Questo immenso non sapere
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Questo immenso non sapere

Conversazioni con alberi, animali e il cuore umano

  1. 168 pagine
  2. Italian
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Questo immenso non sapere

Conversazioni con alberi, animali e il cuore umano

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Informazioni sul libro

Una buona pratica preliminare di qualunque altra è la pratica della meraviglia. Esercitarsi a non sapere e a meravigliarsi. Guardarsi attorno e lasciar andare il concetto di albero, strada, casa, mare e guardare con sguardo che ignora il risaputo. Esercitare la meraviglia cura il cuore malato che ha potuto esercitare solo la paura. Questo è un libro disordinato. E l'autrice ha scelto di lasciarlo cosí. «Perché ogni disordine ha un suo ordine interno e misterioso. Forse è l'andatura della mente, forse quella del ricordo, forse è l'intenzione di essere volatile o l'aspirazione alla semplicità, in ogni caso è qualcosa di sfuggente che non vuole essere imbrigliato in un piano: come un animale o come un albero della foresta, non addomesticati, inutili, nel senso che non si curano di avere uno scopo, sono in vita e gli basta. Il disordine è questo essere cosí come si è seguendo un filo illogico di stare al mondo». Ognuno di noi nel momento in cui accetta di non sapere si apre alla meraviglia e alla infinita sperimentazione in un inesorabile avvicinamento al mondo animale e vegetale.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858437186

