Alla prima occasione feci il pieno. Il fatto stesso di avere una macchina era un problema, lo sapevo. Alla stazione di servizio non c’erano emissari, ma c’era una videocamera di sicurezza che cercai di non guardare. C’erano altre donne scappate prima di me, dovevano esserci, perché era inconcepibile che non ci fossero, perché credere in qualcosa è la prima legge della sopravvivenza.
Guidai per ore, prendendo le strade principali per fare piú in fretta, sebbene non sapessi se la promessa di darmi mezza giornata di vantaggio fosse reale. Alla fine mi fermai a riposare in una piazzola attorniata dalla polvere rossa. Piazzai delle vitamine sotto la lingua e reclinai fino in fondo il sedile del guidatore, poi misi la testa fra le ginocchia come se mi sentissi svenire, e scoppiai a piangere raggomitolata su me stessa.
Ero un animale femmina a sangue caldo. Ero una bambola con un’altra bambola dentro. Ero il pollo che un giorno avevo aperto scoprendo che per sbaglio gli avevano lasciato dentro lo stomaco una sacca perlacea ancora piena delle granaglie del suo ultimo pasto.
L’orologio del cruscotto diceva che presto le dodici ore sarebbero scadute. Presto dal luogo dove avevo messo su casa sarebbero partiti degli emissari in cerca di un’auto come la mia, di una donna come me.
Ma dovevo prendermi un po’ di tempo per piangere sulla mia casa, la mia povera casa che non aveva fatto niente di male, che adesso era piena di gente che mi odiava e aveva distrutto tutte le mie cose, e per quanto, date le circostanze, sembrasse futile piangere per delle cose materiali, tutte quelle cose avevano costituito la mia vita, ed era dura pensarci.
Avrei voluto parlare col dottor A, un impulso quasi spasmodico. Avrei voluto essere di nuovo nella stanza della clinica, col rumore dell’aria condizionata a riempirmi le orecchie, ma era troppo lontana, e io mi ero già allontanata troppo da tutti.
Quando ebbi smesso di piangere, mi tirai su a sedere con le braccia intorno alle ginocchia e osservai gli agricoltori che coltivavano i campi, in ginocchio con le mani a coppa intorno ai germogli verdi. Le teste avvolte in un cappuccio o nella garza per proteggersi dai pesticidi. Che bello essere una persona che faceva crescere le cose, che vangava il suolo e aspettava. Sembrava cosí semplice.
Mi fermai in una cittadina turistica, che probabilmente in piena estate sarebbe stata stracolma di gitanti, mentre in quel periodo era deserta. Le canalette di scolo della strada principale erano ostruite dai rifiuti di plastica. Era quasi tutto chiuso, ma c’era un bagno pubblico ancora aperto. Scesi i gradini e scavalcai il tornello. Il pavimento era pieno d’acqua, come se di recente si fosse allagato. Dal gabinetto degli uomini provenivano voci distorte, o forse l’eco di un’unica voce. Quella voce, o voci, non si avvicinò, e dopo un po’ tacque, il che fu peggio ancora.
Sulla parete c’era uno specchio perfettamente quadrato, con chiazze di ruggine. Mi venne un’idea. Presi dalla borsa le forbici da cucina, mi afferrai una ciocca e la segai via. La mia lunga chioma era bella, mentre il resto di me non lo era, ma non esitai. Mi ci volle solo qualche secondo, e ora i capelli mi scendevano irregolari attorno alla mascella. Sentivo la testa molto piú leggera. Li abbandonai sul pavimento per chi li avrebbe trovati, e mi allontanai stando molto attenta a non calpestare quello scalpo scuro.
Alla fine un negozio aperto c’era, un emporio che vendeva un po’ di tutto, dal latte ai cacciaviti. La luce al neon sfarfallava. In fondo, accanto ai rotoli di carta da pacchi, trovai una risma di cartoncino rigido bianco. Era lucido: cartoncino per dipingere o disegnare.
Di nuovo in macchina, trasalivo ogni volta che vedevo un uomo o una donna in uniforme. Scorgevo di continuo con la coda dell’occhio cose oscure e terribili, che poi si rivelavano essere un albero, l’angolo di una casa, un’ombra proiettata dal sole.
Superato il paese successivo, trovai un albergo aperto, lungo una strada stretta e tortuosa che si arrampicava fra le montagne. Piú a nord c’era anche il paese della mia infanzia, ma non ci sarei tornata. Era probabile che lí ci fossero già degli emissari ad aspettarmi. La mia paranoia era come una sostanza fisica, una pittura ad acquerello che tingeva tutto. Tuttavia parcheggiai come se fosse una cosa normale, come se andasse tutto bene.
