Chiese chiuse
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Chiese chiuse

  1. 160 pagine
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Chiese chiuse

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Migliaia di chiese sono oggi inaccessibili, saccheggiate, pericolanti. Altre sono trasformate in attrazioni turistiche a pagamento. Oggi non sappiamo cosa farcene, di tutto questo «ben di Dio», e bene pubblico: mancano visione, prospettiva, ispirazione. Ma è anche lí che si potrebbe costruire un futuro diverso. Umano. Le antiche chiese italiane ci chiedono di cambiare i nostri pensieri. Con il loro silenzio secolare, offrono una pausa al nostro caos. Con la loro gratuità, contestano la nostra fede nel mercato. Con la loro apertura a tutti, contraddicono la nostra paura delle diversità. Con la loro dimensione collettiva, mettono in crisi il nostro egoismo. Con il loro essere luoghi essenzialmente pubblici sventano la privatizzazione di ogni momento della nostra vita individuale e sociale. Con la loro viva compresenza dei tempi, smascherano la dittatura del presente. Con la loro povertà, con il loro abbandono, testimoniano contro la religione del successo. Possiamo decidere che anche questi luoghi speciali che arrivano dal passato devono chinare il capo di fronte all'omologazione del pensiero unico del nostro tempo. O invece possiamo decidere di farli vivere: per aiutarci a vivere in un altro modo.

