Sulle origini della vita, del significato e dell'universo
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Sulle origini della vita, del significato e dell'universo

Il quadro d'insieme

  1. 504 pagine
  2. Italian
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Sulle origini della vita, del significato e dell'universo

Il quadro d'insieme

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Attraverso brevi capitoli, ricchi di sorprendenti aneddoti storici, episodi personali e rigorose spiegazioni, scopriamo le differenze e le relazioni tra diversi mondi: quantistico, cosmico e umano. Quella di Carroll è una visione scientifica dell'universo senza precedenti, dove la meccanica quantistica e la relatività generale incrociano filosofia ed esperienze quotidiane e che, muovendosi dal big bang al significato dell'esistenza, ambisce a restituire una spiegazione complessiva della realtà. Un tour de force da affiancare alle opere di Stephen Hawking, Carl Sagan, Daniel Dennett ed Edward O. Wilson.

«Un libro che tutti dovrebbero leggere».
Carlo Rovelli Dove siamo? E perché siamo proprio qui? Le nostre credenze, speranze e sogni hanno qualche significato là fuori nel vuoto? Il pensiero e le intenzioni degli uomini potranno mai accordarsi con una visione scientifica del mondo? Sean Carroll è considerato uno dei piú importanti fisici teorici della sua generazione, in grado di affrontare la questione del bosone di Higgs e delle dimensioni alternative dell'universo insieme ai problemi fondamentali dell'esistenza dell'uomo. In questo libro mette a frutto i suoi studi scientifici per confrontarsi con il mondo della conoscenza, le leggi della natura e le domande piú profonde sulla vita, la morte e il nostro posto all'interno del tutto.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858437223

Parte quarta

La complessità
Capitolo ventottesimo

L’universo in un bicchiere di caffè

William Paley, un ecclesiastico inglese che scrive a cavallo fra Sette e Ottocento, ci invita a immaginare una passeggiata in una delle pittoresche brughiere britanniche. All’improvviso le nostre fantasticherie vengono interrotte perché urtiamo la punta del piede contro un sasso. La cosa ci seccherebbe, ipotizza Paley, ma non ci chiederemmo di certo da dove mai possa essere uscito quel sasso. Le pietre sono una delle cose che è naturale incontrare camminando per i campi.
Immaginiamo adesso invece, durante la passeggiata, di notare per terra un orologio da taschino. Ecco un enigma: come ci è arrivato? Non è un enigma difficile, certo; presumibilmente l’ha perso qualcuno durante una passeggiata simile alla nostra. Il senso del discorso di Paley era che non ci verrebbe mai in mente che l’orologio possa trovarsi lí da tempo immemorabile. Una pietra è un semplice pezzo di materiale, mentre un orologio è un meccanismo complesso e dotato di uno scopo. È chiaro che deve averlo fatto qualcuno; un orologio implica un orologiaio.
E ciò vale, continua Paley, per tante cose in natura. Ciò che osserviamo in forma di creature viventi nel mondo naturale, afferma, ha «tutti gli indizi di un progetto»: non solo la complessità, ma anche strutture che funzionano ovviamente per uno scopo specifico. La natura, conclude, richiede un orologiaio, un Progettista, che Paley identifica con Dio.
È un ragionamento degno di attenzione. Se troviamo un orologio per terra, supponiamo davvero che sia stato progettato da qualcuno. E ci sono meccanismi specifici all’interno del nostro corpo che, per esempio, ci aiutano a scandire il tempo. (Tra questi c’è una proteina, chiamata non a caso CLOCK, «orologio» in inglese, la cui produzione svolge un ruolo cruciale nella regolazione del nostro ritmo circadiano quotidiano). Il corpo umano è molto piú complesso di un orologio meccanico. La conclusione che gli organismi biologici siano progettati non sembra un balzo particolarmente ardito.
Dobbiamo essere cauti su dove arrivare con questo balzo. David Hume, nei suoi Dialoghi sulla religione naturale, chiarí in modo convincente – e addirittura prima che Paley rendesse popolare la versione «dell’orologiaio» dell’argomento del disegno divino – che esiste una differenza sostanziale tra un «progettista» e la nostra idea tradizionale di Dio. L’argomentazione di Paley ha tuttavia un buon potere persuasivo e continua a essere popolare ancor oggi.
Immanuel Kant scriveva nel 1784 che «è assurdo […] sperare che un giorno magari possa poi nascere un Newton che renda comprensibile anche solo la generazione di un filo d’erba»1. Certo, possiamo inventare regole meccanicistiche inflessibili che governano i movimenti dei pianeti e dei pendoli, ma per rendere conto del mondo vivente dobbiamo andare al di là dei modelli privi di intelligenza. Deve esserci qualcosa che spiega la natura finalistica delle creature viventi.
Adesso abbiamo le idee piú chiare. Sappiamo persino chi è il Newton per il filo d’erba: si chiamava Charles Darwin. Nel 1859 Darwin pubblicò L’origine delle specie, in cui pose le basi per la moderna teoria dell’evoluzione. Il grande trionfo della teoria di Darwin non fu solo quello di spiegare la storia della vita come viene rivelata dalla documentazione fossile, ma di farlo senza invocare alcun tipo di fine o di guida esterna: «Un progetto senza un progettista», come la descrive il biologo Francisco Ayala.
Praticamente ogni biologo professionista accetta la spiegazione di base fornita da Darwin per l’esistenza di strutture complesse negli organismi biologici. Per citare le famose parole di Theodosius Dobzhansky, «niente in biologia ha senso se non alla luce dell’evoluzione». L’evoluzione avviene però all’interno di un contesto piú ampio. Darwin prende come punto di partenza creature che possono sopravvivere, riprodursi ed evolversi in modo casuale e quindi mostra come la selezione naturale possa agire su questi cambiamenti casuali per produrre l’illusione di un progetto. Ma da dove vengono queste creature?
Il nostro obiettivo nei prossimi capitoli è di affrontare l’origine delle strutture complesse – comprese le creature viventi, ma non soltanto – nel contesto del quadro d’insieme. L’universo è un gruppo di campi quantistici che obbediscono a equazioni che non distinguono nemmeno tra passato e futuro, e tanto meno includono obiettivi a lungo termine. Come può esserne nato qualcosa di cosí organizzato come un essere umano?
In breve, la risposta si divide in due parti: entropia ed emergenza. L’entropia fornisce una freccia del tempo; l’emergenza ci offre un modo per parlare di strutture collettive che possono vivere ed evolversi e avere obiettivi e desideri. Per prima cosa ci concentreremo sull’entropia.
Il ruolo dell’entropia nello sviluppo della complessità sembra a prima vista controintuitivo. Il secondo principio della termodinamica dice che l’entropia dei sistemi isolati aumenta nel tempo. Ludwig Boltzmann ci ha spiegato l’entropia: è un modo per contare quante diverse disposizioni microscopiche dei componenti di un sistema sono indistinguibili da un punto di vista macroscopico. Se ci sono molti modi per riorganizzare le particelle di un sistema senza cambiarne l’aspetto generale, ha un’alta entropia; se ce n’è un numero relativamente piccolo, ha una bassa entropia. L’ipotesi del passato afferma che il nostro universo osservabile ebbe inizio in uno stato di entropia molto bassa. Da lí, il secondo principio è facile da osservare: col passare del tempo, l’universo passa da un’entropia bassa a una via via piú alta semplicemente perché ci sono piú modi in cui l’entropia può essere alta.
