Se c’è una cosa di cui Stephen Crane non ha paura è la ripetizione. Nel Segno rosso del coraggio la truppa è designata come esercito o reggimento a seconda dei casi, ma il reggimento in azione è sempre «la linea», termine che definisce sia il fronte d’attacco sia l’inquadramento per ranghi, mentre piú propriamente dovrebbe riferirsi alla sola prima fila dello schieramento; anche quando i soldati avanzano in colonna (perlopiú gli spostamenti avvengono fra i boschi) sono «la linea»; a inginocchiarsi, a ricaricare, a sparare, ad avanzare o retrocedere è sempre «la linea». Quanto a loro, i soldati sono semplicemente «gli uomini»: gli uomini «grigi» e gli uomini «blu». Fra gli uomini blu pochissimi aspirano a un’individualità romanzesca, comunque depressa dalla caratterizzazione esteriore: il protagonista è «il giovane» o «il soldato giovane», e i suoi interlocutori sono sempre «il soldato alto» (poche volte Jim Conklin), «il soldato chiassoso» (chiamato solo nel finale Wilson), «il soldato sbrindellato». Tanta iterazione ha tratto in inganno lo stesso Conrad, secondo il quale il protagonista «rimane tutto il tempo senza nome»1: in realtà, cinque volte in tutto, viene chiamato Henry Fleming. Ossessivamente ripetitivi sono anche gli attributi della guerra come «bestia scarlatta» e dell’esercito nordista come «spettacolo blu», la colorazione della terra sempre «marrone», delle esplosioni sempre «rosse», del fumo sempre «azzurro», e cosí via. Corrispettivo sintattico di questa tendenza, la brachilogia e la paratassi: periodi brevissimi, di norma monoproposizionali, tanto che nella traduzione è quasi impossibile resistere alla tentazione di fondere e movimentare le frasi. Un’elementarità, questa, ulteriormente accentuata dalla regolare ripetizione dei soggetti («il giovane» su tutti) e dei verba videndi e cogitandi (vide, guardava, pensò, credette, ecc.). E dunque? È sufficiente per dedurne povertà di mezzi? Certamente no, se da queste basi si giunge comunque a un’intensità espressiva riconosciuta da tutti i lettori e quasi tutti i critici, Conrad in testa. È evidente che da qualche parte, celata fra le righe, dev’esserci un’alchimia. Inizialmente avevo pensato che potesse trattarsi di un effetto mimetico: in presa diretta, in tempo reale, la frase di Crane riporta le emozioni del giovane in battaglia con l’evidenza grafica di un sismografo o di un elettrocardiogramma. In parte può anche essere cosí, ma non si spiegherebbe allora la continuità fra scene di guerra e scene di attesa (bivacchi, spostamenti, guardie, conversazioni, meditazioni), queste non meno frante e concitate di quelle. Bisognerà prendere atto, invece, dell’estro metaforico e analogico di Crane, che a dispetto di ogni naturalismo, e contro la stessa formula dell’impressionismo, trasfigura l’esperienza del suo protagonista in una surreale allucinazione: i falò notturni sono occhi o «bizzarri fiori rossi», le bandiere «magnifici uccelli» dagli «strani becchi e artigli, come di aquile», i nemici «draghi» o «brigate d’acciaio» formate da «automi» o «pupazzi manovrati da un mago», la propria colonna sembra «uno di quei mostri che si muovono su molti piedi» o uno «di quegli enormi rettili striscianti», le bombe ululano come «demoni delle tempeste» esplodendo in «strani fiori di guerra», le nuvole di fumo sono fantasmi, la battaglia è una «macchina immensa», un ingranaggio di «vomeri roventi», una «fornace», la guerra è un «mostro proteiforme» dotato di «bocche infernali», una «bestia scarlatta», un «dio gonfio di sangue» nel cui tempio i soldati «faticano come schiavi», i commenti dei sopravvissuti sono «creature nere che sbattono le ali tetramente vicino al terreno», la rabbia del protagonista uno «spettro scuro e tempestoso» (ma insieme a queste immagini mostruose, anche una similitudine di straordinaria modernità, quando il giovane corre «come un giocatore di football»2).
Inesperto di battaglie (nacque nel 1871, cinque anni dopo la fine della Guerra di Secessione), il giovane Crane ebbe la felice incoscienza e la spudorata pretesa di raccontare la guerra dal punto di vista delle emozioni di un singolo soggetto, emozioni che non avendole vissute non poteva conoscere, e che dunque dovette ricostruire per via di intuizione se non di divinazione («un veggente ispirato» lo definisce Conrad3). Oggi chiunque può immaginarsi in guerra, anche per lo straordinario contributo del cinema: basti pensare alla sequenza iniziale di Salvate il soldato Ryan o del piú recente 1917, fondato sull’ipotesi tecnicamente impossibile di un unico piano-sequenza. Ma nel 1894, anno in cui il romanzo uscí a puntate sulla «Philadelphia Press» e altre testate collegate4, Crane non poteva contare né sul cinema né sui libri, o almeno non su racconti vividi e suggestivi (di una serie di resoconti pubblicati in rivista ebbe a dire: «Mi meraviglio che quei combattenti non dicano cosa hanno provato in quei frangenti: descrivono con dovizia di particolari ciò che fecero, ma per il resto sono freddi come sassi»)5; ciò su cui poteva contare e speculare, invece, era l’aura epica che in America fin da subito fece di quella guerra la guerra di tutte le guerre: da questo punto di vista c’è una sottile ironia nella presentazione del protagonista come un ingenuo ammiratore delle guerre dei Greci, apparentemente irripetibili e, invece, pienamente rivissute. Niente di paragonabile a Maratona o alle Termopili, tantomeno all’Iliade: ma se la pregnanza del coraggio non è tanto nel destino dei popoli quanto nella responsabilità dell’individuo, in quell’attimo che decide di tutto, allora Henry Fleming è stato all’altezza dei suoi sogni adolescenziali. E capiamo anche il coinvolgimento, morale prima ancora che letterario, di uno scrittore come Conrad, che all’attimo fatidico ha dedicato pressoché l’intera sua opera, a partire da quel libro immenso e tremendo che è Lord Jim. Come Lord Jim sul Patna, anche il giovane di Crane, smentendo tutti i suoi sogni di gloria, si dà animalescamente alla fuga, e come Lord Jim discute ossessivamente con se stesso per giustificarsi; finché, stremato dal senso di colpa, trova riscatto non per scelta morale ma ancora per istinto animalesco, quasi istericamente, diventando un vero soldato senza accorgersi della metamorfosi. Nel modulare questa dinamica Crane, quasi piú conradiano di Conrad, ha in serbo un’altra finezza: gettare il proprio protagonista nel tormento esistenziale (scapperò? Non scapperò? Quanti scapperanno?) ancora prima che la battaglia abbia inizio, anzi ancora prima che l’esercito abbandoni l’accampamento. Da questo punto di vista Henry Fleming è un predestinato, e la sua battaglia può diventare la battaglia di tutti.
Il segno rosso del coraggio è anche un libro visivo, nel senso che ci regala in continuazione emblemi sensibili, feticci, sinestesie acustico-cromatiche («Siete un vero impressionista», gli scrisse Conrad6, fondando una categoria della critica craniana7). Il grigio e il blu, l’azzurro e il marrone, la gamma dei verdi, e naturalmente il rosso, colore del sangue e della morte ma anche del coraggio e della vergogna, del furore e delle bandiere, di entrambe le bandiere. Come in un gioco infantile, sembra a un certo punto che l’unica cosa che conti sia il possesso della bandiera avversaria, in un crescendo di erotizzazione. Per questo, a differenza di tanti libri e film di guerra che si concludono nel segno del disincanto (tanto che il reduce dal Vietnam è diventato un riconoscibilissimo “tipo”), Il segno rosso del coraggio ci consegna alla fine un protagonista “confermato”: la prova è stata superata, la vita potrà essere vissuta senza l’assillo di dover dimostrare qualcosa. Sanamente egoista, yankee nel doppio significato della parola, egli sembra destinato a non rivivere traumi né a coltivare il ricordo dei meno fortunati, a eccezione del «soldato alto», che in una delle scene piú belle del romanzo avanza come uno spettro in cerca del luogo dove darsi appuntamento con la morte, e soprattutto del «soldato sbrindellato», abbandonato in un campo al suo destino. Paradossalmente, l’esperienza della guerra è per il protagonista un’esperienza di vita piú che di morte: di qua (dentro di lui) il tumulto, la pienezza delle emozioni animalesche; di là, sul campo di battaglia, il pallore cereo dei morti, «cose» indecifrabili e incomprensibili; fra i due mondi nessuna relazione. In un’altra bella scena, mentre «la linea» avanzante si apre e poi si richiude attorno a un cadavere lungo il cammino, il giovane prova «l’impulso del vivo di riuscire a leggere negli occhi del morto la risposta al Problema», ma ora della fine del libro quel problema è accantonato: «Aveva sfiorato la grande morte, scoprendo che, dopotutto, era solo la grande morte». Iniziato al sangue, potrà trarne un prestigio impuro e riflesso («Vedeva il suo uditorio incantato immaginare lui come la figura centrale delle scene fiammeggianti. E si figurava la trepidazione e i gridolini di sua madre e della ragazza del seminario mentre bevevano i suoi racconti»), senza piú la vitalità delle antiche illusioni. L’Illusione è prima della Storia; dopo, può venire la Leggenda: in questo senso il libro di Crane ricorda da vicino alcuni fra i piú struggenti e insieme piú autocritici film western, come L’uomo che uccise Liberty Valance di John Ford o Gli spietati di Clint Eastwood. Sotto questo aspetto Il segno rosso del coraggio (ancora una volta a differenza di tante opere dedicate alla guerra) è tutto fuorché un libro di formazione; semmai appartiene al genere picaresco, intermezzi “comici” compresi (la contesa fra un soldato e una giovane stalliera per un cavallo; gli stizziti litigi fra i superiori; le risse “western” della truppa). Ma, certo, rimane anche un romanzo psicologico («un quadro psicologico della paura» lo definí piuttosto riduttivamente l’autore8), cosa che può essere stata ottenuta solo grazie a un’opera di “traduzione” delle proprie immodulate (e comunque non belliche) paure infantili nello specifico contesto di quella guerra: non si spiegherebbe altrimenti come Crane potesse ripetutamente affermare che la vicenda del Segno rosso si fosse «inconsciamente definita in lui fin nei dettagli durante gran parte della fanciullezza»9. Si capisce bene, anche, la determinazione di John Huston, che per il ruolo di protagonista del film10 tratto dal romanzo nel 1951 volle a tutti i costi Audie Murphy, che era stato un effettivo eroe di guerra e che il pubblico amava per il suo aspetto di eterno adolescente.
Quanto alle fonti, tutte di natura giornalistica, è stato da tempo accertato che Crane tenne presenti soprattutto le cronache della sanguinosissima battaglia di Chancellorsville, in Virginia (30 aprile - 6 maggio 1863), che pur vinta dai Confederati guidati da Lee e da Jackson preluse alla disfatta sudista di Gettysburg, anche per il contraccolpo creato dalla morte di Jackson. Crane in ogni caso fu attento a non prendere posizione (i suoi nordisti non sono ontologicamente superiori ai sudisti, né nel romanzo si parla mai di una “causa”), anche se era scontato che pubblicando su una gazzetta di Filadelfia egli fosse portato ad assumere il punto di vista dell’Unione, tanto piú se si pensa che da un po’ di anni stava fiorendo, per contro, una letteratura improntata alla celebrazione dei sudisti come romantici “ribelli”. Nato in un contesto giornalistico e sulla base di fonti giornalistiche, Il segno rosso del coraggio è però quanto di piú lontano si possa immaginare dal reportage di guerra, e in questo senso gli accostamenti a Hemingway sono del tutto ingiustificati. Semmai Crane divenne un precursore di Hemingway nei pochi anni di vita che gli restarono, quando fu corrispondente di guerra in Messico, in Grecia e a Cuba: a questi teatri bellici dedicò diversi racconti, nessuno dei quali è tuttavia all’altezza del Segno rosso o dei coevi racconti di guerra di Ambrose Bierce. Anzi è significativo che i suoi racconti migliori, quelli raccolti nel volumetto Il piccolo reggimento11, rigu...