Terra di lacrime
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Terra di lacrime

L'esplorazione e il saccheggio dell'Africa equatoriale

  1. 528 pagine
  2. Italian
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Terra di lacrime

L'esplorazione e il saccheggio dell'Africa equatoriale

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Come le grandi potenze coloniali europee, mercanti arabi e affaristi americani si spartirono l'Africa equatoriale e il bacino del Congo, trasformando in pochi decenni una «terra incognita» in una delle aree d'Africa piú brutalmente sfruttate. Un momento cruciale nella storia del colonialismo; una vicenda di spietati carovanieri, esploratori, soldati, schiavisti e avidi uomini di potere; di ideali infranti e di comunità ed ecosistemi irrimediabilmente devastati. Per secoli, gli abitanti della foresta pluviale del Congo tennero a debita distanza le dirompenti forze dell'economia globale. Ma alla fine dell'Ottocento, in sole tre decadi, il cuore dell'Africa venne completamente trasformato; tanto che all'inizio del Novecento, il bacino del fiume Congo era diventato uno dei luoghi piú sfruttati della Terra. In Terra di lacrime, l'autorevole storico Robert Harms ricostruisce il cao-tico processo che permise tutto ciò. Negli anni settanta dell'Ottocento, commercianti, esploratori e uomini di potere giunsero nella regione da Arabia, Europa e America. Qui diedero inizio a uno sfrenato commercio di avorio e gomma per i mercati occidentali, e di schiavi per le coste dell'Oceano Indiano. Al centro di questo processo vi furono tre uomini: Henry Morton Stanley, un esploratore gallese che lavorava per conto del re Leopoldo del Belgio; Pierre Savorgnan de Brazza, un italiano originario dello Stato Pontificio che fondò un impero in nome della Francia; e Tippu Tip, un uomo di nascita mista (africana e araba) che costruí un vasto impero commerciale nell'Africa equatoriale, prima per il sultano di Zanzibar e poi alle dipendenze di Leopoldo. Uomini dalle identità ambigue e non sempre leali, le cui traversie si sovrappongono alle devastazioni subite dal Congo. Muovendosi dai remoti villaggi africani fino alle riunioni delle diplomazie europee o alle fabbriche del Connecticut di tasti in avorio per pianoforte, Terra di lacrime ci fa scoprire in che modo l'Africa equatoriale venne fatalmente intrappolata nel nostro mondo globale.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858437407
Argomento
Geschichte
Capitolo primo

Maniema

Il lago Tanganica giace nella parte piú remota del continente africano, a circa 2400 chilometri di distanza dall’oceano Atlantico e a 1200 chilometri da quello Indiano. Con la sua estensione di 660 chilometri da nord a sud è il lago d’acqua dolce piú lungo del pianeta. Non supera mai i 72 chilometri in larghezza e in alcuni punti non arriva a 16, e si annida all’estremità meridionale di una valle montagnosa che i geologi chiamano l’Albertine Rift. La valle è talmente infossata che il lago raggiunge la profondità media di 570 metri, e la massima di circa 1600. Le montagne che lo circondano, con cime innevate che raggiungono i 5000 metri, creano una barriera che rende il clima e l’ecosistema della parte occidentale molto diversi da quelli della parte orientale. Le nuvole cariche di pioggia provenienti da ovest si svuotano di gran parte dell’acqua mentre tentano di sollevarsi al di sopra delle montagne. Ne consegue che le foreste tropicali predominano a ovest dell’Albertine Rift, mentre a est si trovano principalmente savane secche e umide1.
Nel corso del XIX secolo la città commerciale di Ujiji andò estendendosi sulla riva orientale del lago Tanganica, diventando il punto di riferimento e il termine dell’intricata strada carovaniera che serpeggiava per oltre mille chilometri attraverso la savana dell’Africa orientale fino a Bagamoyo, sulla costa dell’Oceano Indiano. L’esploratore inglese Richard Burton giunse a Ujiji nel 1858, ma restò deluso nel trovare soltanto «qualche topaia sparpagliata, costruzioni miserabili circondate da campi di sorgo e di canna da zucchero». Tratto in inganno da una mappa tedesca che la segnalava come «die Stadt Ujiji» (la città di Ujiji), si aspettava una grande metropoli, con un molo sul lago e un mercato. Scoprí che il molo era uno spiazzo di terra distinguibile dal resto solo per l’erba appiattita, una modesta interruzione della fiorente vegetazione spontanea. A circa 90 metri a nord del lago c’era il mercato, un vasto appezzamento di nuda terra dove merci diverse venivano vendute all’aria aperta. La città non si era sviluppata perché le carovane compravano ciò che serviva, pesce essiccato e altre provviste, per poi andarsene il piú presto possibile2.
All’estremità orientale della tratta carovaniera si trovava la piccola isola di Zanzibar. Lunga soltanto 104 chilometri e larga 30, era situata nell’Oceano Indiano, a soli 35 chilometri di distanza dal porto di Bagamoyo. Fin dal XIII secolo, o prima ancora, era stata abitata da popolazioni di lingua swahili che praticavano l’Islam, vivevano nelle città costiere e mantenevano rapporti commerciali con il piú vasto mondo dell’Oceano Indiano. Durante il XVIII secolo Zanzibar e l’adiacente costa di Mrima finirono sotto il controllo del sultanato dell’Oman (nella Penisola Arabica, sul Golfo Persico) e i mercanti arabi dell’Oman cominciarono a migrare verso Zanzibar e la costa di Mrima, unendosi a quelli indigeni di lingua swahili. Col tempo le identità delle due comunità mercantili islamiche cominciarono a fondersi attraverso i matrimoni, e molti arabi dell’Oman crescevano parlando lo swahili meglio dell’arabo.
I viaggiatori europei erano soliti riferirsi a qualsiasi commerciante carovaniero musulmano e vestito con abiti di foggia araba come a un «arabo», ma l’esploratore scozzese David Livingstone utilizzava invece una varietà di termini per descrivere i commercianti incontrati sul suo cammino: arabi, arabi neri, arabi neri mezza-casta, arabi neri delle coste, arabi di casta inferiore, arabi costieri mezza-casta, e arabi neri swahili. La sua terminologia suggerisce un’ampia varietà di identità distinte riunite sotto il termine «arabo». Livingstone descrisse Khamis wad Mtaa, un trafficante carovaniero originario di Zanzibar, come un «arabo nero swahili», ma il celebre mercante conosciuto con il nome Tippu Tip sosteneva che Khamis non fosse affatto arabo. Per Livingstone essere «arabo» era una questione di religione, abito e stile di vita, mentre per Tippu Tip erano importanti la genealogia e lo status sociale3.
I venti monsonici dell’Oceano Indiano rendevano l’isola di Zanzibar una destinazione ideale per le imbarcazioni a vela. Nel XIX secolo era l’approdo di velieri provenienti dalle destinazioni piú remote, come Gujarat, Oman, Amburgo, Liverpool, il Massachusetts e Rhode Island. Il ruolo centrale di Zanzibar nel commercio dell’Oceano Indiano occidentale trovò ulteriore conferma quando l’Inghilterra, la Germania, la Francia e l’America stabilirono lí i propri consolati tra il 1830 e il 1840. Quando Henry Morton Stanley, un giornalista del «New York Herald», arrivò a Zanzibar nel 1871 la descrisse come la Baghdad dell’Africa orientale. «È il grande mercato che attira i commercianti d’avorio dall’interno dell’Africa», scrisse. Gli dissero che 5000 talleri di Maria Teresa di merce acquistata a Zanzibar potevano essere rivenduti per 15000 talleri a Ujiji (i talleri di Maria Teresa erano monete d’argento coniate dalla monarchia asburgica e utilizzate come moneta di scambio nell’Oceano Indiano occidentale). Nel viaggio di ritorno l’avorio acquistato a Ujiji per 20 talleri a frasila (15 chilogrammi), poteva valere fino a 60 talleri a Zanzibar4.
Prima del 1825 Zanzibar aveva semplicemente esportato l’avorio spedito lí da capi africani e mercanti dell’interno dell’Africa, ma nel secondo quarto del XIX secolo le carovane organizzate dai mercanti arabi e swahili e finanziate dai commercianti indiani residenti a Zanzibar cominciarono a viaggiare verso l’interno alla ricerca di avorio. E siccome le mosche tse-tse che infestavano la savana africana orientale spargevano la tripanosomiasi bovina, mortale per le mandrie, i cavalli e gli animali da soma, le carovane si affidavano a portatori umani per trasportare le provviste e le merci. La domanda sempre crescente in Europa e negli Stati Uniti fece schizzare il prezzo dell’avorio del 400 per cento tra il 1825 e il 1875, rendendo conveniente l’equipaggiamento e l’organizzazione di grandi carovane in grado di affrontare lunghi viaggi. L’incremento maggiore si verificò tra il 1867 e il 1873, quando in Inghilterra le vendite di zanne d’avorio provenienti da Zanzibar ebbero un’impennata del 70 per cento.
