È una donna innamorata che canta, che canta cosí bene in questo disco. Potrebbe essere, in effetti, davvero innamorata, quando esegue la sua canzone d’amore, in un modernissimo studio di registrazione di New York o Londra, tra i viluppi di cavi e i microfoni sospesi e le distese dei mixer e le lattine di Sprite e i portacenere pieni, tutto lo staff visibilmente indaffarato – potrebbe cantare col profilo dell’amato nella testa e il suo odore fra le cosce, svolgendo un lavoro ma nello stesso tempo esprimendo una condizione reale, uno stato di fatto: una coincidenza, in fondo, tutt’altro che rara. Oppure, da brava cantante, e libera in quel particolare momento della vita da passioni e inclinazioni, finge, riproduce esattamente il tono innamorato necessario al suo pezzo. La differenza, nelle canzoni d’amore, non si può mai stabilire con certezza. È probabile, semmai, che proprio questa feroce ambiguità faccia delle canzoni uno strumento potente e sottile, una calamita, un centro gravitazionale di emozioni universali. Il nostro Corano – tutto ciò che c’è da imparare nella vita, con i suoi rischi e le sue felicità. Il segreto, forse, sta proprio lí – nello spazio, nell’oscillazione tra il finto e il vero dove il serpente della melodia svolge e riavvolge le sue spire…
E anche le attrici dei film porno, godranno davvero, ogni tanto, approfittando di certe posizioni, di certe fantasie, di certi improvvisi accostamenti di idee e ricordi… mentre, anche loro, lavorano? Si sentiranno mai davvero puttane, come si fanno chiamare nei rari dialoghi? Cose difficili da stabilire a prima vista. E gli uccelli, mettiamo i gabbiani che volano nella luce del tramonto verso l’orizzonte – si sentiranno mai davvero alati? Oppure se ne fregano, si attengono al loro stare in vita, lottando con la fame e col vento, ora dopo ora? E l’acqua che scende dal tubo del rubinetto – almeno lei, avrà coscienza di essere fresca?
All’origine di questo equivoco perpetuo, certamente ci sono io. Nessun aggettivo mi corrisponde con sicurezza, garantisce per me.
So, comunque, di cosa sta parlando la canzone d’amore. Solo in casa, all’ora del tramonto, mentre aspetto mia moglie che torna dal lavoro, leggo le parole sul libretto del disco, stampate in caratteri sottili tra foto d’arte e disegni in vario stile. La lettura acuisce il mio potere di identificazione, di commozione. Sospende l’incredulità. Salda la mente alla melodia. Sono un sentiero di ceneri, dice la canzone, brucio sotto i tuoi piedi. Sono una fontana di sangue in forma di donna.
La tendenza all’incendio, la piromania sentimentale contemporanea. So bene di che parla. Le feu d’amour. Un’altra cosa che non dà luce, un’ombra che si annida nell’ombra. Un’ulteriore forma, probabilmente, una maschera maliziosa del panico, del disordine universale. Mia moglie ha sei serpenti tatuati sulla scapola sinistra. Formano un groviglio simmetrico, una specie di fiore dai petali sinuosi. Un graal.
Cose che non si imparano in un giorno: ardere, rigirarsi nel calore dello stimolo, speronati dalla voglia. Una elaborata visione del mondo, un sottile arabesco di pensieri, valori, pulsioni variamente sublimate. Filosofia quotidiana, filosofia perenne. Queste sono le canzoni.
Brucio sotto i tuoi piedi.
Io sono un uomo importante. Una fontana di sangue, in forma di marito innamorato. Una fettina, un tassello del tempo storico, che ronza lí all’esterno – da qualche parte. Un nodino, un filamento della Grande Trama.
La misura della mia importanza, a occhio e croce, è data dalle mie cose. Solo in casa, nel tardo pomeriggio, sembra proprio cosí: io sono il pastore delle mie cose. Le quali hanno un evidente carattere di controprova della mia esistenza, della mia importanza. Tra tutte le unità di misura, non è certo questa la piú ingannevole, bisogna ammettere. Un po’ come il lavoro nel bonario e paterno proverbio tedesco, anche il possesso, ci viene spesso ricordato, rende liberi. Potenzia facoltà fondamentali: l’identificazione, la manipolazione, la sottomissione. Le principali virtú di noi pastori.
… I’m a path of cinders
burning under your feet…
Nelle stanze sotterranee, i corpi degli Antichi (mercanti, cacciatori, condottieri) circondati dai loro oggetti. Pettini d’osso, collane di pietra, punte di freccia, lampade a forma di navicella. Le selle, i tappeti, i pugnali ornamentali, gli schiavi preferiti. Gli strumenti della caccia. Stoffe dipinte, bracciali d’oro massiccio, droghe, unguenti per la pelle.
Non è piú necessaria la morte, a quanto pare, per questa definitiva intimità con gli oggetti. Non è piú necessaria la pira funebre, la discesa nell’ipogeo. È un’indiscutibile comodità del mondo d’oggi, tra le tante: tutti i piaceri e le delizie della tomba, ma prima di iniziare a putrefarsi.
Cose materiali, e immateriali – in sagge proporzioni. Possiedo libri, dischi, videocassette. Parecchi cofanetti contenenti libro e disco, o videocassetta sposata a libro – l’uno a complemento, a definitiva illuminazione dell’altro. In lunghe pile appoggiate ai muri, in mucchi vagamente piramidali, negli scaffali piegati dal peso, negli armadi: i veicoli, i reperti, i messaggeri del sapere contemporaneo, del sapere universale. Abbiamo una storia del cinema porno ai tempi del muto, varie monografie riguardanti illustri calciatori, nuove droghe sintetiche, perversioni sessuali estreme. Vite di santi eremiti, di matematici illustri, di stelle della disco music. Abbiamo una storia illustrata del bidet – dagli Egizi a oggi. Un libro intitolato Politica e Zen varie volte studiato e sottolineato da mia moglie, per motivi che non so immaginare. Innumerevoli guide a ogni forma di saggezza: laica, religiosa, mezza e mezza. Epistolari, inserti speciali, conferenze. Cartelline di ritagli: scientifici, geografici, astrologici. Due volumi enormi di una vita di Adolf Hitler. Un libretto esile, che sfoglio spesso, intitolato Anche tu astronauta. Le tesi di questo libretto, c’è da dire, sono decisamente contestate in un altro, che pure possediamo, intitolato Ufologia radicale. Programmi di sala, comunicati stampa, carte stradali, mappe di paesi immaginari, decine di riviste specializzate. «Telefonino amico», «Quattrozampe», «Pulp», «Bolina», «Astrella», «Topolino», «Flash Art», «Selen», «National Geographic».
«Ardere», l’organo dell’associazione a favore della cremazione.
«Il Telo», bollettino degli studiosi della Sacra Sindone.
«Airone», «Poesia», «Il Mucchio Selvaggio».
«Io Donna», «Corriere Salute».
«Futuro News»…
Pacchi di vecchie lettere, ricettari, una raccolta di francobolli, l’atlante anatomico e il codice civile.
Granelli, nella sabbia del possesso. L’enumerazione è vana.
Come spiegarmi? Progressivamente, da un anno al successivo, sento la mia intelligenza, la mia capacità di apprendimento e interpretazione del mondo circostante, ridursi a zero. Sono il pastore delle mie cose.
Quotidianamente accolgo in me quantità di informazioni che nemmeno in cento vite potrebbero esaurire la loro potenziale utilità. Perché servono a ben altro, è ovvio – servono a possederle. I miei pori sono spalancati. La grande corrente mi ingravida, mi impregna, mi schizza dentro da quando sono al mondo. Come le cavalle del poeta latino, mi viene spesso da pensare, fecondate dal vento di primavera – vento leggero, scherzoso, ma pure capace di insinuarsi nei recessi giusti. Elaboro analogie, decifro, memorizzo. Collego. Sono ben addestrato – un membro attivo della stirpe sapiente, possidente.
Visioni del mondo, cifre di ingaggi, allegorie, indirizzi giusti, migrazioni di simboli, repertori essenziali di idee per qualunque tipo di conversazione.
Possiedo sandali di cuoio, pantaloni stirati, magliette di università americane (Providence College è la mia preferita), altre decorate con frasi tratte dalle opere di autori per qualche motivo famosi – frasi spiritose, allusive, a volte vagamente minacciose: io sono vivo e voi siete morti, c’è scritto su una. Su un’altra si legge: anima mundi. Su un’altra ancora, che indosso, lo devo confessare, senza ancora comprenderla bene: il futuro è liquido. Molti dei pensieri, delle esortazioni, dei consigli piú intelligenti e suggestivi che si conoscono oggi, bisogna ammettere, si leggono sulle magliette. Li si apprende sulla pancia degli altri, le notti d’estate.
La suoneria del telefonino di mia moglie esegue Sul bel Danubio blu a ogni chiamata. Quando ci mette tanto a rispondere, in casa aleggia un’atmosfera che si potrebbe definire viennese, un clima da concerto di Capodanno, da principessa Sissi, da gita al Prater.
Ma quante saranno le melodie che adesso, proprio in questo momento di questa sera, risuonano nell’aria? Tutte figlie della stessa madre, forse, miraggi illusori della stessa mancanza, dello stesso silenzio. Canzoni che si intonano in coro, nel nostro mondo. Fra gente solidale, pacificata dagli inni. Tutte le canzoni, comunque, apertamente o meno, sono canzoni d’amore. Non esistono, in pratica, altri generi. Cantano l’oggetto amato, lo rivestono di melodia. Lo cullano.
In certe grosse scatole messe da parte, conserviamo i vecchi telefonini, quelle strane e scomode ricariche chiamate «fornelletti», walkman d’annata, bancomat scaduti. Confezioni di sigari cubani, che mai nessuno fumerà, occhiali da sole fuori moda, macchine fotografiche prive di obiettivo, mazzi di carte francesi e raccoglitori di fiches, libretti d’istruzioni per l’uso di decine di utensili. Sembra proprio che non ci sia nessuna cosa al mondo che sia priva di una descrizione stampata da qualche parte. Noi non tradiamo quasi mai le nostre cose. Se cadono sul cammino, ci fermiamo a raccoglierle. E se potessimo, come gli Achei, di sicuro indiremmo dei giochi funebri in onore di ogni cinturino rotto, di ogni disco rigato, di ogni lampadina fulminata. È la lealtà occidentale, il collezionismo sepolcrale, l’ultima forma possibile di autentica cavalleria.
Le melodie delle canzoni ci dànno la forza necessaria a tirare avanti, a rigare dritto. L’onda del canto innalza e sostiene. Cantare, in fondo, è la stessa cosa che possedere.
C’è un sito Internet che mia moglie mi ha fatto vedere. Predicono il giorno, il mese e l’anno della tua morte. Ci sono tre opzioni: ottimista, pessimista e medium. Senza nemmeno consultarci, ci siamo subito orientati per l’ottimista. Abbiamo di fronte a noi lunghe stagioni, tante annate di riviste, nuovi scaffali da far costruire per contenerle. Tutte le melodie del mondo da far risuonare nelle nostre stanze.
I’m a path of cinders
burning under your feet…
A volte, quando sono solo e mia moglie tarda a ritornare dal lavoro, abbandono il divano e faccio, senza darlo a vedere nemmeno a me stesso, una visita completa – una specie di ronda – alla nostra riserva di medicine. Lí c’è l’Uomo Nuovo, l’irraggiungibile. La punta piú alta, piú acuminata dei nostri pensieri. Acquattato, disseminato nelle scatole multiformi, nelle boccette, nei blister semivuoti, nel fondo delle polveri, degli estratti, delle soluzioni. Padrone del sonno, dell’erezione, della lubrificazione. Del ritmo cardiaco e della secrezione. Della defecazione. Ogni medicina contiene un frammento, una dispersa scintilla dell’Uomo Nuovo, del colosso invisibile. Ognuna delle nostre malattie è un attributo della sua forza. Ogni ora della nostra malinconia per lui è un attimo radioso, un’aurora che inizia a risplendere.
Io venero le medicine, le accarezzo. Le saluto. Non mi vergogno: ho fede, ho speranza. Mi affido a occhi chiusi al volere sapiente, alla profonda giustizia dei farmaci.
Potenze analgesiche, ansiolitiche, lassative.
Potenze antistaminiche.
Anticoagulanti.
Antidepressive.
Tetracicline, vitamine, benzodiazepine.
Ne invoco l’efficacia, adesso e al momento supremo. L’efficacia del Tavor quotidiano, dell’ultima morfina.
Autan, Lexotan.
Imovane, Triptizol.
Laroxil, Betagon.
Bimixin.
Actifed.
Voltaren.