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Informazioni

Capitolo nono

Le chiese e il Vangelo

Il Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo; e non è servito dalle mani dell’uomo, come se avesse bisogno di qualcosa; lui, che dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa. Egli ha tratto da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitino su tutta la faccia della terra, avendo determinato le epoche loro assegnate, e i confini della loro abitazione, affinché cerchino Dio, se mai giungano a trovarlo, come a tastoni, benché egli non sia lontano da ciascuno di noi.
Atti degli Apostoli 17,24-27.
C’è un passo dei Vangeli che mi ha sempre profondamente colpito, fin da ragazzo. È uno dei pochissimi passi in cui si parli di un monumento storico e artistico: eppure Gesú spegne il timido entusiasmo estetico dei suoi discepoli con parole singolarmente dure, quasi sprezzanti. Tutti i Sinottici lo riportano, con sfumature diverse:
Mentre usciva dal Tempio, un discepolo gli disse: «Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!» Gesú gli rispose: «Vedi queste grandi costruzioni? Non rimarrà qui pietra su pietra che non sia distrutta».
(Marco 13,1-2)
Mentre Gesú usciva dal Tempio e se ne andava, i suoi discepoli gli si avvicinarono per fargli osservare gli edifici del Tempio. Ma egli rispose loro: «Vedete tutte queste cose? Io vi dico in verità: Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sia diroccata».
(Matteo 24,1-2)
Alcuni gli fecero notare come il Tempio fosse adorno di belle pietre e di doni votivi, ed egli disse: «Verranno giorni in cui di tutte queste cose che voi ammirate non sarà lasciata pietra su pietra che non sia diroccata».
(Luca 21,5-6)
Siamo davanti al grande Tempio rifatto da Erode, un monumento carico di secoli e di storia. Tutta la conversazione è imperniata sul verbo chiave del nostro rapporto con i monumenti: «vedere». I discepoli fermano Gesú, lo invitano a sostare e a guardare, osservare, notare l’architettura, l’arte, l’ornato, le suppellettili sacre e gli oggetti del culto. Gesú risponde prendendo le distanze da questo sguardo estetico («queste cose che voi ammirate»), e invitando a sua volta a guardare: ma con un altro sguardo. Sembra di poter dire: non con uno sguardo verso il passato, ma con uno rivolto al futuro. Un futuro, tuttavia, cupo, quasi da Qoelet: tutto è vano, anche la bellezza. E infatti il capitolo continua con un discorso sulla fine del mondo. Ma, come spiegavano già i Padri della Chiesa, la chiave dell’apparente inimicizia di Gesú per la bellezza del Tempio va cercata altrove, nel brano (che abbiamo già, inevitabilmente, incontrato) in cui Giovanni racconta la cacciata dei mercanti:
La Pasqua dei Giudei era vicina e Gesú salí a Gerusalemme. Trovò nel Tempio quelli che vendevano buoi, pecore, colombi, e i cambiavalute seduti. Fatta una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori dal Tempio, pecore e buoi; sparpagliò il denaro dei cambiavalute, rovesciò le tavole, e a quelli che vendevano i colombi disse: «Portate via di qui queste cose; smettete di fare della casa del Padre mio una casa di mercato». E i suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi consuma». I Giudei allora presero a dirgli: «Quale segno miracoloso ci mostri per fare queste cose?» Gesú rispose loro: «Distruggete questo Tempio, e in tre giorni lo farò risorgere!» Allora i Giudei dissero: «Quarantasei anni è durata la costruzione di questo Tempio e tu lo faresti risorgere in tre giorni?” Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando dunque fu risorto dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che egli aveva detto questo; e credettero alla Scrittura e alla parola che Gesú aveva detta.
(Giovanni 2,13-22)
Ora è tutto piú comprensibile: Gesú scuote i discepoli perché vedano qual è il vero Tempio, cioè il suo stesso corpo. Egli non detesta affatto il Tempio di pietre: anzi, ne difende la dignità con straordinario zelo, espellendone coloro che lo riducono a merce. La lezione è duplice, e straordinariamente importante non solo su un piano religioso: la bellezza non riguarda le pietre, ma le persone. Ed è per questo che non si può mercificare. In concreto per noi, significa che ciò che giudichiamo bello (un quadro, un paesaggio, una città) non lo è in sé, nella sua materialità finita e circoscritta, ma nella misura in cui si riferisce alle persone, in corpo e anima. Il messaggio è chiaro: quando tuteliamo un “bene culturale”, quando difendiamo un pezzo di costa dal cemento, quando vogliamo provare a rendere piú bella una periferia urbana non lo facciamo per i diritti di queste cose (che non hanno diritti, e sono morte: inanimate), ma lo facciamo per i diritti degli umani le cui vite sono determinate, nel male e nel bene, da queste cose. Ogni architettura, ogni scultura, ogni quadro è in rapporto con i corpi dei vivi: e la bellezza è precisamente in questo rapporto. Dobbiamo fare la nostra parte: cominciando a usare uno sguardo diverso da quello dei discepoli di Gesú. Guardando le pietre dobbiamo vedere non solo le pietre: ma i corpi vivi, i soli che conferiscono a quelle pietre inanimate la loro bellezza. È ciò che Gesú esorta i discepoli a fare, subito prima di gelarli con la sua profezia sulla distruzione del Tempio:
Diceva loro mentre insegnava: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e ostentano di fare lunghe preghiere; essi riceveranno una condanna piú grave». E, sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte. Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino. Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: «In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro piú di tutti gli altri. Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
(Marco 12,38-44)
La magnificenza del Tempio è dunque il teatro di una delle piú dure condanne dei “professionisti della religione” e di una delle piú dolci esaltazioni dell’amore semplice e povero degli ultimi. La povera vedova e non gli scribi danno senso al Tempio: una indicazione assai chiara anche per il destino delle nostre antiche chiese.
