l’obbiettivo che si propongono. Secondo i dati del sondaggio 2020 di Eurispes Italia, oggi il 15,6 per cento della popolazione italiana crede che la Shoah non sia mai esistita. Nel 2004, era il 2,7 per cento. Che cosa è accaduto e che cosa non ha funzionato nella trasmissione delle conoscenze? Si è trattato di una deficienza dell’insegnamento scolastico? Se cosí fosse, basterebbe rafforzare lo studio della storia, magari rendere effettivo l’obbligo di conoscere il Novecento. Non è cosí. È vero che c’è stato un progressivo deperimento della qualità della scuola. E c’è stato un ancor piú forte oscuramento nella percezione dell’importanza della storia, tanto che di recente un ministro nel candore della sua ignoranza ha immaginato giunto il tempo di regalare alle famiglie la cancellazione dell’intera materia dall’esame di maturità. Non sapeva, quel ministro,...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Un tempo senza storia
  4. I. Le intermittenze della memoria
  5. II. Le intermittenze della storia
  6. III. La rivoluzione, lo Stato, lo spirito del mondo a cavallo
  7. Epilogo. Il passato prossimo, il futuro e la speranza
  8. Postilla scritta in tempo di peste
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright