1917. La Rivoluzione
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1917. La Rivoluzione

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1917. La Rivoluzione

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Nel nostro immaginario, la Rivoluzione novecentesca per eccellenza è ancora quella che si svolse a Pietrogrado tra il Febbraio e l'Ottobre del 1917. Novant'anni dopo, Marcello Flores ripercorre il senso e la dinamica di quel passaggio cruciale guardando alla nostra percezione di abitanti del XXI secolo. È il racconto di un lungo caos che risponde alle speranze e alle paure di tanti. È la sovversione di modi di pensare e della quotidianità, che sprigiona energie a lungo represse creando illusioni e speranze. Ma è anche l'euforia che cede il passo alla disillusione e la critica generalizzata del potere che sovrasta la partecipazione democratica.
La Rivoluzione russa sostituisce l'anima razionale della politica con la pulsione emotiva della mobilitazione di massa, rimescolando le appartenenze e intrecciandosi con le forme arcaiche dell'eredità russa. Il risultato di quella miscela ha continuato ad affascinare per decenni l'Occidente, che vi ha riflesso le sue aspettative e l'immagine di un suo possibile futuro. Perché, come ha scritto Arthur Koestler, «la conversione al comunismo non era una moda o una follia, ma l'espressione sincera e spontanea di un ottimismo portato alla disperazione».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858437513
IV.

