L'inizio di papa Ratzinger
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L'inizio di papa Ratzinger

Lezioni sul conclave del 2005 e sull'incipit del pontificato di Benedetto XVI

  1. 176 pagine
  2. Italian
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L'inizio di papa Ratzinger

Lezioni sul conclave del 2005 e sull'incipit del pontificato di Benedetto XVI

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La fisionomia intellettuale e spirituale di papa Ratzinger, a dispetto dei semplicismi adulatori e denigratori, è tutta nota. I capisaldi del suo pensiero emergono nella biblioteca di studi, saggi, conferenze che egli aveva già pubblicato prima dell'elezione al soglio pontificio. Al contrario, lo stile di governo di Benedetto XVI rappresenta una incognita sulla quale i primi mesi del pontificato gettano luci diverse rispetto a quelle dell'èra Wojtyla. Nel conclave del 2005 ci sono alcune chiavi di lettura e forse anche un'agenda capace di spiegare lo stile del nuovo papa. Alberto Melloni ci offre un profilo del nuovo papa ripercorrendone l'elezione e l'avvio del pontificato. Un pontificato di decantazione, che con il suo rimanere appartato dalla scena mediatica riconsegna alla chiesa la responsabilità della qualità della propria vita cristiana.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858437018
I.

Il conclave del 2005

1. Il mito della svolta conclavaria.

Secondo gli studi storici della metà dell’XI secolo c’è un nesso non banale fra il restringersi del potere di elezione del vescovo di Roma al solo collegio dei cardinali e la nascita dell’idea monarchica del papato che tanto fortemente avrebbe caratterizzato la chiesa latina del secondo millennio. Anche la contestuale rottura della comunione con Costantinopoli (sancita nel 1054 e tolta nel 1965) avrebbe certo contribuito a emancipare per secoli il modo occidentale di pensare la funzione del pontefice da categorie antiche e venerabili, il cui recupero avverrà soltanto grazie a quei «movimenti» del rinnovamento cattolico del Novecento che si sono appassionatamente battuti per un riascolto della patrologia orientale, per un rinnovamento della liturgia, per un ritorno alla sacra scrittura. Tuttavia la rottura creata dai riformatori gregoriani alla metà dell’XI secolo segna la fisionomia del cristianesimo occidentale e poi romano in modo indelebile, facendo del discorso «sul papa» un caposaldo sia per chi ne voglia enfatizzare il ruolo e i poteri, sia per chi voglia denunciarne le manchevolezze. Per cui l’epiteto di «papisti» con cui i protestanti bollano i cattolici dal Cinquecento (epiteto nobilitato da Locke che definisce papista colui che non può accettare il principio di tolleranza) è una caricatura ingiuriosa, che però circoscrive quello che nella chiesa latina è quasi un marker identitario, cresciuto per via conciliare, da Firenze al Vaticano II: un cattolico non si darebbe del papista, ma non saprebbe sentirsi tale senza ritenere che il papato abbia qualcosa di centrale, eccedente, prioritario.
È forse per questo che il meccanismo di elezione del papa affidato ai cardinali da un decreto del 1049 (ancorché disatteso per decenni) e poi il suo svolgimento in uno spazio chiuso a chiave (cum clave, da cui conclave, come si dice dopo il 1241) attirano un’attenzione cosí forte da sembrare a volte parossistica. Sembra quasi che lo stesso punto di dottrina per cui lo Spirito assiste la chiesa e ne compagina la comunione valga meno quando si parla della confessione di fede o della funzione d’un vescovo qualsiasi, e si riassorba tutta e solo nell’elezione del vescovo di Roma. Non da oggi e oggi non piú di ieri, un luogo comune agita dunque il discorso pubblico, dentro e fuori i confini dell’appartenenza alla chiesa cattolica: ed è che nel conclave si decida non solo del papa, ma del destino della chiesa.
La frenesia da conclave, infatti, non è eccitata da qualche ormone della società dell’informazione, ma risale a tempi remotissimi: anzi, la stessa decisione dugentesca di segregare i cardinali aveva fin dall’inizio il compito di costringerli a una decisione rapida, di impedire loro di usare del patrimonio della chiesa romana e, non ultimo, di regolare il tipo di pressioni familiste o politiche sugli elettori che il passaggio dell’elezione del vicarius Petri portava con sé. Se infatti il papa è il supremo regolatore non solo dell’ordine ecclesiastico, ma anche del giuramento che salda il vincolo di sudditanza politica, è del tutto ovvio che ogni potere interessato al peso di Roma fra medioevo ed età moderna si agiti per far eleggere qualcuno che non gli sia politicamente ostile; se il papa è arbitro dei grandi flussi finanziari e delle grandi strategie militari, è chiaro che i banchieri che di quelle politiche sono i finanziatori vorranno contare su un cardinale sensibile alle loro ragioni, e via dicendo. L’enfasi posta sul ruolo del papa, dunque, implica per secoli l’enfasi posta sulla funzione del conclave.