E se questo spirito profetico è necessario sempre, anche per il piú laico interprete del progetto di eguaglianza e giustizia sociale della Costituzione, non lo sarà a maggior ragione per i cristiani, per la Chiesa che governa le antiche chiese italiane?
In verità, non molti pensano che lo sia. Intendiamoci, la Chiesa universale e quella italiana hanno fatto moltissimo perché il «popolo di Dio “diventi sempre piú consapevole dell’importanza e della necessità di conservare il patrimonio storico e artistico della Chiesa”»1. Non si contano le allocuzioni papali, i documenti della Pontificia Commissione per i Beni culturali della Chiesa, le linee guida della Conferenza episcopale italiana, i convegni tematici. E l’encomiabile portale dei Beni culturali ecclesiastici (beweb.chiesacattolica.it), punto di riferimento per religiosi e storici dell’arte, «rende visibile il lavoro di censimento sistematico del patrimonio storico e artistico, architettonico, archivistico e librario portato avanti dalle diocesi italiane e dagli istituti culturali ecclesiastici sui beni di loro proprietà»2. In particolare, bisogna ricordare il progetto Cdi (le Chiese delle diocesi italiane) per cui:
le Diocesi dapprima produrranno un elenco delle chiese e gradualmente, attraverso la realizzazione dei progetti diocesani di censimento, costituiranno una Banca Dati nazionale delle Chiese italiane. Ad oggi la Banca Dati comprende 67 336 Chiese (di cui 66 251 pubbliche), frutto del lavoro sull’Elenco Chiese di 219 Diocesi. Per 31 021 chiese – appartenenti a 213 diocesi – è consultabile una scheda piú ampia di approfondimento e la scheda di censimento3.
Si potrebbe opinare che la scelta (legittima e comprensibile, del resto) di dedicarsi solo alle chiese di proprietà della Chiesa, rinunciando a occuparsi delle altre circa trentamila in possesso di Stato, enti locali o privati, abbia a che fare con il revanscismo “sovranista” ecclesiastico che ha tentato (in parte con successo, dal 1984 in poi) di ridimensionare il controllo della Repubblica sulla tutela del patrimonio. Ma, paradossalmente, il vero limite di tutto questo – ripeto – encomiabile sforzo sta invece proprio nell’acritico introiettamento della mentalità e del lessico che presiedono, negli ultimi decenni, al discorso pubblico e al governo del patrimonio culturale pubblico. Lo stesso uso del sintagma “beni culturali” (bona culturalia, nel latino dei documenti curiali…), che è stato salutato come un segno di modernizzazione4, può invece essere letto come l’indizio di una totale soggiacenza allo spirito del secolo: perché la Chiesa, artefice lungo i millenni di un vocabolario strepitosamente ricco e profondo anche in fatto d’arte e cultura, avrebbe forse potuto aprire gli orizzonti di un angusto serraglio amministrativo-gestionale, e non rinchiudervisi a sua volta. Invece, “fruizione”, “gestione”, “valorizzazione” sono ormai le parole chiave di un discorso che sovrappone papi e ministri, cardinali e direttori generali ministeriali. E la figura che, tristemente, emerge è quella del “prete manager dei Beni culturali”, in una prospettiva in cui diventa difficile distinguere tra Università Cattolica e Università Bocconi: una prospettiva ben riassunta nel manuale di monsignor Giancarlo Santi (laureato in Architettura, già direttore dell’Ufficio beni culturali e arte sacra della Curia di Milano e, fino al 2005, dell’Ufficio nazionale per i Beni culturali ecclesiastici della Cei): I beni culturali ecclesiastici. Sistemi di gestione (2012). Il rischio è evidente: ed è quello che anche la Chiesa subisca l’omologazione del pensiero unico sui Beni culturali, egemonizzato da quella «economia che uccide» cosí spesso denunciata da papa Bergoglio. Come ha scritto, già nel 1967, Ivan Illich:
Può darsi che tutto questo ci aiuti a capire che i criteri della gestione aziendale non si applicano al Corpo di Cristo. È perfino piú inappropriato intendere il Suo Vicario alla stregua di un amministratore delegato che non di un imperatore bizantino. Una tecnocrazia clericale è ancora piú remota dal Vangelo di una aristocrazia sacerdotale. Potremmo arrivare a riconoscere che l’efficienza corrompe la testimonianza cristiana piú sottilmente del potere5.
Come è successo in tutti gli altri ambiti della vita ecclesiale, il pontificato di Francesco ha spalancato le finestre, facendo entrare il vento dello Spirito. Vento che scompiglia le carte umane: perfino quelle della “gestione dei beni culturali di interesse religioso”. Non alludo a vere e proprie novità dottrinali sull’uso del patrimonio culturale, ma alla direzione in cui le parole del pontefice spingono la Chiesa: la direzione del Vangelo.
Nella Laudato si’ (2015) si afferma che:
insieme al patrimonio naturale, vi è un patrimonio storico, artistico e culturale, ugualmente minacciato. È parte dell’identità comune di un luogo e base per costruire una città abitabile. Non si tratta di distruggere e di creare nuove città ipoteticamente piú ecologiche, dove non sempre risulta desiderabile vivere. Bisogna integrare la storia, la cultura e l’architettura di un determinato luogo, salvaguardandone l’identità originale. Perciò l’ecologia richiede anche la cura delle ricchezze culturali dell’umanità nel loro significato piú ampio. In modo piú diretto, chiede di prestare attenzione alle culture locali nel momento in cui si analizzano questioni legate all’ambiente, facendo dialoga...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Premessa
  4. Chiese chiuse
  5. I. L’Italia sacra crolla
  6. II. L’industria del sacrilegio
  7. III. Mercanti nel tempio
  8. IV. Simonia
  9. V. Il diavolo sul pinnacolo del Tempio
  10. VI. Culto contro storia
  11. VII. Di chi sono le chiese?
  12. VIII. Le chiese e la Costituzione
  13. IX. Le chiese e il Vangelo
  14. Conclusione
  15. Il libro
  16. L’autore
  17. Dello stesso autore
  18. Copyright