La rivoluzione e i suoi simboli

1. I linguaggi delle masse.

Gli effetti emotivi, psicologici, estetici che i simboli riescono a trasmettere alle masse, modificandone non solo atteggiamenti e linguaggi, ma anche percezioni e sentimenti nei confronti del mondo reale in cui si trovano a vivere, mutano in modo evidente nelle diverse epoche e nei differenti contesti politici, sociali, culturali. È soprattutto attraverso questo mondo di simboli che le masse, nella Russia del 1917, entrano nella rivoluzione; guidate dall’emotività che quei simboli suscitano, amplificata dal cortocircuito creato con le proprie condizioni materiali di vita.
La scena pubblica è dominata, con un crescendo che si proietta dal Febbraio all’Ottobre, non solo da simboli, ma dalla lotta fra simboli. Ed è in questo contesto che la radicalizzazione dei linguaggi e della ritualità di massa va di pari passo con l’insofferenza crescente per il perdurare della guerra, per la promessa sempre rinviata di divisione della terra. Il radicalismo dei simboli e la loro diffusione accompagna il consenso che i bolscevichi conquistano tra le masse. Sono due facce della stessa medaglia: la parola d’ordine che meglio riassume i sentimenti delle folle («pace», «terra», «soviet»), i simboli che enfatizzano le emozioni e le speranze che esse si attendono dalla rivoluzione.
I partiti socialisti, che investono nella spontaneità rivoluzionaria di febbraio tutta la loro simbologia, il linguaggio, la mitologia dell’epoca della clandestinità, verranno in qualche modo travolti dall’appropriazione di quella realtà emotiva di massa, che la struttura organizzativa dei bolscevichi sarà capace di utilizzare con maggiore coerenza e capacità. Pur utilizzando in larga misura gli stessi simboli, lo stesso linguaggio, la stessa ritualità collettiva – che, all’epoca della clandestinità, derivava dalle influenze intrecciate della Rivoluzione francese e del marxismo, della tradizione rivoluzionaria polacca e del populismo, e che la rivoluzione del 1905 aveva in una certa misura reso omogenee – solo le proposte politiche conformi a quel sostrato emotivo troveranno un consenso di massa.
Nel ritratto che di Lenin ha dato un suo recente biografo, prendendo in esame i suoi discorsi della fine di ottobre, emerge la capacità tattica e strumentale con cui il capo bolscevico intende «sfruttare» le passioni delle masse a vantaggio della politica del proprio partito:
Fece solo riferimenti molto fugaci al «socialismo». E non spiegò nemmeno di porsi come obiettivo immediato l’istituzione di una dittatura basata su criteri di classe con la finalità ultima di realizzare una società comunista senza Stato ... Teneva ben nascoste le sue carte. Era un capo di partito, e desiderava rendere attraente il bolscevismo per gli operai, i soldati, i contadini, gli intellettuali che ancora non lo sostenevano. Perciò aveva di nuovo messo accuratamente da parte termini come dittatura, terrore, guerra civile e guerra rivoluzionaria ... Tutte le sue dichiarazioni intendevano incoraggiare le «masse» a esercitare l’autonomia e a dimostrare «spirito d’iniziativa» (samodejatel´nost´). Desiderava che i bolscevichi apparissero come un partito che avrebbe realizzato la rivoluzione del popolo e per il popolo1.
La bandiera rossa è forse il simbolo piú importante, non foss’altro perché destinato a durare, a entrare nell’ufficialità del nuovo Stato sovietico e dell’intero movimento comunista internazionale. In realtà, si potrebbe parlare del trionfo del rosso in generale, non solo nelle bandiere. Già dal Febbraio sono migliaia le coccarde, i fazzoletti, i distintivi, le cravatte, i fiocchi, le gonne, gli stessi abiti piú in voga che cercano – attraverso il rosso – di dare alla rivoluzione il suo colore. I nastri rossi che accompagnano le prime manifestazioni a Pietrogrado si diffondono rapidamente per tutta la Russia, diventando il simbolo