Non fa eccezione l’età contemporanea: e anzi in essa vediamo che lo stesso potere legislativo del romano pontefice s’impiglia in questo «mito» conclavario, al quale ogni papa recente dedica una costituzione ad hoc, che riassume e riordina la materia, esclude i precedenti, impedisce il formarsi di prassi. Tutta la costruzione di forchette temporali per i diversi riti, poi la progressiva ossessione per il segreto che deve avvolgere l’elezione del papa viene proprio dall’idea ottocentesca che in quel momento delicatissimo la chiesa sia piú vulnerabile innanzi ai suoi nemici, e che dunque sia quanto mai necessario ridurre i tempi della sede vacante a un minimo, a un nulla, foss’anche mettendo fra parentesi una tradizione veneranda. Per questo, da Pio VII in poi, si concede al collegio un potere discrezionale straordinario sempre piú ampio, financo a concedere che alla morte del papa un gruppo ristrettissimo di cardinali presenti nel palazzo del papa possa procedere praesente cadavere, cioè innanzi alla salma del pontefice defunto, all’elezione del successore, all’insaputa dei temibili nemici della chiesa. La caratteristica del segreto stretto – che tanto affascina gli osservatori del global village – non è per nulla costitutiva dell’elezione ecclesiastica, né di quell’episcopale, né di quella del vescovo di Roma: il riserbo assoluto sulle votazioni, com’è noto, viene introdotto da Pio X proprio perché nessuno possa dare ordini ai cardinali e verificarne poi la fedele esecuzione. Papa Sarto, infatti, era stato eletto nel conclave del 1903 grazie al fatto che il cardinale di Cracovia aveva pronunciato innanzi al conclave il veto contro l’elezione del cardinal Rampolla posto dall’imperatore d’Austria: privilegio delle corone cattoliche dettato dal principio di buon senso che il papa-re non poteva essere inviso ai suoi alleati naturali, questo diritto ad excludendum contro un candidato non aveva avuto da tempo occasione di esprimersi in modo formale, perché il collegio degli elettori aveva preventivamente ristretto la rosa dei papabili a quei cardinali graditi alla Francia o alla Spagna o all’Austria. In quell’alba del Novecento, invece, Francesco Giuseppe decise di intervenire per impedire che un papa «francofilo» (come si riteneva sarebbe stato il cardinale Mariano Rampolla del Tindaro), ledesse gli interessi del trono di Vienna: pur fra molte proteste e un piú o meno sincero sdegno, Rampolla vide presto scemare il suo pacchetto di voti e al suo posto venne eletto un papa nato «austriaco» come Sarto e il cui pontificato si sarebbe concluso proprio nell’estate del 1914, allo scoppio della guerra che si sarebbe portata via gli imperi dal Danubio e dal Bosforo alla Moscova. Per evitare il ripetersi di simili imbarazzi conclavari Pio X, dopo pochi mesi di regno, abolí formalmente il diritto di veto e introdusse un inasprimento del segreto di modo che un eventuale mandato politico contro o a favore di un candidato potesse essere evaso impunemente...
La norma del segreto (al di là del candore con cui scontava che la volontà d’interferenza d’uno Stato moderno si sarebbe ritratta innanzi a tale marchingegno) non ha fatto altro che accrescere il «mito» del conclave, consolidando mediaticamente l’idea che sia in quel passaggio misterioso che si risolvono questioni non delibate altrove o altrimenti nella chiesa, che lí si scontrino correnti altrimenti trattenute dall’ipocrisia, si svelino passioni teologiche altrimenti represse dal carrierismo o dalla devozione. La realtà della storia del cattolicesimo è ben diversa: e, nello specifico, bisogna riconoscere che il segreto del conclave è stato straordinariamente friabile. Memoriali, diari, confidenze d’ambasciata, dati giornalistici – sono molti i canali che presto o tardi consentono di capire cosa è accaduto dentro la Sistina, a volte perfino con conteggi apparentemente precisi dei suffragi. Ma questi elementi arrivano tutti all’indomani delle cose, a giochi fatti: mentre il conclave c’è, innanzi alle porte chiuse, non filtra nulla. Nel Novecento della radio, della TV del web, questo muro anziché intimidire le corone cattoliche estinte, eccita il sistema dell’informazione che non ha nessun modo e nessun interesse a entrare nel processo elettorale, ma finisce per gestire lo specchio mediatico in cui la chiesa si riconosce e dunque pesa sul modo in cui si forma l’agenda conclavaria.
Imprigionati nella previsione, nella speculazione, nell’auspicio, i media fanno scelte diverse: talora (basta guardare alla linea seguita da «Le Monde» nel 1963 o nel 1978) questo induce una stampa molto rigorosa a cancellare dalla prima pagina la notizia che non ci sono notizie. In altri casi (basta sfogliare i giornali italiani del 2005 per rendersene conto) è proprio questa condizione di anossia informativa che rende i sussurri della sala stampa un fatto, le smorfie un’informazione, i pettegolezzi un tema politico.

2. La densità storica del conclave del 2005.

È dentro questo mito del conclave che si deve cercare qualche frammento di verità storica sulla sede vacante e sull’elezione dell’aprile 2005, di cui, poco oltre, proveremo a evocare le premesse e la preparazione. Perché il fatto in sé è stato tutt’altro che mitico, l’andamento tutt’altro che sconvolgente. Il conclave, coerentemente con la sua tradizione e la sua storia, ha obbedito alla ferrea regola dell’indeterminatezza: è stato brevissimo, dopo conclavi lunghi, medi o corti. Ha partorito una decisione dopo quattro scrutini con una rapidità non usuale, ma che non cambia i parametri medi né del secolo, né dell’età moderna. Ha scelto un uomo al tempo stesso imprevisto e prevedibile, come sempre accade in questi frangenti dove chi ha azzeccato il totopapa ha scommesso su qualcosa che ha avuto un senso solo quando è diventato noto urbi et orbi.
Proiettato sullo sfondo dei conclavi degli ultimi secoli e sulla quinta piú recente dei conclavi del secondo Novecento, quello del 2005 ha prodotto un cocktail, usualmente imprevedibile, fatto di tre ingredienti: ha rappresentato il ritorno del pendolo in relazione ad alcuni parametri fondamentali dell’elezione papale, ha segnato qualche continuità, ha marcato qualche innovazione che difficilmente diventerà un precedente.