Questo immenso non sapere

Agli asini
In casa mia ci sono: una giraffa che guarda fuori dalla finestra del mio studio, allungando il collo, un lupo grigio scuro che fissa il vuoto e mostra i denti, un cavallo taciturno, un coniglio nervoso seduto su una seggiolina impagliata, sotto un ombrello. Nero l’ombrello, bianco il coniglio. Una tigre passeggia sul davanzale di una finestra. Un leopardo e un puma fanno la guardia alla porta della mia camera da letto. Un lupo e una cicogna stanno alla destra e alla sinistra di un Buddha che insegna. Un ghepardo e un asino stanno alla sinistra e alla destra di un Buddha che sorride sopra un modem.
In corridoio, appesa con la coda a una libreria sta una scimmia, di fronte a lei un cobra si snoda tra i volumi di un’altra libreria. Un ippopotamo si guarda in un piccolo specchio, in mezzo ai libri di meditazione.
In bagno, vicino allo specchio, ci sono un pavone e un ghepardo piccolo. Sulla mensola azzurra, una balena. Sulla vasca, uno dietro all’altro, un’anatra, un’oca, un cigno, una papera. Sospesa sulla tenda blu della vasca, una seconda balena.
Sulle scale del soppalco dove sta il mio letto, un lupo ulula a gola spiegata, un elefante sovrasta e protegge un Buddha che si illumina, un altro lupo si incammina con al fianco una matrioska vestita di nero con rose sbocciate, piccolissima.
Nello studio, sopra un portadisegni, ci sono una gallina, un asino, un coniglio, una capra, una pecora; piú indietro, perché in ritardo, un animale non ben identificato, un po’ smarrito: sono in fila indiana e si capisce che stanno dirigendosi da qualche parte, anche abbastanza in fretta.
Tra i libri, un elefante color jeans legge una minuscola edizione del Piccolo Principe.
In cucina, sopra il frigo, abita un pinguino. Sul balcone ci sono un airone, un coniglio spelacchiato, una gallina arrugginita, un pulcinella di mare, una testuggine, due porcospini, una beccaccia, un rospo, un cervo, un paio di cammelli, una mosca, un drago.
All’entrata di casa, ci sono un elefante, un asino, una leonessa, un’upupa. «Ti stai dimenticando di me?» Ma certo, scusa, c’è anche una volpe.
In questa casa, c’è posto anche per me.
Fuori dalla finestra del mio studio ci sono due cedri del Libano giganti: hanno secoli. E un olmo siberiano, stanco, il piú vecchio di tutti. Si vedono anche spuntare dal giardino di fianco delle betulle, un po’ stente, e un faggio rosso, ferito da un fulmine. C’è un cespuglio di lillà. Verso strada, ci sono molte automobili di diversi colori, ma piú che altro grigie e nere, accucciate in posizione di riposo e di attesa. C’è una fila di sofore del Giappone; una ha steso un ramo e sta per toccare la finestra della mia camera da letto, ogni primavera mi sporgo per vedere se riusciamo a toccarci: quasi ci siamo. Un po’ piú in là ci sono degli alberelli piantati da non molto lungo la via. In primavera, i loro fiori bianchi puzzano tremendamente, un odore di olio rancido usato per friggere il pesce. C’è una striscia di prato malandato e secco con tantissime cacche di cane. Cani vanno e vengono, legati al guinzaglio. Sempre meno gatti, quasi tutti spariti. Pochi merli, svaniti i passeri. Due o tre colombacci. Varie cornacchie.
Gli animali che abitano in casa mia, li ho collezionati pian piano, nel giro di qualche anno, senza capire bene perché. Poi un giorno mi sono ammalata, non era una cosa grave, alla fine, ma ci hanno messo tanto per la diagnosi e io ero sempre piú debole e stanca, stanchissima. Riposare serviva per non piú di quindici minuti, poi ero stanca di nuovo. Gli animali mi hanno aiutato. Erano tutti lí, silenziosamente piantati nella vita a ricordarmi una forza naturale, non coltivata. Un voler vivere, perché si fa cosí, perché lo dicono le cellule. Mentre io vengo da un luogo dove voler vivere era considerato volgare, codardo, e invece autodistruggersi avventuroso ed elegante. Ho obbedito agli animali. Sono andata nella direzione che mi indicavano loro.
Un sogno inconfessabile che ho è che al mio funerale vengano un sacco di animali, che gli umani restino a bocca aperta, spinti di qua e di là da un bel gruppetto folto di animali.
Credo che sia perché sono loro la mia famiglia. Mi hanno parlato senza parole quando ero piccola e sola, mi hanno toccato. Quindi, sarebbe un po’ come dire: «Eccomi, torno a casa. Torno da voi».
Ho avuto un fratello che raccontava bugie meravigliose. Per esempio, che di notte gli alberi districavano le radici dalla terra e se ne andavano in giro, ma prima dell’alba ritornavano alla loro sede, in perfetta postura d’albero e nessuno se ne accorgeva. Non sono mai scesa a controllare. Solo, la notte è diventata molto movimentata e accompagnata da grandi esseri legnosi che si sgranchivano le radici, senza rivolgersi una parola.
Questo stesso fratello mi aveva costruito, con i tappi di metallo delle bibite, delle biglie favolose. A quei tempi tutti, soprattutto i maschi, giocavano a biglie con i tappi di metallo, detti tollini, su piste disegnate con il gesso bianco sull’asfalto dei marciapiedi. Ma i miei erano imbottiti, nel senso che lui ritagliava con maestria minuscole figure e le incollava sul fondo dei tappi. E perfino, siccome una volta li avevo dimenticati all’aperto sotto la pioggia e le figure erano sbiadite, creò dei tollini impermeabili, stendendo un sottile strato di cellophane trasparente sulle figurette prima di incollarle sul fondo del tappo.
Ma questo non c’entra.
I bambini mi guardavano storto, un po’ invidiosi e un po’ straniti da tollini cosí insoliti e senza scopo di gara, solo per bellezza.
Ma anche questo non c’entra.
Sí, però le figure erano tutte di animali.
E forse tutto questo c’entra con il fatto che alberi e animali mi hanno protetto l’infanzia, anche se non da un punto di vista scientifico né religioso.
Solo, mi hanno dato un’altra possibilità, un prezzo diverso al tempo, non di sola perdita, quasi una tradizione immutabile, una continuità dove si vive all’insaputa di sé.
Ho sempre avuto la sensazione scomoda e stupefacente di non sapere niente. A scuola mi sembrava che, anche studiando qualcosa, le lacune aumentassero a dismisura, fino a farmi smettere anche solo di provare a colmarle. Restavo allibita dal non sapere.
Lo stesso poi con la letteratura e con la poesia: piú leggevo e piú mi sfuggiva tutto di mano.
Imparando a meditare, sono entrata in familiarità lentamente, lentamente, con il non sapere. Mi accorgevo che meno sapevo piú sperimentavo. E piú tardi, cercando di passare agli altri la pratica della meditazione, mi sono accorta di come chi sa o crede di sapere molto sperimenta solo esperienze di seconda o di centesima mano, non è mai in intimità con niente, non trema davanti al non conosciuto e non si inoltra. Perché il sapere dell’esperienza non si può accumulare, l’esperienza inganna come tutto il resto, se credi di poterla ripetere quando ti addentri nei territori del non conosciuto. Non ci sono primi della classe, né esperti, né Maestri, se non quelli che ti spingono a conoscere in prima persona, a ferirti e medicarti, e al massimo ti preparano bende e cerotti per quando sosti un momento e li guardi disperato negli occhi: la disperazione dei cani quando non capiscono i nostri comportamenti discontinui. In ognuno di noi c’è un cane spaventato dalla discontinuità dell’esperienza.
Una buona pratica, preliminare a qualunque altra, è la pratica della meraviglia. Esercitarsi a non sapere e a meravigliarsi. Guardarsi attorno e lasciar andare il concetto di albero, strada, casa, mare e guardare con sguardo che ignora il risaputo e vede ora.
La pratica della meraviglia è una pratica che cura anche il cuore piú ferito della terra.
Si può andare a trovare un piccolissimo pezzo di prato, un pizzico di prato c’è sempre, anche in città. E guardare. A lungo. Si apre un universo minimo. Infinite vicende, mutamenti, arrivi, partenze, forme sempre piú piccole man mano che lo sguardo si limita a vedere. Esercitare la meraviglia cura il cuore malato che ha potuto esercitare solo la paura.
Avere amici animali e vegetali, praticare la vista meravigliata e meravigliosa introduce al sollievo dell’impersonalità. Perché andare in profondità meditando non è solo l’archeologia della storia personale, ma anche sentire che non c’è persona, assaporare la sofferenza senza cadere nella rete del raccontarsela, ma lasciando che sia lei a raccontare, se ha qualcosa da rivelarci, e sentire che i suoi racconti servono solo a renderci piú precisi nella compassione verso noi stessi, piú acuti nel riconoscere il c’è della sofferenza in noi e attorno a noi. Impersonalità non è diventare invisibili e innocui, ma innocenti, consapevoli della propria fragilità e della propria capacità di nuocere, consapevoli del c’è. Consapevoli anche di splendere. E splendere. Perché c’è, e perché i bambini guariscono in fretta se sono compresi e curati: non gli piace essere malati e lo stesso fa il cuore, anche un vecchio cuore.
Accorgersi che anche la gioia, come la sofferenza, è un c’è, e che è diversa dall’allegria; non vuole essere dimostrata: se a un animale viene da sorridere, sorride anche se è nel deserto, non vuole essere visto, non vuole essere non visto. Dunque, la gioia c’è ed è una gioia che tiene conto del nostro dolore, non un’allegria che lo cancella. È una gioia su misura, che ci conosce bene.
Gli animali e gli alberi insegnano a non sapere, a tollerare di stare al mondo senza l’ossessione di capire. La loro assenza di controllo mi pare renda il loro mondo non piú minuscolo, ma anzi vastissimo, misterioso.
Sanno abbandonarsi, conoscono e insegnano una fiducia primaria e radicale.
Una volta chiesero al grande Maestro Ajahn Chah cosa fare per chi avesse subito ferite profonde dagli esseri umani e lui rispose di far vivere la persona danneggiata circondata dalla natura e avvolgerla di mettā. Mettā è una parola pali che significa «gentilezza amorevole» o «benevolenza».
Una persona molto ferita dagli altri esseri umani ha bisogno di altri regni. Per questo accosto alberi e animali, perché il regno vegetale e quello animale possono ospitare i sogni dei bambini rotti e dargli provvisorio asilo. E non solo i sogni: possono anche risvegliare una lingua innata che resterebbe assopita se la comunicazione con gli umani funzionasse meglio.