della rivoluzione ma anche della vita, del nuovo regime ma pure, piú in generale, della libertà. La difesa della bandiera rossa – che coinvolgerà nelle giornate cruente di febbraio perfino un battaglione di cosacchi – s’identifica con la difesa pura e semplice della rivoluzione e del suo simbolo. Chi la vuole colpire, calpestare, distruggere, appare subito come un nemico della rivoluzione. «Tutti si sono fatti il fiocco rosso e l’ho fatto anch’io», racconta un bambino al suo diario; mentre un altro giovane scolaro, alla richiesta di spiegare il significato del suo disegno, cosparso di quattordici bandiere rosse, risponde con naturalezza: «ho detto che stavo disegnando la rivoluzione»2.
Il significato della bandiera rossa tra le masse non è univoco, ma questo appartiene alla natura stessa di simboli dalla forte carica identitaria, capaci di attrarre ma anche di respingere o incutere timore. Molti, soprattutto nelle classi borghesi e aristocratiche, vedono nella bandiera rossa il segno della vendetta sociale e della violenza rivoluzionaria, come fanno in parte anche i militanti internazionalisti del Partito bolscevico o i piú radicali tra i socialisti-rivoluzionari. Proprio la lotta per far prevalere il proprio significato sulla bandiera rossa costituisce la base della sua sacralizzazione. E questa, a sua volta, costringerà tutti gli attori politici ad assumere e difendere come proprio l’attaccamento che le masse mostrano verso la bandiera della rivoluzione. Il Governo provvisorio non può fare altro che accettarla, usarla, in molti casi semplicemente sopportarla; ma questo la legittima ancora di piú come simbolo unitario dell’intero popolo, e non solo del Soviet. Considerata in qualche modo la bandiera dello Stato «dualistico» nato in febbraio, il drappo rosso tende a essere rivendicato in modo esclusivo dai bolscevichi, che fanno di tutto per identificarsi totalmente con esso.
Lo stesso fanno gli altri partiti socialisti, che in ottobre accuseranno proprio i bolscevichi di «profanare» il simbolo della rivoluzione con un colpo di mano militare, di usurpare un colore e una bandiera che appartengono all’insieme del movimento rivoluzionario. I militanti dei partiti socialisti esclusi dal governo sorto in ottobre manifesteranno sotto lo sventolio delle bandiere rosse in occasione dello scioglimento dell’Assemblea costituente, ritenendosi i legittimi proprietari di quel simbolo e della tradizione che rappresenta; e terranno alta la bandiera sollevandola da terra e raccogliendola dalle mani dei caduti per mano della polizia bolscevica, che reprimerà duramente quella dimostrazione.
Qualche anno dopo, in occasione della rivolta di Kronštadt al termine della guerra civile, si leggerà in un volantino del Soviet della città che era stata «vanto» della rivoluzione:
Kronštadt non si è ribellata in nome della controrivoluzione o contro il popolo, ma per strappare la gloriosa bandiera rossa dalle mani di quel partito che, con il suo agire, l’ha insozzata di sporcizia e sangue del popolo, di crimini inenarrabili e inganno3.
In realtà, la bandiera rossa, che era stata il simbolo della rivoluzione tout court a partire da febbraio, diventa simbolo del bolscevismo solamente nel corso della guerra civile. In parte perché viene proclamata bandiera della RSFSR (Repubblica federale socialista sovietica di Russia) nell’aprile 1918, ma soprattutto perché, nella contrapposizione con i «bianchi», questi ultimi punteranno a diffondere l’orrore per il rosso, a farne l’emblema del regime che cercano di combattere, ribattezzando la stessa Croce rossa come Croce bianca per timore di farsi contaminare dal colore della rivoluzione e del bolscevismo (e questo, in larga misura, giocherà contro di loro, impedendo che molti rivoluzionari antibolscevichi si uniscano a reparti militari che paiono incarnare la reazione monarchica piú che il ripristino della democrazia).

2. Parole e immagini.

Un’altra battaglia importante che si svolge sui simboli è quella per la canzone della rivoluzione. Sono la Marsigliese e l’Internazionale a contendersi l’identità dei partecipanti alle manifestazioni di piazza e alle dimostrazioni pubbliche, dove le canzoni costituiscono un momento di mobilitazione e, al tempo stesso, di emotività collettiva. La Marsigliese prevale a febbraio, anche se in numerose occasioni sarà una sua versione particolare – la Marsigliese operaia4 – a essere intonata dalle masse riunite. La Marsigliese operaia era già da tempo un inno socialista, variante russa della piú famosa canzone francese, in cui la rivolta degli umili e degli sfruttati costituiva l’auspicio di un futuro dove la giustizia sociale poteva travolgere il potere dei ricchi.
Proprio perché la Marsigliese veniva considerata il canto della rivoluzione borghese, tra le masse di febbraio prevale di gran lunga la Marsigliese operaia, anche se i cadetti e i liberali resteranno legati alla prima. Inno patriottico di uno dei paesi belligeranti, per quanto alleato, la Marsigliese è rifiutata dai socialisti piú radicali di tutti i partiti, che le contrappongono direttamente l’Internazionale, canzone del movimento operaio cui si sentono legati, indistintamente, bolscevichi e menscevichi, socialisti rivoluzionari e anarchici. Quest’ultima, malgrado l’attivismo e il dinamismo dei militanti e agitatori politici di fede socialista, non era riuscita a imporsi dopo la rivoluzione del 1905; ci riuscirà lentamente nel corso del 1917, soprattutto quando verrà adottata dal Soviet, nell’Ottobre, come inno ufficiale.
Anche l’Internazionale era stata oggetto di contese tra i diversi partiti socialisti, nessuno dei quali – come per la bandiera – sembrava disposto a perdere un simbolo importante e cederlo ai piú vicini concorrenti politici. Nelle grandi manifestazioni di San Pietroburgo del 1917 l’inno viene cantato dagli attivisti di tutti i partiti rivoluzionari, e solo quando, dopo l’Ottobre, i bolscevichi se ne approprieranno in modo esclusivo obbligando a cantarlo ovunque, verrà ripudiato dagli altri partiti socialisti come forma di protesta contro il regime bolscevico. Il maggiore successo nel corso del 1917 della Marsigliese operaia, tuttavia, testimonia quanto fosse forte la spontaneità rivoluzionaria di massa dopo febbraio e quanto fosse difficile ai partiti, anche ai piú organizzati e radicali, egemonizzare i sentimenti e le passioni che le masse esprimevano attraverso simboli e riti collettivi.
Se le bandiere e le canzoni costituiscono il versante propositivo dell’emotività simbolica delle masse, non meno importanti sono i fenomeni e i momenti di manifestazione negativa di questa stessa carica di partecipazione collettiva. La furia distruttrice e iconoclasta della rivoluzione mostra anch’essa, di fatto, quanto la politica rivoluzionaria fosse debitrice della forte passionalità religiosa esistente nel paese. Dove maggiore e piú radicato è il culto degli zar, ad esempio, lí sarà piú evidente la violenza contro le immagini e i simboli del passato regime e, in seguito, la sacralizzazione di nuove icone della rivoluzione, persone comprese. Il vero e proprio culto nei confronti di Kerenskij, leader popolarissimo ed emblema della stessa rivoluzione tra aprile e settembre, verrà sostituito rapidamente da quello di Lenin, che risulterà tuttavia meno spontaneo e piú controllato e diretto dagli apparati di potere.
La distruzione di effigi e ritratti degli zar, il fuoco appiccato a figure e statue della famiglia imperiale, l’accanimento a volte diretto contro i soli occhi delle immagini dei potenti – con la frequente esclusione di Pietro il Grande e Caterina – si accompagna alla vera e propria demolizione di edifici e monumenti, presso i quali sovente avvengono le violenze di gruppo o gli assassinii di vittime prese a emblema dell’intero passato regime. Molto spesso, prima o al posto della distruzione, si coprono i monumenti con drappi rossi, si capovolgono i ritratti dello zar, compiendo tutti i gesti che, in precedenza, erano severamente proibiti e sanzionati con punizioni draconiane.
Si sente poco il rivolgimento – scrive un soldato tedesco prigioniero nella provincia lontana – se non fosse per il fatto che cacciano gli occhi alle immagini dei lubok5 della famiglia imperiale, davanti alla quale ieri pregavano6.
Un accanimento particolare è riservato alle non molte statue di Stolypin, primo ministro di Nicola II tra il 1906 e il 1911, autore di quella riforma agraria che aveva indebolito e smembrato le comunità rurali di villaggio e fautore di una repressione decisa e violenta contro i movimenti di opposizione. A Kiev – dove il 14 settembre 1911 era stato assassinato in un attentato da un radicale di sinistra che era anche informatore dell’Ochrana, la polizia politica – la sua statua viene arricchita di una cravatta rossa (all’epoca, la «cravatta di Stolypin» era il modo popolare di chiamare l’impiccagione), poi di una bandiera rossa a coprirne la testa, infine smontata, incatenata e impiccata nel corso di una festa per la libertà che si tiene verso la metà di marzo, allegoria popolare di una sorta di contrappasso e vendetta simbolica.
Quasi tutte le statue degli zar vengono smantellate o distrutte in tutta la Russia all’indomani del Febbraio, comprese quelle di Alessandro II, lo zar che aveva sí liberato i servi, ma aveva poi presto indebolito ogni ipotesi riformatrice, riprendendo a tratti la piú tradizionale autocrazia. Nella maggior parte dei casi ciò avviene con spontanee manifestazioni popolari, ma spesso anche per decisione dei poteri locali che organizzano, al canto della Marsigliese, cerimonie pubbliche di sostegno al Governo provvisorio e/o al Soviet. Questo fenomeno conosce ulteriore spinta e accentuazione dopo l’Ottobre, quando i bolscevichi dànno un sostegno statale organizzato a una campagna globale contro i simboli del vecchio regime, a testimonianza della loro precisa volontà di utilizzare le forme rivoluzionarie spontanee per rafforzare il proprio consenso e il proprio potere.
La proliferazione di feste della libertà e di «funerali» simbolici al regime zarista dopo febbraio costituisce un aspetto fondamentale per la costruzione di una nuova ritualità pubblica, che trova un momento importante il 23 marzo, giorno dedicato al solenne funerale delle vittime della rivoluzione. La creazione di un culto dedicato ai «combattenti per la libertà» trasforma un riconoscimento che apparteneva, precedentemente, alla vita clandestina e ai partiti rivoluzionari, in una solennità...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. 1917. La Rivoluzione
  5. I. L’annuncio
  6. II. La rivoluzione
  7. III. La parola e la storia
  8. IV. La rivoluzione e i suoi simboli
  9. V. La parola che decide la storia
  10. VI. Il potere
  11. VII. Mantenere il potere
  12. VIII. Il mondo e l’Ottobre
  13. Conclusione
  14. Cronologia del 1917
  15. Il libro
  16. L’autore
  17. Copyright