2.1. Alternanze.

Il pendolo cattolico che ha alternato papi anziani e papi giovani, nel 2005 è tornato verso un papa avanti negli anni. Certo i 78 anni di Joseph Ratzinger non sono un record e per la medicina europea di oggi essi comportano un’attesa di vita e di qualità della vita ben superiore a quella che poteva accompagnare Angelo Giuseppe Roncalli, eletto quasi alla stessa età nel 1958. All’età a cui Benedetto XVI ha indossato il pallio del vescovo di Roma, Wojtyła festeggiava i vent’anni di pontificato: il che dice che la vecchia astuzia del papato «di transizione» non è stata assente nemmeno in un collegio che è entrato in conclave apparentemente sgomentato dall’idea di dover trovare un impossibile rimpiazzo al papa di tutti i record e che alla fine – dopo una serie di concistori in cui tanti pensavano che Wojtyła stesse creando il proprio delfino – ha scelto un cardinale creato da Paolo VI e già presente ai conclavi del 1978.
Benedetto XVI è stato scelto per un pontificato breve: il che non vuol dire che lo sarà, giacché se la provvidenza gli darà gli anni di vita concessi a Leone XIII, Ratzinger supererà il regno di Paolo VI. La scelta di un settantottenne, tuttavia, conferma che, nonostante le sensazioni superficiali sugli schieramenti, sulle opzioni teologiche e di governo, gli elettori hanno piú o meno consapevolmente recepito alcune delle leggi non scritte sull’andamento conclavario.
I cardinali hanno anche «obbedito» ad alternanze, piú astratte e pittoresche, che non hanno alcun senso, se non quello di indicare l’infinito riverberarsi delle variabilità: a una serie di papi nati in terre su cui s’è esercitato un dominio o un’influenza austro-ungarica (una fila che vede allineati Pio X e Giovanni Paolo II, Pio XI, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I), sono succeduti papi «forestieri» (come Benedetto XV, e ora Benedetto XVI) rispetto a quella grande culla geopolitica, non senza, però, l’eccezione del papa romano, Pio XII.
Un’alternanza assai piú significativa alla quale la scelta del cardinal Ratzinger s’è inchinata è stata invece quella fra papi di curia e papi pastori. Sia nel 1958 che nel 1963 il sacro collegio aveva tentato una via di mezzo: nel primo caso era stato eletto non un curiale, ma almeno un diplomatico di lungo corso come Roncalli, che, però, aveva avuto al suo attivo un breve lustro pastorale a Venezia; nel secondo caso la scelta di Montini premiava un uomo cresciuto dentro la curia romana e che era stato costretto da una congiura di palazzo a fare l’esperienza di arcivescovo di Milano, in una collocazione che solo nella mentalità romana degli anni Cinquanta poteva essere pensata e subita come un «esilio». Per il resto erano state invece individuate personalità ora profondamente inserite nel governo della curia romana, come Pacelli nel 1939, ora totalmente estranee a essa, come Luciani e Wojtyła nel 1978.
Prendere un prefetto di Congregazione con 24 anni di carriera romana e farlo vescovo di Roma rappresenta dunque un ritorno del pendolo verso il papa di curia: è vero che Ratzinger ha al suo attivo un quadriennio come arcivescovo di Monaco, ma quella breve stagione è stata poco significativa anche per il suo protagonista che ha accettato, dopo qualche ritrosia, di essere trasferito a Roma nel 1981.

2.2. Continuità.

In questo conclave non mancano, però, alcuni elementi di schietta continuità. Il papa tedesco è pur sempre un bianco europeo. Anzi è un bavarese che ha vissuto la stagione della secolarizzazione democratica dell’Europa occidentale con una consapevolezza intellettuale che era del tutto estranea alla biografia dei suoi predecessori.
Oltre che alla categoria del bianco europeo, Benedetto XVI appartiene a quella meno estrinseca del clero secolare: come accade da oltre due secoli, anche questo papa non proviene dalle file del monachesimo e non è membro di un ordine religioso: anzi, anche nell’elezione del 2005 il collegio cardinalizio ha confermato il luogo comune per cui il papa non lo fa un gesuita, e ha attivato, d’altro canto, il principio per cui il papa può anche simpatizzare per qualche movimento o per i movimenti in generale, ma non può essere una loro espressione, come invece è capitato nella successione episcopale di varie diocesi del mondo, affidate a preti consacrati vescovi dopo essere cresciuti per anni o da sempre alla scuola del carisma del fondatore.

2.3. Novità.

Non bisogna dimenticare, comunque, che in questo conclave si sono pure marcate alcune novità assai precise e nette, che hanno anche spiazzato coloro che (nelle diplomazie e nei giornali) avevano guardato con sufficienza a un articolo di Marco Politi, apparso su «la Repubblica» del gennaio 2005, nel quale non ci si limitava a lanciare qualche ballon d’essai, ma si rivelava l’esistenza e la forza di un partito che voleva portare il cardinale Ratzinger al papato. In quel momento apparivano ben visibili le ragioni che facevano ritenere improbabile una tale evenienza e che, a giochi fatti, sono gli elementi piú innovativi di questa elezione.
La collocazione istituzionale del prefetto Ratzinger non era quella dalla quale piú facilmente si giunge al papato: anzi, proprio l’aver gestito la Congregazione che fino al 1968 si attribuiva il titolo di Suprema non era certo un vantaggio elettorale. La Congregazione per la dottrina della fede è quella che provvede a somministrare le condanne dottrinali, a gestire le denunce, a filtrare le nomine e a ponderare lo stesso magistero papale: cosa che da sempre rende i piú alti funzionari poco accetti sia ai circuiti teologici, sia ai vescovi e superiori sopra le cui teste passano le censure che quell’autorità pronunzia, sia a coloro che ne deprecano l’inerzia (come nel caso recente dell’arcidiocesi di Boston, il cui titolare, il cardinale Bernard Law, accusato di gravi sottovalutazioni dei crimini commessi da alcuni suoi preti, non è stato chiamato a risponderne o a discolparsi). Che il problema esistesse lo testimonia il fatto che se si rovista nei precedenti si troverà che prima di Ratzinger, salí alla cattedra di Pietro dallo scranno del Sant’Ufficio il «feroce» Carafa (come lo bollava il giovane Ratzinger): e la sua fu un’esperienza tale da aver convinto per secoli i cardinali a non cercare in quel palazzo il nuovo papa. Che Joseph Ratzinger non sia Carafa, che Benedetto XVI non sia Paolo IV, lo sanno tutti: ma certo nella sua elezione s’è violato un tabú apparentemente solido.
Non meno inedita e dirompente è stata la decisione di eleggere papa un tedesco. Per secoli i figli della terra di Lutero non erano nemmeno stati considerati dei papabili: per di piú all’indomani della seconda guerra mondiale l’ostracismo ai tedeschi dalla leadership delle strutture di rango internazionale e multinazionale s’era impastato di un pregiudizio antinazista talmente profondo da diventare un istinto, di cui recano fedele traccia gli organigrammi delle istituzioni europee e multilaterali. Anche dopo la caduta del Muro di Berlino e la simbolica soglia del nuovo ’89 nessuno aveva osato affidare alla Germania (diversamente dal caso austriaco) un ruolo di prima grandezza: non solo nel dibattito sulla riforma del Consiglio di sicurezza dell’ONU, ma perfino nella creazione della Banca centrale europea, nella designazione del presidente della Commissione dell’UE o nella nomina del presidente della Convenzione per il progetto di costituzione europea le pur plausibili candidature tedesche non avevano nemmeno varcato la linea delle ipotesi. Per primo, dunque, il collegio dei cardinali della chiesa cattolica ha segnato il primo atto pienamente postbellico (A German is elected Pope, titolava con enfasi l’«Herald Tribune» a cose fatte): il conclave ha sancito la fine della conventio ad excludendum, che per quanto levigata dal cinquantennio democratico della Repubblica federale di Germania, dalla partecipazione dell’episcopato e del ceto teologico tedesco in funzione di guida al concilio, dal contributo alla distensione offerto alla Ostpolitik dalla leadership socialdemocratica e dalla prova di lungimiranza del cancelliere Kohl al momento della crisi polacca e poi dell’unificazione tedesca, ancora persisteva (persiste?) ad altri livelli.
Sulla caratteristica piú personale di Joseph Ratzinger – quella di essere un teologo e un professore di dogmatica – poggia un’altra delle cesure che il conclave del 2005 ha voluto segnare. Com’è ovvio e visibile, quel filo di dovuta osservanza che circonda la figura del sovrano pontefice fa sí che ogni sua esperienza o particolarità diventi rapidamente oggetto di apprezzamento e talora di sgradevole adulazione: per cui non bisogna dar molto peso alle spiegazioni ex post fornite da osservatori e cardinali secondo i quali la «grande preparazione» di Ratz...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’inizio di papa Ratzinger
  4. PROLOGO
  5. I. IL CONCLAVE DEL 2005
  6. II. L’ELETTO
  7. III. L’INIZIO
  8. IV. DECANTANDO
  9. Spunti di lettura
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Dello stesso autore
  13. Copyright