Per fare la ronda delle medicine devo spostarmi in bagno. Quanto alle divinità medicinali, questo è sicuramente una specie di Olimpo, suddiviso in varie dimore. C’è l’armadietto di legno, che letteralmente trabocca, tanto che, ogni volta che si apre lo sportello, rotolano fuori scatole di Mesulid, confezioni di garza, fiale trasparenti di Enterogermina. Come i primi cuccioli, i piú vivaci di una folta nidiata. Ma non è, l’armadietto, l’unico rifugio per le nostre medicine. Un’altra colonia importante, impreziosita addirittura da una pompetta arancione per clisteri, sta dietro la cabina della doccia. Lí c’è qualche pezzo raro, ma non meno necessario, tutto considerato, al grande compito: all’edificazione del semidio farmacologico, del Fanciullo Sano annunciato dai profeti, dalle sibille, dalle posologie.
I foglietti nelle scatole, con le istruzioni e le formule chimiche, in molti li chiamano, chissà perché, «bugiardini». E invece, al capitolo Effetti collaterali, dicono sempre la verità. Gli effetti sono sempre gli stessi, per qualsiasi medicina: diarrea, eruzioni cutanee, tachicardia, sonnolenza incontenibile mentre si guida o si manovrano congegni industriali; e infine: morte prematura e vergognosa. C’è poco da scherzare. In questa infallibile progressione di sventure, suggerita al momento del consumo, c’è una sapienza tanto grande, che nessuna capacità individuale potrà mai esaurire. Non a caso siamo in tanti, a consumare le stesse confezioni, le stesse posologie, gli stessi arcani avvertimenti. Ma perché le minacce? È il vero oracolo, il conosci te stesso, il Messaggio dell’Uomo Nuovo per noi, esiliati nel deserto dei sintomi. La profonda teologia, la rigorosa morale, la sottilissima casistica dei foglietti illustrativi mi cattura. Esalta le mie peculiari qualità e prerogative di lettore, di moderno interprete. Molecole complesse, principî attivi, dosaggi per adulti e dosaggi per bambini.
Autan, Lexotan.
Imovane, Triptizol.
Laroxil, Betagon.
Bimixin.
Actifed.
Voltaren.
Nomi benefici, nomi generosi – la forza acustica e terapeutica dei mantra annidata nelle loro sillabe.
Ci sono, infine, le medicine in ordine sparso, disseminate sull’intera superficie del visibile, nel nostro gabinetto: a volte in riposo solitario, a volte raggruppate in piccole, fortuite colonie di non piú di tre, quattro elementi – una pomata antibiotica per infezioni agli occhi, una coppia di aspirine effervescenti, un severo antiallergico, le supposte di glicerina. Complessi, misteriosi legami d’amicizia, di reciproca indifferenza, di aperta ostilità all’interno del popolo dei farmaci. Per descriverli ci vorrebbe una specie di storico bizantino, un compilatore di intrighi, tradimenti, dinastie.
Autan, Lexotan.
Imovane, Triptizol.
Laroxil, Betagon.
Bimixin.
Actifed.
Voltaren.
Non riesco a farci l’abitudine. Ogni volta che, appena attraversata la porta del bagno, mi rendo conto che è ancora accaduto, rimango lí in preda allo sgomento, al doloroso e impotente stupore, come se non fosse mai successo prima.
Si tratta, in primo luogo, di uno stupore di natura cromatica. Il mio campo visivo è invaso da strani oggetti, rettangolari e apparentemente morbidi, di colore bianchissimo, sparsi sul pavimento. Proprio nel mezzo della loro accecante bianchezza, questi oggetti portano impressa una macchia circolare di colore rosso scuro. L’aspetto fa pensare alla bandiera del Giappone, o meglio alla fascia che i kamikaze, quegli indomabili coglioni, si mettevano in fronte prima di andare a schiantarsi sulle portaerei del nemico. Ma il materiale appare gonfio, umido, slabbrato – come gli orologi di Salvador Dalí.
La prima volta ero sicuro che si trattasse di un’allucinazione. Non ne avevo mai avute, perlomeno da sobrio, eppure: non poteva che essere cosí. Oggetti bianchi e rossi, simili a ornamenti per kamikaze dipinti da Dalí, sparsi sul pavimento del bagno.
Ma, per quanto stupefacente, la verità non ha tardato a rivelarsi.
Quando mia moglie ha le mestruazioni, ammucchia gli assorbenti usati nel cestello per la ...