Ho pochissimo senso dell’orientamento, soprattutto in città. Certe volte nei boschi mi perdo, sento uno spavento tuonante, tutto si staglia immobile come non riconoscendomi, espellendomi. Poi, mi ricordo il linguaggio dimenticato. Dico: «Per favore alberi, mi sono perduta, per favore…» Succede sempre qualcosa. Un albero ascolta e si fa notare. Un ramo si sposta, la vista cambia, uno scorcio si rivela fatale, un altro propizio.
Uno degli attributi del Buddha è lokavidū, «il conoscitore dei mondi». Non di uno solo. Appunto.
Mi ha dato molto sollievo scoprire negli scritti del Buddha che noi siamo fatti di terra, acqua, fuoco, aria, e spazio. Cinque elementi che combinandosi e danzando fanno un corpo che respira, che pensa, sogna, ama, nasce e muore. Morire fa sí che il fuoco torni al fuoco, l’acqua all’acqua, l’aria all’aria, la terra alla terra e lo spazio allo spazio.
È anche molto rasserenante percepire in sé i cinque elementi. Seduti, camminando, in piedi o sdraiati possiamo chiudere gli occhi e sentire la solidità, la densità, l’estensione, il limite, la resistenza: il nostro essere terra. Oppure la fluidità, la connessione, la flessibilità, la forma: essere acqua. O quel nostro improvviso accenderci in un respiro o in un passo, vitalità, impulso, luminosità, calore: siamo fuoco e aprendo gli occhi mettiamo il mondo a fuoco. La leggerezza, la fugacità delle sensazioni, le variazioni, i cambiamenti repentini, le vibrazioni, l’essere toccati e sfiorati da milioni di sensazioni: è l’aria che vive in noi. E infine siamo spazio: apertura, spaziosità, dove tutto è ignoto e possibile. La coscienza che contiene l’universo. La disposizione a restare aperti e presenti, a riposare nella vastità. Vasti nel vasto.
Un giorno tutti gli elementi torneranno alla fonte. Cosa resterà di noi? Una bella domanda da tenere in tasca al cuore.
Sono un’esperta di sottotesti. Ho studiato alla scuola della crudeltà. E in città. In mezzo alle buone maniere. Ai discorsi intelligenti. Alle adulazioni e ai sottili razzismi. Mi sono sentita indifesa e sguarnita, finché non ho imparato l’indelebile arte della decifrazione.
Gli animali ti assalgono, ti azzannano, ti pungono, ti graffiano, ti minacciano. Di recente, in una via cittadina, ho visto un cane legato con il guinzaglio a un palo, era umiliato e furente. Mi sono avvicinata, gli ho parlato un momento, poi ho fatto per allungare discretamente una mano verso di lui. Mi ha mostrato i denti e ha ringhiato. L’ho salutato e me ne sono andata pensando: «Che gentile! Mi ha subito avvertito, stai in là, sono furibondo».
La cultura occidentale divide i mondi tra finito e infinito, attribuendo al finito un carattere opaco e muto e all’infinito la trasparenza e il senso. Ma io, e forse tutti i bambini solitari, prediligevo il muto e vedevo attraverso l’opaco. Era la vita nuda e cruda, i fenomeni, che mi davano il senso piú alto del mistero; la trasparenza era guardare con simpatia nell’opaco. Giocare a nascondino era scoprire il mondo senza di me. Osservare gli animali era conoscere la natura del vivente e l’affidamento a qualcosa che ci sorpassa.
Nascosti da soli in un fitto di alberi siamo trasparenti eppure accolti, siamo un insieme privo di somiglianze e di peculiarità, vivi e basta.
Un paio di anni fa, ero su un’isola bellissima e feroce. Il mattino, stavo per tuffarmi nell’acqua blu di una baia, quando mi hanno detto: «Ferma, è pieno di meduse, meglio non buttarsi». Io, senza ascoltare l’avvertimento, sicura nella mia idiozia, ho risposto: «Ma tanto ho la maschera…» Mi sono tuffata e ho cominciato a nuotare, scrutando i fondali con grande attenzione e sentendomi molto accorta e furba. Dopo pochi minuti, una medusa mi ha avvinghiato un braccio, ustionandolo. Mi sono rimasti larghi segni circolari, in fila come i tatuaggi di un maori, e ci hanno messo molto tempo a sgonfiarsi e a smettere di bruciare.
Solo dopo ho decifrato l’insegnamento della medusa: «Non basta la vista abissale, mia cara, guardati intorno, la tua vista periferica è molto carente: ora te lo scrivo sul braccio sinistro, cosí non te lo dimentichi piú».
Ho convissuto con molti gatti. Nell’infanzia, li dividevo soprattutto con mia sorella Anna. Li «dividevamo» nel senso letterale del termine: lei diceva che i gatti erano suoi dalla testa a metà schiena e miei da metà schiena a tutta la coda. Quindi, potevo accarezzarli solo in quella zona, che non è proprio la loro preferita, ma pazienza. D’altra parte la coda… anche solo da guardare era la prova che gli extraterrestri esistono. La sensibilità della coda di un gatto è un capolavoro di antenne e radar e sensori con l’aggiunta di musica classica e jazz.
I gatti, tra i tanti addestramenti a cui mi hanno sottoposto, mi hanno insegnato le distanze sonore, non invaderli, ma nemmeno ignorarli: ron ron è «Sono qui e tu sei lí, bello!»
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Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Questo immenso non sapere
  4. Appendice
  5. Il libro
  6. L’autrice
  7. Della stessa autrice
  8. Copyright