L’aumento dell’entropia non è incompatibile con l’aumento della complessità: può sembrare che sia cosí per via del modo in cui a volte traduciamo i termini tecnici parlando informalmente. Diciamo che l’entropia è «disordine» o «casualità» e che aumenta sempre nei sistemi isolati (come l’universo). Se la tendenza generale delle cose è di diventare piú casuali e disorganizzate, può sembrare strano che appaiano sottosistemi altamente organizzati senza alcuna forza che agisca dietro le quinte.
A questa perplessità viene data spesso una risposta che è perfettamente corretta ma non centra appieno il problema. Eccola: «Il secondo principio è un’affermazione sulla crescita dell’entropia in sistemi isolati, quelli che non interagiscono con un ambiente esterno. Nei sistemi aperti, che scambiano energia e informazione con il mondo esterno, l’entropia può benissimo diminuire. L’entropia di una bottiglia di vino diminuisce quando la mettiamo in frigorifero perché la sua temperatura si abbassa, e l’entropia di una stanza diminuisce quando la rassettiamo. Niente di tutto ciò viola le leggi della fisica, dal momento che l’entropia totale continua ad aumentare: i frigoriferi espellono aria calda dal retro e gli esseri umani sudano, sbuffano e irradiano calore mentre puliscono una stanza».
Questa risposta affronta la lettera dell’obiezione, ma ne elude lo spirito. L’emergere di strutture complesse in un luogo come la superficie terrestre è del tutto compatibile con il secondo principio, e sarebbe sciocco ipotizzare il contrario. La Terra è un sistema apertissimo, che irraggia nell’universo e aumenta in continuazione la sua entropia totale. Il problema è che, sebbene ciò spieghi perché qui sulla Terra i sistemi organizzati possano nascere, non spiega perché di fatto nascano. Un frigorifero abbassa l’entropia del suo contenuto, ma solo rendendolo piú freddo, non piú intricato o complesso. E le stanze possono benissimo essere rassettate, ma a quel che ci risulta serve proprio quello di cui parlava Paley: l’azione di un’intelligenza esterna. Le stanze non si puliscono spontaneamente da sole, anche se permettiamo loro di interagire con l’ambiente.
Dobbiamo quindi ancora capire come e perché le leggi della fisica hanno portato a creature complesse, adattabili, intelligenti, reattive, in evoluzione e in grado di provare sentimenti, come voi e me.
Che cosa intendiamo per «semplice» o «complesso» e che relazione c’è fra questi concetti e l’entropia? Intuitivamente, associamo la complessità con una bassa entropia e la semplicità con una elevata. Dopo tutto, se l’entropia è «casualità» o «disorganizzazione», ci fa pensare all’opposto rispetto all’idea che abbiamo della complessa struttura di un orologio da polso o di un armadillo.
Qui la nostra intuizione va un po’ fuori strada. Pensiamo a come si mescola la panna al caffè in un recipiente di vetro. Dato che stiamo facendo un esperimento di fisica e non un rituale mattutino, facciamolo immaginando di deporre delicatamente la panna sopra al caffè e poi di mescolarli insieme con un cucchiaino. (Il cucchiaino è un’influenza esterna, ma non è guidata o intelligente).
All’inizio, il sistema è a bassa entropia. Esistono relativamente pochi modi per riorganizzare gli atomi nella panna e nel caffè senza modificarne l’aspetto macroscopico; potremmo scambiare tra loro singole molecole di panna, o singole molecole di caffè, ma se cominciamo a scambiare la panna con il caffè, il nostro bicchiere assume un aspetto diverso. Alla fine tutto è mescolato insieme e l’entropia è relativamente alta. Potremmo scambiare qualsiasi punto della miscela con qualsiasi altro punto e il sistema resterebbe essenzialmente invariato. L’entropia è aumentata nel corso del processo, proprio come ci aspettiamo in base al secondo principio.
Mescolare la panna al caffè. Lo stato iniziale è semplice e a bassa entropia. Lo stato finale è semplice e ad alta entropia. Lo stato di mezzo, con un’entropia intermedia, esibisce una complessità interessante.
Mescolare la panna al caffè. Lo stato iniziale è semplice e a bassa entropia. Lo stato finale è semplice e ad alta entropia. Lo stato di mezzo, con un’entropia intermedia, esibisce una complessità interessante.
Non è però vero che la complessità sia diminuita all’aumentare dell’entropia. Consideriamo la prima configurazione, in cui la panna e il caffè sono totalmente separati; è a bassa entropia, ma è anche palesemente semplice. Panna in alto, caffè in basso e non succede nient’altro. Anche la configurazione finale, in cui tutto è mescolato insieme, è abbastanza semplice. La si può descrivere completamente dicendo appunto «tutto è mescolato insieme». È nello stadio intermedio, tra bassa e alta entropia, che le cose hanno un aspetto complesso. Filamenti di panna si compenetrano con il caffè in modi intricati e belli a vedersi.
Il sistema panna e caffè mostra un comportamento ben diverso da un’ingenua identificazione tra «entropia crescente» e «complessità decrescente». L’entropia aumenta, come dice il secondo principio, ma la complessità prima sale e poi scende.
O, almeno, l’impressione è questa. Non abbiamo ancora dato una definizione precisa di cosa intendiamo per «complessità», come invece sappiamo fare per l’entropia, in parte perché non esiste una definizione che vada bene in ogni circostanza: sistemi diversi possono mostrare complessità in modi diversi. Va bene cosí, non è un problema: la complessità si presenta davvero in molte forme. Possiamo parlare della complessità di un certo algoritmo scritto per risolvere un problema, o della complessità di una macchina che ha un sistema di retroazione, o della complessità di un’immagine o di un progetto statico.
Per il momento, assumiamo nei confronti della complessità un atteggiamento del tipo «lo capiamo quando lo vediamo» e rimaniamo pronti a sviluppare definizioni piú formali quando le circostanze lo richiedono.
Non è solo nei bicchieri di caffè che la complessità cresce e poi cala all’aumentare dell’entropia: l’universo nel suo insieme fa esattamente lo stesso. All’inizio, vicino al big bang, l’entropia è molto bassa e inoltre lo stato è semplicissimo: è caldo, denso, omogeneo e in rapida espansione. Questa è una descrizione completa di ciò che accade; non c’è una vera differenza nelle condizioni nell’universo da un punto all’altro. Nel lontano futuro l’entropia sarà molto alta, ma le condizioni saranno di nuovo semplici. Se aspettiamo abbastanza a lungo, l’universo apparirà freddo e vuoto e avrà riacquistato la sua omogeneità. Tutta la materia e la radiazione che osserviamo attualmente saranno uscite dal nostro orizzonte osservabile, diluite dall’espansione dello spazio.
È oggi, tra il lontano passato e il lontano futuro, che l’universo ha un’entropia intermedia ma una complessità altissima. La configurazione inizialmente omogenea è diventata sempre piú irregolare negli ultimi miliardi di anni poiché minuscole perturbazioni nella densità della materia si sono trasformate in pianeti, stelle e galassie. Non dureranno per sempre; come abbiamo visto nel capitolo VI, prima o poi tutte le stelle smetteranno di ardere, i buchi neri le inghiottiranno e poi anche questi buchi neri evaporeranno. L’era di comportamento complesso che il nostro universo sta attualmente vivendo è, ahimè, temporanea.
L’evoluzione nel tempo dell’entropia e della complessità in un sistema chiuso.
L’evoluzione nel tempo dell’entropia e della complessità in un sistema chiuso.
Questa somiglianza tra lo sviluppo della complessità nei caffè e nell’universo, nonostante l’entropia sia in costante aumento, dà da pensare. È possibile che esista una nuova legge della natura, non ancora scoperta ma analoga al secondo principio della termodinamica, che riassume l’evoluzione della complessità nel tempo?
La risposta breve è «Non lo sappiamo». La risposta un po’ piú lunga è «Non lo sappiamo, ma forse sí e, se sí, ci sono buone ragioni per credere che sarà – non sorprendentemente – complicata».
Nelle mie ricerche ho lavorato proprio su questo problema, insieme ai miei colleghi Scott Aaronson, Varun Mohan, Lauren Ouellette e Brent Werness. Tutto è iniziato su una nave che solcava il mare del Nord, nel contesto di un insolito convegno interdisciplinare dedicato alla natura del tempo, di portata letteralmente internazionale: era iniziato a Bergen, in Norvegia, proseguí durante il viaggio in nave e si concluse a Copenaghen, in Danimarca. Tenni la conferenza di apertura e Scott era tra il pubblico. Parlai un po’ di come la complessità sembra andare e venire nel corso dell’evoluzione dei sistemi chiusi, usando come esempi il caffè e l’universo.
Scott è uno degli esperti mondiali di complessità computazionale, la disciplina che classifica diversi tipi di problemi in varie categorie in base alla difficoltà di risolverli. La questione lo incuriosí quel tanto da volerla rendere piú precisa. Reclutò Lauren, all’epoca studentessa universitaria al Mit, e le chiese di scrivere un semplice programma: un automa che simulasse panna e caffè mescolati tra loro. Dopo che avevamo scritto una prima bozza di articolo e l’avevamo pubblicata su internet, ci scrisse Brent per farci notare qualcosa che non andava nei nostri risultati: non c’era un errore che minava l’idea di base, ma l’esempio specifico che stavamo studiando non era adatto. Volendo far progredire la scienza, anziché ostracizzare Brent e cercare di distruggerne la carriera scientifica come punizione per la sua impertinenza, abbiamo riconosciuto che aveva ragione e l’abbiamo aggiunto come collaboratore. Scott ha reclutato Varun, un altro studente del Mit, per aggiornare il programma e svolgere ulteriori simulazioni, finché non abbiamo finalmente risolto i nostri problemi. Cosí funziona il maestoso progresso della scienza.
Nel nostro studio ci interessava in particolare quella che chiamavamo la complessità apparente del bicchiere di caffè. È correlata con quella che gli informatici chiamano complessità «algoritmica» o «di Kolmogorov» di una stringa di bit. (Qualsiasi immagine si può rappresentare come una stringa di bit, per esempio in un file). L’idea è di scegliere un linguaggio di programmazione in grado di produrre stringhe di questo tipo, come 01001011011101. La complessità algorit...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prologo
  4. Sulle origini della vita, del significato e dell’universo
  5. Parte prima. Il cosmo
  6. Parte seconda. Conoscere
  7. Parte terza. L’essenza
  8. Parte quarta. La complessità
  9. Parte quinta. Pensare
  10. Parte sesta. Tenerci
  11. Appendice: l’equazione alla base di tutti noi
  12. Bibliografia
  13. Ulteriori letture
  14. Ringraziamenti
  15. Indice analitico
  16. Il libro
  17. L’autore
  18. Dello stesso autore
  19. Copyright