Tre anelli
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Tre anelli

Una storia di esilio, narrazione e destino

  1. 112 pagine
  2. Italian
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Tre anelli

Una storia di esilio, narrazione e destino

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« Tre anelli è un libro breve ma emozionante, di quelli che credono tenacemente al potere rigenerativo della letteratura».
«The Wall Street Journal» « Tre anelli è stupendo. Mendelsohn fa qualcosa che di solito associamo ai migliori scrittori di finzione - penso a Sterne, Proust, Eco o Calvino».
Helen DeWitt «Uno straniero arriva in una città sconosciuta dopo un lungo viaggio. Da qualche tempo è stato separato dalla sua famiglia; da qualche parte c'è una moglie, forse un figlio. Il percorso è stato travagliato, e lo straniero è stanco. Si ferma davanti all'edificio che diventerà la sua casa e poi comincia ad avvicinarsi». Chi è lo straniero errante, l'esule, il viaggiatore sperso? Oggi potrebbero essere i tanti popoli che lasciano le loro terre e attraversano il Mediterraneo, nel Novecento sono stati gli ebrei - i piú fortunati almeno - che hanno lasciato la Germania e l'Europa. In passato i tanti che hanno abbandonato la loro terra a causa di una guerra, di un rovescio, di un accidente. Questa frase torna ciclicamente in Tre anelli di Daniel Mendelsohn, via via che l'autore «incontra» la vita di tre esuli, diversi ma in qualche modo uniti: Erich Auerbach, il piú grande critico del Novecento, ebreo che fuggí dalla Germania di Hitler e scrisse il suo grande classico sulla letteratura occidentale, Mimesis, in esilio a Istanbul; François Fénelon, l'arcivescovo francese del diciassettesimo secolo il cui ingegnoso seguito dell' Odissea, Le avventure di Telemaco, una velata critica del Re Sole, segnò la rovina del suo autore; e il romanziere tedesco W. G. Sebald, autoesiliato in Inghilterra, le cui narrazioni serpeggianti esplorano i temi del viaggio e dell'esilio, della nostalgia e della separazione da casa. Raccontando le loro vite, Mendelsohn racconta anche una tecnica narrativa, un modo di dare forma alle storie e un senso al mondo: la narrazione ad anello, l'arte della divagazione, l'idea di un viaggio, di un'odissea, che permetta un ritorno a casa arricchiti. Una tecnica che, fin dai tempi di Omero, ha definito il modo occidentale (e soprattutto mediterraneo) di legare uomini e simboli, terra e cielo, caso e destino. Ma raccontando queste tre vite, questi tre esili, Mendelsohn racconta anche la propria, di vita, le deviazioni e i giri a vuoto, i passi falsi e le scoperte, gli incontri e le perdite. Ecco allora che l'ultimo anello di questo libro ipnotico e sapiente attraversa le vite di tutti, perché a tutti appartiene il viaggio. Dopo Gli scomparsi e Un'Odissea, Daniel Mendelsohn ci regala un libro di borgesiana intelligenza, un racconto nei cui cerchi è nascosto un mondo.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858437933
Parte prima

Il Lycée Français

Il valente uomo, che parimente tutti gli amava né sapeva esso medesimo eleggere a quale piú tosto lasciar lo volesse, pensò, avendolo a ciascun promesso, di volergli tutti e tre sodisfare: e segretamente a un buon maestro ne fece fare due altri, li quali sí furono simiglianti al primiero, che esso medesimo che fatti gli aveva fare appena conosceva qual si fosse il vero.
BOCCACCIO, Decameron, prima giornata, terza novella.