Un ragazzo con una fioritura di acne sulla fronte e una camicia rossa senza cravatta scrisse sul registro il cognome di R, poi mi diede una chiave dorata. Un piccolo atto di ribellione. Il suo nome mi era sempre piaciuto piú del mio. «Scusa, maritino», pensai con soddisfazione. Sull’ascensore non c’era nessuno, guardai scorrere i numeri finché non arrivammo al mio piano. Ci fu uno scampanellio, e la moquette col suo vorticoso motivo cachemire lasciò il posto alle chiare piastrelle quadrate del corridoio, sul cui soffitto c’era un’unica luce funzionante. Superai otto porte blu. La mia era l’ultima. Era tutta graffiata intorno alla serratura, come se la gente avesse avuto difficoltà ad aprirla. Si aprí con un clic, e me la richiusi alle spalle.
Trovai sulla credenza un piccolo bollitore, lo riempii e lo misi a scaldare. Aprii i rubinetti della vasca da bagno color avocado e ci tenni la mano sotto finché l’acqua non fu troppo calda. La luce del bagno era troppo forte, ma la lasciai accesa per poter fare l’inventario del mio corpo. L’acqua aveva un gusto minerale quando affondai la testa sotto la superficie. Macchie di ruggine intorno alla base dei rubinetti. La pancia venne a galla come se fosse vuota. I capelli mi si appiccicarono alla testa e al collo. Su una caviglia avevo un graffio che non ricordavo di essermi fatta, e pensai al mio sangue che si mescolava col sangue del bebè che avevo dentro, e mi chiesi se ci fosse una qualche separazione, se io contassi come uno o come due. Povero bebè, costretto a bere il mio sangue. Misi di nuovo la testa sott’acqua. Aprii gli occhi in modo da vedere la luce.
Mi chiesi cosa stesse facendo R. Non riuscivo a immaginarlo nudo in una vasca da bagno, vulnerabile e tentato dall’annegamento. Riuscivo solo a immaginarlo disteso sul mio divano, mentre decretava che il desiderio era scomparso. Mi chiesi se stesse gettando le basi per una vita senza di me, cercandosi una nuova donna da qualche parte in città, con mani pulite e occhi freddi. Forse nessuna biglietto-bianco l’avrebbe voluto, pensai malignamente. Ma sapevo che non era cosí.
Mio padre si era trasferito dalla città alla campagna. Una vita migliore, aveva detto. Pensai a lui e mi chiesi se abitava ancora nella casa in cui ero cresciuta, andando di stanza in stanza, spazzando le assi del pavimento e accogliendo gli amici che venivano a trovarlo per una birra e una partita a carte, come ai vecchi tempi. Una vita tranquilla. Magari era morto. Gli avevo telefonato una volta dalla città per dirgli che ero arrivata ed ero al sicuro. «Al sicuro» era diventata un’espressione relativa. Lui aveva detto Bene, e Riguardati, poi per qualche ragione non ci eravamo mai piú sentiti, come se ormai il suo dovere l’avesse fatto. Non sapevo se mi mancava. Pensai alle acque limpide della vita adulta, al fango attraverso cui dovevi nuotare. Alla ragazza nell’altra stanza, l’unica cui era stato assegnato un biglietto bianco. Mi era passata accanto in macchina, immobile, salva.
La pittura color pesca alle pareti avrebbe avuto bisogno di una rinfrescata. Uscii dalla vasca e tirai le tende di tulle. Un attacco di nausea; rientrai in bagno e mi aggrappai con entrambe le mani al lavandino. Avrei dovuto lavarmi i capelli. Alla luce avevo un colorito giallastro. Pensavo solo al benessere, e quant’era remota per me quella sensazione. Il benessere era un luogo dove non potevo andare. Il benessere non lo si trovava nelle camere d’albergo. Il benessere era una condizione permanente, non il continuo mutare del mio corpo cosí com’era adesso. Tutti i corpi passati per quella camera avevano lasciato la loro forma sul materasso e le loro impronte digitali sulle tazze, cosí come avrei fatto anch’io; avevano lasciato la loro tristezza ad accumularsi come la pelle morta della loro polvere. Quante di loro erano state incinte? Trovavo ancora terribile pronunciare quella parola. Incinta! bisbigliai. Non osavo dirlo ad alta voce.
Quando fui asciutta e avvolta in un sottile asciugamano pulito feci un inventario dei miei averi. Svuotando le tasche della giacca trovai un rossetto scuro, residuo di un’altra epoca. Avrei voluto scrivere qualcosa sul muro, in un posto segreto, ma non ne avevo il coraggio. Invece me lo misi e osservai il mio volto vecchio-nuovo e baciai lo specchio, come a dire «Sono qui», poi lo ripulii dalla traccia che avevo lasciato. Presi le forbici da cucina e ritagliai un finto biglietto bianco dalla risma di cartoncino che avevo comprato, usando come modello il mio biglietto blu. Non venne molto bene. Mi tremavano le mani. Feci un altro tentativo, poi un altro, tutt’e due un po’ migliori. Infilai il biglietto blu nel portafoglio, dietro tutte le altre cose. Nel medaglione, quello bianco, falso. Spensi le luci della camera e scostai le tende per dare un’occhiata alla strada. Mi parve di vedere una sagoma scura nel parcheggio, ma mentre la fissavo scomparve.
La mattina mentre me ne andavo sentii sulla schiena gli occhi penetranti del ragazzo alla reception, ma quando mi girai vidi che stava sfogliando i giornali. Forse davo troppa importanza alla mia indegnità, perché dopotutto nessuno sapeva ancora cos’ero. Provvisoriamente ero un’altra persona, e questo era una specie di dono, mi dissi, perché avevo sempre voluto sperimentare un’altra vita, e adesso potevo farlo. In auto finsi di stare andando a prendere mio figlio, o figlia, a scuola, e di avere un marito che nel frattempo ci stava preparando un bel pranzetto, e che fra poco quel figlio, o figlia, sarebbe salito in macchina dicendo che mi voleva bene. Era un’immagine nebulosa: riuscivo a raffigurarmi solo una figura adulta in miniatura che mi fissava intensamente dal sedile posteriore. Quando mi guardai nello specchietto mi resi conto di non essermi neanche pettinata, e che il mio viso troppo familiare era sgualcito dall’ansia dove aveva sfregato contro il cuscino. E, tutto considerato, l’incantesimo si ruppe.
Guidare era monotono anche col basso continuo della paura, con l’istinto di scappare. Accesi la radio e poi la spensi. Non sapevo cosa ci si aspettasse da me. Ogni tanto svoltavo in una traversa, seguendo un percorso tortuoso per far perdere le mie tracce. La mancanza di una minaccia visibile era snervante, ottundente, come se mi trovassi sotto l’effetto di una droga. Quando ebbi superato un’altra giornata fui contenta e decisi per un altro albergo, a una certa distanza dalla strada. Questo era tutto in sfumature di verde: moquette color salvia, pareti mela chiaro, una tinta piú scura per la pannellatura. Questa volta alla reception c’era una donna, piú giovane di me, dolce e dall’aria distratta, però mi fidavo di piú dell’innata smemoratezza degli uomini. Con l’eccezione del dottor A, mi sembravano meno capaci di guardarmi dentro.
Nella stanza, la solita irrequietezza. Il desiderio di uno slancio in avanti. Per scuotermi via un po’ di energia dalle ossa, all’imbrunire andai a fare una passeggiata lungo la strada dell’albergo. Intorno, il paesaggio era piatto e torboso, campi coltivati e distese di erbacce marroni. Una pecora in lontananza alzò la testa per guardarmi e non staccò gli occhi da me finché non mi fui allontanata. Mi mancavano le strade pulite dei quartieri residenziali e l’ordine del mio giardino, l’erba, i semi su cui un tempo avevo riversato i miei istinti materni.
Qualche centinaio di metri piú avanti c’era un piccolo locale notturno. Dentro, alle pareti erano appese luci lampeggianti rosse e verdi, rosse e verdi. Un’azzimata giovane donna versava un liquore nero in bicchieri strettissimi, e li spingeva lungo il bancone. Non c’erano molte persone, ma quelle che c’erano sembravano piuttosto irascibili. Sgusciai dentro e tutti si girarono a guardarmi. Prima che potessi dire di no, la donna mi riempí un bicchiere. Festeggia con noi, mi disse. Presi il bicchiere e me lo portai alle labbra. Bruciava in gola, sapeva di anice.
Cosa state festeggiando? chiesi, confusa. Il ritorno della volpe blu, mi disse un uomo dal viso rubizzo, piú alto di me di almeno due teste. Fece tintinnare il suo bicchiere contro il mio. È una varietà di volpe che torna da noi quando comincia a far caldo. È bellissima. E molto rara. In nessun altro angolo di questo Paese hanno una creatura simile.
Il maglione nero mi occultava le forme. Mi mimetizzavo nell’oscurità del locale. Tutti parlavano di questa volpe. Qualcuno mi fece vedere una fotografia, un riquadro umidiccio stretto fra le dita. Ma non è blu, dissi, e tutti risero come se avessi detto qualcosa di comico, alcuni addirittura con le lacrime agli occhi. Blu non significa sempre blu, mi spiegò qualcuno. Oh, dissi, ma quell’affermazione mi aveva turbato piú del dovuto. Sentivo il bisogno di tenermi stretta alle cose note, ai fatti e all’ordine che li governava.
Come ti chiami? mi chiesero, e io dissi: Iris. Un bel nome, dissero loro, e brindarono alla mia salute.
E tuo marito? Dov’è? chiese la barista con fare ammiccante.
Ha mal di testa, dissi. È rimasto in albergo. Ed ecco che ero diventata una biglietto-bianco con un bicchiere in mano. Ed ecco che avevo trovato il mio posto. Un’altra vita da sperimentare.
Mi ritrovai in un angolo con un uomo piú giovane, sciarpa di lana color cielo rigirata tre volte intorno al collo. Aveva l’aria dolce, come un fratello. Blu, dissi ad alta voce, toccandogli la sciarpa. Quante storie, mi disse lui a voce molto bassa. Continuavo a chiedere dell’acqua, e ogni volta tutti ridevano. L’uomo aveva capelli neri e ricci, e mi posò delicatamente una mano sull’avambraccio. Poi me la passò intorno alle spalle. Non volli dire niente per non offenderlo, in fondo era cosí am...