Negli anni cinquanta del XIX secolo Zanzibar esportava circa 20 000 zanne all’anno, che significava l’uccisione di 10 000 elefanti, ma già nel 1875 venivano sterminati 44 000 elefanti all’anno per l’approvvigionamento della sola Inghilterra5.
Una carovana dell’avorio attraversa l’Africa orientale, 1880 circa.
Una carovana dell’avorio attraversa l’Africa orientale, 1880 circa.
La rapidità con cui la frontiera dell’avorio si spostava sempre piú verso l’interno è ben dimostrata dalla regione a sud-ovest del lago Tanganica, dove si trovava David Livingstone nel 1867. «Gli elefanti sono dappertutto», scriveva nel suo diario il 1º aprile. Un mese dopo aggiunge: «Mi trovo nel Mwami, chiamata cosí perché è una regione piena di elefanti, ma ben pochi vengono uccisi. Fanno molti danni, mangiando il sorgo persino dai giardini, senza che nessuno li infastidisca». A dicembre, in una lettera indirizzata al segretario degli Affari esteri inglese, lord Clarendon, annota: «A volte gli elefanti mangiano il raccolto dei nativi, e sventolano le grandi orecchie ai margini delle palizzate intorno al villaggio». Tuttavia, dieci anni dopo, quando Joseph Thomson arrivò in quella stessa regione per conto della Royal Geographical Society, gli elefanti erano scomparsi. Nei quattordici mesi trascorsi a esplorare la regione dei laghi in Africa centrale, Thompson non ne vide nemmeno uno6.
Nel corso del XIX secolo la frontiera dell’avorio si stava allontanando dalla costa, mentre le carovane si spingevano sempre piú all’interno dell’Africa orientale. I commercianti arabi visitarono per la prima volta la regione di Tabora (a circa 836 chilometri dalla costa dell’Oceano Indiano, tutti da percorrere su sentieri tortuosi) intorno al 1830, e cominciarono a insediarvisi stabilmente e in numero sempre crescente dopo il 1850. L’esploratore inglese Richard Burton descriveva Tabora nel 1857 come «il punto di ritrovo dei mercanti, e il luogo di partenza delle carovane che da lí si irradiano in tutto l’interno dell’Africa centrale inter-tropicale». Situata nel cuore del territorio noto come Unyamwezi (cioè il paese della popolazione nyamwesi), Tabora era anche il sito principale per l’ingaggio di portatori. I giovani maschi nyamwesi cercavano lavoro come portatori per guadagnare il denaro necessario a sposarsi, o per diventare viaggiatori piú sofisticati, e vedere un mondo piú vasto di quello del villaggio. La partecipazione a una carovana diventò una sorta di rituale di iniziazione che trasformava un ragazzo in un uomo fatto. Alcuni portatori nyamwesi si specializzarono nella via carovaniera tra Tabora e la costa, mentre altri lavoravano su quella tra Tabora e l’interno. Spesso una carovana viaggiava con un gruppo di portatori nel tragitto dalla costa a Tabora, qui li cambiava e proseguiva con altri verso la destinazione successiva. Le carovane arrivarono a Ujiji per la prima volta verso il 1840, ma inizialmente si limitavano a brevi visite durante la stagione secca, perché la consideravano una città insalubre per fermarsi7.
Contemporaneamente alla crescita del commercio dell’avorio, nel XIX secolo si verificò anche l’espansione del commercio degli schiavi nell’Africa orientale. Lo sviluppo delle piantagioni di chiodi di garofano a Zanzibar all’inizio del XIX secolo aveva incrinato il monopolio mondiale della Compagnia olandese delle Indie Orientali: i chiodi di garofano erano apprezzati per le proprietà medicinali, aromatiche e culinarie. Nel 1840 il sultano dell’Oman spostò la capitale a Zanzibar, dando cosí inizio a un periodo di vera e propria mania per i chiodi di garofano. Gli arabi dell’Oman si insediarono a Zanzibar impadronendosi dei terreni degli abitanti di lingua swahili per farne piantagioni di chiodi di garofano, sfruttando il lavoro di braccianti ridotti in schiavitú. Nel 1840 c’erano all’incirca 17 000 schiavi a Zanzibar, ma già negli anni cinquanta dell’Ottocento se ne contavano tra i 60 000 e i 100 0008.
La popolazione di schiavi a Zanzibar si divideva in quattro categorie. Il gruppo piú ampio, gli schiavi agricoli delle piantagioni, lavorava dall’alba fino alle quattro del pomeriggio da domenica a mercoledí; giovedí e venerdí erano i giorni in cui potevano prendersi cura dei propri campi per coltivare cibo per sé e, in caso di eccedenze, per rivenderlo al mercato. La seconda categoria, gli schiavi delle città, comprendeva i domestici, i lavoratori a giornata, i portatori e gli artigiani. Venivano spesso dati in prestito alle compagnie mercantili per ripulire le resine di copale, aprire noci di cocco, caricare e scaricare le stive, o per lavorare come carpentieri e muratori. Al termine del lavoro dividevano la paga con il padrone. La terza categoria comprendeva le concubine circasse, abissine o della Mesopotamia a disposizione del sultano. Nonostante fossero delle schiave a tutti gli effetti, vivevano nel lusso e i loro figli potevano ereditare intere piantagioni e persino ascendere al sultanato. Alla morte del sultano Sayyid bin Sultan nel 1856, tutti i suoi diciotto figli maschi erano nati da concubine. L’ultima categoria contemplava gli schiavi piú fidati, che venivano impiegati come guardie armate o aiutanti nelle carovane. Godevano di un’ampia libertà durante le spedizioni, e potevano migliorare la propria situazione sia in termini economici che di potere. Un caso esemplare è quello di Khamis wad Mtaa, che crebbe a Zanzibar come uno schiavo della ricca famiglia di Abd al-Rahman Sodiq. Fu un pioniere del commercio dell’avorio nella regione dei masai, e arrivò a comandare una sua carovana, pur rimanendo sempre un subordinato del suo padrone a Zanzibar9.
Una carovana di schiavi diretta a Kilwa, 1865 circa. Gli uomini sono assicurati a rami biforcuti detti «slave sticks», mentre le donne sono legate insieme da corde strette al collo.
Una carovana di schiavi diretta a Kilwa, 1865 circa. Gli uomini sono assicurati a rami biforcuti detti «slave sticks», mentre le donne sono legate insieme da corde strette al collo.
Lo snodo cruciale per il commercio degli schiavi, cosí come per quello dell’avorio, era l’isola di Zanzibar. Nel 1870 gli archivi doganali registravano una media di 20 000 prigionieri in arrivo a Zanzibar ogni anno, 10 000 dei quali erano necessari per reintegrare la popolazione di schiavi locali. Il resto veniva spedito in imbarcazioni a vela di proprietà araba, i dhow, fino al Mar Rosso, la penisola araba, il Golfo Persico e altre destinazioni lungo la costa dell’Oceano Indiano occidentale. Gli inglesi, che avevano guidato la lotta contro il commercio di schiavi nell’Atlantico fin dall’inizio del XIX secolo, nel 1822 e nel 1845 avevano imposto ai sultani dell’Oman dei trattati che limitavano la circolazione dei dhow per il trasporto di schiavi. Avevano cominciato anche a pattugliare le coste con navi della Royal Navy per far rispettare gli accordi, ma ogni sforzo fu vano, anche perché la squadra antischiavismo poteva contare su ben pochi mezzi. Tra il 1845 e il 1860, capitava spesso che il pattugliamento contro il commercio degli schiavi avesse a disposizione una sola imbarcazione, e in ogni caso mai piú di tre. Come dichiarò l’ammiraglio Heath a un comitato speciale della Camera dei Comuni nel 1871, «Andiamo avanti cosí da 25 anni, e non abbiamo combinato assolutamente niente»10.
I prigionieri che alimentavano il commercio di schiavi nell’Africa orientale non provenivano, di regola, dalle regioni attraversate dalla tratta carovaniera centrale che portava a Tabora ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Elenco delle mappe e delle illustrazioni
  4. Terra di lacrime
  5. Introduzione
  6. I. Maniema
  7. II. La competizione per la costa atlantica
  8. III. La grande strada del commercio
  9. IV. In viaggio verso casa
  10. V. Un fiume di trattati
  11. VI. La creazione dei due Congo
  12. VII. Salvare Emin
  13. VIII. La situazione precipita
  14. IX. Società concessionarie e violenza coloniale
  15. X. Gli scandali della «gomma rossa»
  16. XI. La fine della gomma rossa
  17. Ringraziamenti
  18. Elenco dei nomi e dei luoghi
  19. Il libro
  20. L’autore
  21. Copyright