Uno straniero arriva in una città sconosciuta dopo un lungo viaggio. Da qualche tempo è stato separato dalla sua famiglia; da qualche parte c’è una moglie, forse un figlio. Il percorso è stato travagliato, e lo straniero è stanco. Si ferma davanti all’edificio che diventerà la sua casa e poi comincia ad avvicinarsi: l’ultimo breve tratto dell’itinerario imprevedibilmente zigzagante che l’ha portato fin lí. Adagio, passa sotto l’arco che gli si spalanca davanti, diventando presto indistinguibile dall’oscurità, come il personaggio di un mito che scompare nelle fauci di un mostro leggendario, o negli orridi gorghi del mare. Si muove con difficoltà, le spalle ingobbite dal peso delle valigie. Lí dentro c’è tutto ciò che ancora possiede. Ha dovuto fare i bagagli di fretta. Che cosa contengono? Perché è venuto?
All’inizio del nuovo secolo lavorai per parecchi anni a un libro per cui dovetti viaggiare in lungo e in largo fra gli Stati Uniti, l’Europa orientale, la Scandinavia, Israele e l’Australia. Ci andai per intervistare un certo numero di sopravvissuti, e testimoni, di fatti accaduti durante la seconda guerra mondiale in una piccola città della Polonia orientale dove avevano vissuto alcuni miei parenti. Questi parenti erano persone qualunque, di scarso interesse per la Storia, tuttavia erano il fulcro, il centro per cosí dire, della storia che io volevo raccontare, la storia di chi erano stati e di come erano morti; cosí come quella piccola città, un luogo di scarsa importanza storica, era stata tuttavia il fulcro della vita dei miei parenti, il punto fermo da cui non avevano mai voluto allontanarsi. E cosí vi avevano trovato la morte, alcuni nascosti a pochi passi dalla casa dove prima abitavano, e lí traditi; alcuni fucilati nella piazza della città o nel vecchio cimitero; alcuni deportati in località remote e poi gassati. Dopo la fine della guerra, da quella cittadina i pochi sopravvissuti si sarebbero sparpagliati in lontane parti del mondo – luoghi che, appena quindici anni prima, a quella gente di provincia sarebbero sembrati destinazioni improbabili, perfino assurde, e certo non posti in cui vivere: Copenaghen, Tashkent, Stoccolma, Brooklyn, Minsk, Bersabea, Bondi Beach. Sono questi i posti dove dovetti recarmi, sessant’anni dopo, per parlare coi sopravvissuti e ascoltare quel che avevano da raccontarmi sui miei parenti. L’unico modo per giungere al centro della mia storia era fare il giro largo, passando per lontane periferie.
Quando ebbi finito di scrivere quella storia mi ritrovai incapace di muovermi. All’epoca mi dissi che ero solo stanco; ma ora, a distanza di un decennio e mezzo, mi rendo conto di aver avuto una vera e propria crisi, forse addirittura un esaurimento nervoso. Per alcuni mesi non riuscivo neanche a varcare la soglia del mio appartamento, figuriamoci a viaggiare. Ero stato in Australia, Danimarca e Ucraina, in Israele, Polonia e Svezia, avevo visto le fosse comuni e i musei, fra cui uno a Tel Aviv dove, con mia sorpresa, ciò che piú mi aveva commosso era stata una sala piena di minuziosi modelli di sinagoghe costruite nel corso dei millenni in tutto il territorio della diaspora ebraica: la sinagoga di Kaifeng in Cina e quella di Cochin in India, la Beth Alpha del sesto secolo nella Bassa Galilea e la Santa María la Blanca del dodicesimo secolo a Toledo (quest’ultima deve il suo strano nome al fatto che, subito dopo essere stata costruita grazie a una speciale dispensa concessa dal re Alfonso X per creare «la piú grande e bella sinagoga di Spagna», fu attaccata da una folla inferocita, parzialmente distrutta e in seguito riconvertita in chiesa dedicata alla Vergine); il tempio israelitico del diciannovesimo secolo a Firenze e la contemporanea sinagoga di Oranienburger Straße a Berlino, l’uno profanato e l’altra distrutta dal fuoco durante la seconda guerra mondiale, e ora entrambi scrupolosamente ricreati in miniatura in Israele, un paese che non esisteva quando quegli edifici erano stati sventrati. Ero tanto commosso, presumo, perché fra la tarda infanzia e la preadolescenza ero stato un modellista ossessivo, e anch’io avevo costruito con estrema cura minuziose repliche in scala di antichi edifici, il tempio sepolcrale della faraona egizia Hatshepsut a Deir el-Bahari, il Partenone di Atene, il Circo Massimo di Roma, tutte strutture caratterizzate, come oggi mi pare evidente, anche se dubito di essermene reso conto allora, dalla metodica ripetizione di alcuni elementi strutturali o decorativi – rampe, colonne, archi –, una reiterazione che probabilmente trovavo rassicurante. In ogni caso è questo il motivo per cui, mentre me ne stavo nella sala dei modelli del museo di Tel Aviv a metà del mio viaggio in giro per il mondo nei primi anni Duemila, ebbi una reazione emotiva cosí forte. L’impulso a realizzare quelle repliche mi era ben noto, e anche il significativo paradosso che ne conseguiva: la fede nella nostra capacità di ricreare si accompagna alla consapevolezza che l’originale è scomparso… «Scomparso», dovrei precisare, può essere un termine fuorviante, poiché sembra sottintendere che la distruzione abbia superato il punto oltre il quale la ricostruzione è impossibile. Ma ci sono altri tipi di scomparsa, alterazioni o riconversioni cosí estese e radicali che, sebbene l’originale sia ancora in piedi, sia ancora presente, sentiamo nondimeno il bisogno di ricostruzioni come quelle che si trovano nella sala dei modelli del museo Beit Hatfutsot di Tel Aviv. È il caso, ad esempio, dell’edificio in rovina ma tuttora bello che domina la piazza del mercato di una piccola cittadina ai piedi dei Carpazi, Bolechiv, che attualmente è in territorio ucraino, ma era parte della Polonia quando ci vivevano i miei parenti – che la chiamavano Bolechów –, cosí come ci erano vissuti per secoli i loro antenati, fino al 1943, quando anche l’ultimo di loro era morto. Un tempo quel grosso edificio rettangolare, coi muri intonacati di rosa chiaro in cui a intervalli regolari si aprono alte ed eleganti finestre arrotondate in cima, era conosciuto come la Grande Sinagoga della città – una lieve esagerazione che può essere perdonata se si tiene conto del fatto che all’epoca in quella cittadina c’erano almeno una quindicina di sinagoghe di varie dimensioni, e che, in confronto, quasi tutti gli altri edifici di Bolechów erano piuttosto piccoli. Oggi l’epiteto «Grande» ci sembra particolarmente toccante perché in quel punto non è rimasta nessuna sinagoga, e tutte le persone che frequentarono quei luoghi di preghiera, tutte le persone che mai chiamarono familiarmente quell’edificio Grande Sinagoga, sono morte da tempo; e quasi nessuno di coloro che oggi vivono in quella città sa che quell’edificio è stato un luogo di culto. Non c’è da sorprendersi. Negli anni Cinquanta, quando ancora la maggioranza degli attuali residenti non abitava lí, l’edificio era stato trasformato in un luogo di riunione per i lavoratori del cuoio, con le pareti dipinte di murales celebrativi dei paesaggi della Repubblica socialista sovietica dell’Ucraina, mentre, un decennio prima, l’arca della Torah, un tempo punto focale della sua architettura, era stata strappata via, i rotoli profanati e scomparsi, le decorazioni divelte. Quindi, per quanto si possa dire che la Grande Sinagoga di Bolechów è ancora in piedi, sembra comunque «scomparsa», sembra aver bisogno di un modello che possa mostrare com’era quand’era stata costruita, quand’era il prodotto di una civiltà ancora fiorente. La realtà storica che il modello di un vecchio edificio intende suggerire non si limita dunque all’aspetto materiale, riguarda anche la sua (per cosí dire) anima… Ma tutto questo è solo un sogno. Al museo Beit Hatfutsot il modello della sinagoga di Bolechów non c’è, in parte perché nessuno di coloro che potrebbero aiutare a ricostruirne la realtà scomparsa è ancora vivo, e in parte perché, se il museo di Tel Aviv dovesse ricreare in miniatura ogni singola sinagoga di ogni singola cittadina dell’Europa orientale incorsa nello stesso destino di Bolechów, avrebbe bisogno non di una sala ma di ettari ed ettari di spazio.
La visita alla sala dei modelli fu l’unica occasione in cui piansi nel corso delle mie peregrinazioni. In seguito, invece, nel periodo di immobilità dopo il mio ritorno a casa, mi capitava di trovarmi in mezzo a una stanza a guardarmi intorno senza riuscire a ricordare perché c’ero entrato, e allora, confuso e paralizzato, scoppiavo in lacrime. All’epoca una mia amica psichiatra ipotizzò che soffrissi di stress post-traumatico. Dopo aver ascoltato per cinque anni racconti di violenza e distruzione senza riuscire ad assimilarli emotivamente (perché in quel momento, mentre li ascoltavo, il mio unico pensiero era «mettere giú la storia»), adesso, riteneva la mia amica, finalmente stavo reagendo. Ora che ero tornato nello spazio familiare della mia casa, disse, stavo «elaborando il lutto». In ogni caso, qualunque fosse il motivo, mi sentivo svuotato, sia dal punto di vista emotivo sia da quello creativo. Ogni volta che cercavo di intraprendere un nuovo progetto, mi sentivo come uno degli anziani testimoni o sopravvissuti di cui avevo scritto: un girovago senza piú una patria, giunto in un luogo totalmente sconosciuto, incapace di procedere oltre.
Questo strano stato d’animo si trascinò per qualche tempo dopo il mio ritorno dall’ultima spedizione di ricerca, che intrapresi nel luglio 2005 e a un certo punto mi condusse nella Polonia orientale, dove visitai il memoriale appena inaugurato del campo di sterminio di Bełżec. È un monumento impressionante, che si potrebbe definire tutto periferia e niente centro. Consiste fondamentalmente in un enorme spazio vuoto, dove un tempo sorgeva il grosso del campo. (Il termine «campo» rischia di essere fuorviante. Bełżec era un campo di sterminio, non un campo di lavoro, il che significa che non c’erano baraccamenti né dormitori, nessun tipo di abitazione: scendevi dal treno, come capitò a una mia prozia nel settembre del 1942, attraversavi lo stretto passaggio noto come der Schlauch, «il tubo», e finivi nella camera a gas). Questo spazio vuoto è stato trasformato in un’enorme distesa di pietre di varie dimensioni, alcune grosse come macigni, altre piccole come sassolini, che hanno l’aria di essere state bruciate. È uno spazio straordinariamente esteso, di un’eloquente sterilità – è evidente che lí nulla potrà mai piú vivere o crescere –, ed è di fatto inaccessibile ai visitatori; l’atto commemorativo consiste nel camminare lungo il suo perimetro. Tutt’intorno allo spazio coperto di pietre bruciate corre un sentiero. Incastonate nel lastricato ci sono lettere e cifre di bronzo, che appaiono anch’esse bruciate, o forse solo molto arrugginite, e riportano il nome di tutte le città e i villaggi europei da cui giunsero a Bełżec dei carichi di esseri umani, e la data o le date in cui tali trasporti ebbero luogo. Camminare lungo quel sentiero significa dunque ripercorrere la storia del campo di sterminio. Poiché da molte località, incluse piccole cittadine come quella di cui stavo scrivendo, era giunto piú di un carico, e poiché gli autori del monumento hanno deciso che i nomi delle località dovessero comparire tante volte quanti erano stati i trasporti, e nel corretto ordine cronologico, alcuni nomi continuano a riapparire mentre si procede dal MARZO 1942, il mese del primo carico, fino al GIUGNO 1943, il mese dell’ultimo – appena quindici mesi, nel corso dei quali, però, furono gassate seicentomila persone –, cosí che quelle sillabe straniere diventano sempre piú familiari, e ti ritrovi quasi a cercarle, un po’ come quando in un’opera teatrale o in un romanzo, dopo una prima misteriosa comparsa, certi personaggi o motivi tornano in scena perdendo a poco a poco la loro stranezza fino a diventare perfettamente riconoscibili. La camminata intorno al perimetro del campo è sfiancante.
Questo accadeva, come ho detto, nel 2005. Nel 2008, su consiglio di un’amica che mi aveva suggerito di tornare a quelle che definiva le mie «radici intellettuali», cominciai a coltivare l’idea di scrivere qualcosa sui classici greci. Sulle prime mi sentivo incapace di cominciare un nuovo libro, ma l’idea di scrivere su un argomento puramente letterario – su qualcosa che, col suo fascino e la sua inventiva, con personaggi e ambientazioni di fantasia, e un’architettura complessa, avrebbe avvinto e distratto la mia mente ancora traumatizzata – col trascorrere dei mesi e degli anni mi attraeva sempre di piú. Ovunque mi conducesse, pensavo, quel soggetto letterario greco mi avrebbe quantomeno consentito di lasciarmi alle spalle le storie angosciose che per tanto tempo mi avevano ossessionato e, alla fine, paralizzato: i racconti di catastrofe politica e intolleranza religiosa, di fughe talvolta riuscite e talvolta no, di deportazione ed esilio, di tedeschi ed ebrei. Poco dopo che la mia amica aveva condiviso con me la sua idea, il lungo periodo di malsana inattività in cui ero sprofondato cominciò a cedere il passo a un nuovo periodo di letture e di animata contemplazione, finché, al termine di quel primo decennio del secolo, per ragioni che avrei raccontato nel libro che infine ho scritto, non divenne chiaro quale sarebbe stato il mio soggetto: l’Odissea.
Alla fine il libro risultò difficile da scrivere: cosí difficile che varie volte pensai di rinunciare. Ero frustrato, bloccato: come il personaggio incantato di un’antica leggenda, la storia che volevo raccontare continuava a cambiare forma, a sgusciar via, a sfuggire alla mia presa. I problemi che avevo col libro greco erano molto diversi da quelli che avevo dovuto affrontare mentre scrivevo il libro sull’Olocausto. La disperazione emotiva che aveva caratterizzato il mio rapporto con quel libro aveva ceduto il passo, nel nuovo progetto, a quella che posso solo definire disperazione narrativa.
Sebbene ci fosse stato un periodo in cui mi ero dedicato agli studi classici ai piú alti livelli, il libro che stavo cercando di scrivere non era un’opera accademica. Trattava invece dell’ultimo anno della vita di mio padre, e di come, cosa piuttosto strana, poteva essere rifratto attraverso la lente dell’Odissea. Nel gennaio 2011, all’età di ottantun anni, mio padre aveva deciso di partecipare al seminario che tenevo per gli studenti del primo anno su quel poema, un’esperienza che, nonostante il potenziale comico della situazione, avrebbe avuto un impatto profondo su di lui, sugli studenti e anche su di me. Nel giugno di quell’anno, subito dopo la fine del corso, venimmo a sapere di una crociera nel Mediterraneo che si proponeva di ricreare le peripezie di Odisseo. Decidemmo di prenotare, e nel corso di quell’esperienza in mio padre avvenne una trasformazione, una metamorfosi in una versione di lui che mai avevo percepito nel corso della nostra vita insieme. Poi, nell’autunno di quello stesso anno, mio padre cadde in un parcheggio procurandosi una lesione che, col tempo, provocò un ictus e, dopo qualche tempo ancora, la sua morte.
Furono, intellettualmente ed emotivamente, esperienze profonde. Ma a bloccarmi, a rendere la scrittura tanto difficile, non erano né la profondità e complessità di quelle esperienze né la natura imbarazzante di alcuni dei sentimenti venuti a galla nell’aula universitaria o nella cabina della nave o nel reparto di terapia intensiva. Il problema, come si sarebbe capito quando il previsto anno di scrittura si dilatò in due e poi tre anni, era che non avevo idea di come organizzare la storia.
Avevo cominciato a lavorare al libro nell’autunno del 2012, sei mesi dopo la morte di mio padre, e a fine agosto del 2016 avevo un manoscritto di seicento pagine. Avevo scritto tutt’e tre le sezioni – il seminario, la nave e l’ospedale – ma la narrazione nel suo insieme non funzionava; per qualche motivo, la lettura risultava sfiancante. Mentre l’estate volgeva al termine e io disperavo ormai di trovare un modo per far funzionare la narrazione, decisi di rivolgermi a un amico, un editor che è stato mio mentore da quando ho cominciato a scrivere, quasi trent’anni fa. Gli consegnai il manoscritto, e il giorno dopo lui mi chiamò. Il problema, mi disse, era che avevo tutti i pezzi ma non un modo per farli stare insieme. C’era qualcosa di sbagliato nella maniera in cui raccontavo la storia, continuò; le cose venivano semplicemente una dopo l’altra: il seminario, la crociera, la malattia e la morte. C’era parecchia materia narrativa, ma non ancora una storia. La prima parte, il resoconto del seminario, era interessante (osservò, dopo un breve silenzio da cui trapelava peraltro una certa perplessità), ma il problema era che, quando finivi quella parte – quando arrivavi alla conclusione del corso sull’Odissea –, non ti veniva voglia di continuare a leggere. Non hai voglia di sorbirti l’intero semestre e poi andare in crociera, disse. Al che io protestai debolmente: Ma è cosí che è andata. Non importa com’è andata, ribatté lui. Qui non si tratta della realtà dei fatti, si tratta di una storia. Devi trovare il modo di inserire la crociera e l’ospedale all’interno della narrazione del seminario. Usa i flashback, usa i flashforward, non preoccuparti della cronologia. Inventa, se devi! L’importante è che trovi una via.
Quando disse la parola via non riuscii a trattenere un imbarazzato moto di riconoscimento. L’espressione «trovare una via» mi consentiva, prima di tutto, di comprendere a posteriori la natura della crisi creativa e spirituale vissuta dopo aver concluso il mio libro precedente. Avevo sofferto di quella che i greci chiamavano aporia: una confusione paralizzante, l’impossibilità di trovare una via d’uscita da un problema. Il significato letterale di aporia è «mancanza di un sentiero», «nessuna via». All’epoca ero incapace di uscire dal mio appartamento; incapace di pensare a un nuovo progetto. Ero, secondo il modo di pensare dei greci, senza un sentiero – l’espressione, si dà il caso, usata nell’Odissea per descrivere il mare, il terrificante spazio vuoto a cui Odisseo deve sottrarsi, in senso sia letterale sia figurato, per ritrovare la propria identità e la via di casa.
La seconda cosa che mi venne in mente dopo la conversazione col mio mentore fu che la tecnica che mi stava consigliando – l’inserzione di altre storie all’interno di una storia, gli andirivieni temporali allo scopo di conferire profondità e complessità alla narrazione principale – la conoscevo fin dal terzo anno di università, quando avevo frequentato un seminario sull’Odissea, dal momento che tale stratagemma è notoriamente usato con estrema efficacia dallo stesso Omero.
Si tratta di una tecnica nota come composizione ad anello. Nella composizione ad anello, la narrazione sembra divagare abbandonandosi a una digressione (il momento del distacco dalla linea narrativa principale è segnalato da una formula fissa o da una scena ricorrente), ma la digressione, l’apparente allontanamento, si rivela in realtà un cerchio, dato che la narrazione finisce per ritornare alla storia nel punto esatto in cui se n’era discostata (il ritorno è segnalato dalla ripetizione di quella stessa formula fissa o scena ricorrente che aveva marcato il momento del distacco). Il materiale racchiuso in questi anelli può essere un’unica digressione isolata o un’elaborata serie di narrazioni interconnesse, ognuna annidata dentro l’altra al modo delle scatole cinesi o delle matrioske. Questo, quantomeno, s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Tre anelli
  4. Parte prima. Il Lycée Français
  5. Parte seconda. L’educazione delle fanciulle
  6. Parte terza. Il Tempio
  7. Ringraziamenti
  8. Nota del traduttore
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright