«The Square».
Nel 2017 la Palma d’oro del Festival di Cannes viene assegnata a The Square di Östlund. Ne è protagonista Christian, curatore di un importante museo di arte contemporanea di Stoccolma. Un giorno Christian si imbatte in una donna in pericolo. La soccorre. Ben presto, però, scopre di essere stato derubato del portafoglio e del cellulare. Disorientato, si reca al museo, dove la sua équipe sta lavorando a una mostra e a un’installazione intitolata The Square, appunto: in una piazza, separato dal viavai della folla, è disegnato un quadrato luminoso d’impronta minimalista.
Intorno alla cronaca di questo evento artistico, ruota il film del regista svedese. Che, non senza alcune discontinuità, oscilla tra satira, invenzione e critica. Per un verso, si svelano le tante ipocrisie che caratterizzano il sistema dell’arte contemporanea attraverso tante situazioni assurde: il dialogo tra il curatore e una giornalista; la cena con un performer eccessivo; la conferenza stampa disturbata dallo spettatore con la sindrome di Tourette; il ricorso a disinvolte iniziative di marketing virale sul web e sui social. Per un altro verso, raccontando questi eccessi, The Square si fa esso stesso opera d’arte: vi incontriamo installazioni e performance originali, non troppo diverse da quelle che si possono trovare in qualsiasi Biennale. Per un altro verso ancora, Östlund si interroga, con acume e ironia, sui tanti equivoci dell’arte impegnata: «santuario di fiducia e altruismo», The Square mette in scena l’idea dell’arte come spazio all’interno del quale il pubblico si sente partecipe di alcuni drammi della nostra epoca.
Etica del moderno.
Il film di Östlund coglie, innanzitutto, la vocazione politica cara a molti artisti contemporanei, i quali, pur se spesso privi di una precisa collocazione ideologica, sembrano muovere sempre da una certa sfiducia nella capacità dell’arte di bastare a se stessa: «come se l’autosufficienza rischiasse di svilirla, come se […] niente le giovasse piú di una rassicurante posizione ancillare»1.
Per vie diverse, essi contestano l’irresponsabilità, la non-partecipazione, la diserzione morale. Non accettano di adeguarsi all’«(in)cultura dell’optional», che annulla differenze e contraddizioni2. Di fronte al tramonto dell’Occidente, si fanno interpreti di quella che è stata chiamata la «svolta politica dell’estetica»3. Decretando il passaggio dalla distanza alla prossimità, dall’immobilità alla militanza, dal disincanto alla presa di coscienza, dalla contemplazione alla partecipazione, scelgono di schierarsi. Il loro fine: interrogare, per dirla con Brodskij, quell’«espressione vaga» che si disegna sul volto di Clio, la musa del tempo4; captare e amplificare il brusio spesso inascoltato del mondo, che comunica attraverso grammatiche in codice; intervenire in quella Messalina che è la Storia; aggrapparsi, sacrificarsi e bruciare al fuoco di quel-che-è-adesso, forse l’unica certezza su cui possiamo contare.
Attenti alla funzione e all’utilità della propria pratica, si concentrano soprattutto sui contenuti e sulle caratteristiche performative delle informazioni trasmesse. Talvolta accomunati da una certa diffidenza nei confronti delle ricerche linguistiche formali troppo elaborate, sembrano muovere dalla convinzione secondo cui maiora premunt: importante che il messaggio arrivi subito. Per aderire alla nuda vita, si affidano a testimonianze oggettive; credono nella possibilità della restituzione di determinati eventi attraverso resoconti trasparenti; si rifugiano dietro le ritualità proprie della fedeltà documentaria; assumono alcuni temi urgenti, cui attribuiscono soluzioni stilistiche immediate e intellegibili. Ricorrono, perciò, a un linguaggio il piú possibile neutro, referenziale e transitivo, capace di farsi capire da tutti. Nel ridurre il realismo al semplice riconoscimento dei fatti, sembrano abdicare a quella «rappresentazione stupita della fatticità», rimproverata da Adorno a Benjamin in una lettera del 19385. Rivelatore il caso della street art.
Insofferenti verso il concettualismo debole, questi artisti pensano i propri gesti poetici come strumenti di riparazione, non di emancipazione. Per bucare la barriera di rumore informativo che ci avvolge, denunciano emarginazioni, violenze, diseguaglianze, sofferenze, sfruttamenti, fame, miseria. E ancora: le migrazioni, la crisi della globalizzazione, i diritti civili, la dignità delle minoranze, l’imminente apocalisse ecologica.
Grazie a una polifonia di immagini e di punti di vista, con modi da reportage, gli artisti politici contemporanei mostrano cosí quell’incendio di the land of plenty cui, impotenti e distratti, stiamo assistendo. E, talvolta, con le armi di cui dispongono, si propongono di portare aiuto alle vittime di quell’incendio: non si limitano a fotografare alcune emergenze, ma sognano addirittura di contribuire a cambiare (e a migliorare) frammenti di mondo. È quel che accade con le azioni degli artivisti.
All’origine di questo orientamento, sembra esservi una precisa concezione poetica: «anche se nasce da un’irripetibile situazione individuale, [un’opera d’arte] si rivolge a tutti e dunque, se ha un messaggio morale, quest’ultimo diviene pure politico, perché entra nella vita, nei pensieri, nei sentimenti della polis, della comunità»6.
Tra i profeti di questo indirizzo estetico, Camus. Che, in un discorso del 1948, aveva parlato delle strette relazioni tra creazione ed esperienza civile: «sono due facce di una stessa rivolta contro i disordini del mondo»7. Una tesi che verrà ribadita nella conferenza pronunciata all’Università di Uppsala nel 1957, dove lo scrittore invita a concepire l’arte non come un monologo interiore, ma come un dialogo aperto con i «contemporanei sordi» e con le «generazioni a venire»8; ed elogia quegli artisti che, «strappati al sonno», per ritrovare la nobiltà della propria missione, assegnano alla responsabilità una notevole importanza e guardano «in faccia la miseria, le prigioni e il sangue», senza dimenticare gli umiliati:
Si può senz’altro desiderare […] una fiamma piú dolce, una tregua, la sosta propizia al sogno. Ma per l’artista non c’è altra pace all’infuori di quella che si trova nell’ardore della battaglia. […] Non cerchiamo la porta, e la via di uscita, altrove che nel muro contro cui viviamo […], per far risplendere fugacemente la verità sempre minacciata che ciascuno, sulle sue sofferenze e sulle sue gioie, erige per tutti9.
Moralismi.
The Square, dunque, evoca la virata neorealistica ora in atto nell’arte del nostro tempo. Ma, beffardamente, sembra suggerire anche i tanti rischi insiti in molte opere dei protagonisti di questo indirizzo: tra gli altri, bisogno di adeguarsi all’aria che tira, demagogia, perbenismo pedagogico, puritanesimo gauchiste, impegno prêt-à-porter, furba e strumentale militanza per mascherare la mancanza di autentica tensione civile, facile moralismo, adesione al politically correct, appello a presupposti etici condivisibili da tutti, una certa indignazione posticcia, volontà di non attribuire la dovuta centralità al nucleo piú profondo dell’arte – il suo tesoro segreto: il dubbio, l’ambiguità, la controversia.
Frequente, in primo luogo, l’inclinazione ad assimilare l’arte al giornalismo d’inchiesta (o all’attivismo). Un pericoloso equivoco: quando si lascia integrare da altro, l’arte sembra perdere fiducia in se stessa e nella propria autonomia. È quel che era stato sottolineato da Robert Hughes, il quale, ne La cultura del piagnisteo, aveva ricordato come raramente capiti di trarre da un quadro, da una scultura o da un’installazione qualche utile insegnamento sulla vita. «I meriti di un artista non sono funzione né del sesso, né dell’ideologia, né delle preferenze sessuali, né del colore di pelle o delle condizioni di salute». Tante sfumature distinguono l’arte dagli slogan, dai manifesti, dalla mera denuncia, dalla vuota espressività. Non basta assumere un soggetto drammatico per dar vita a una vera creazione. «Avere per tema […] l’intolleranza non dà a un’opera d’arte pregi estetici maggiori che se parlasse di sirene o palmizi»10. Decisivi altri valori: talento, bravura, invenzione linguistica, intensità di visione11.
Anestesie.
Ancora piú diffuso il rischio di inciampare nei tranelli dell’anestetizzazione su cui si era soffermata Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri. Una severa riflessione sull’uso e sull’abuso delle immagini che mostrano situazioni tragiche e atroci sofferenze. Immagini che vorrebbero rendere piú intenso il nostro senso del reale. Sembrano dire: «ecco ciò che gli esseri umani […] – entusiasti e convinti d’essere nel giusto – possono fare»12.
Nella maggior parte dei casi, però, ricorda la scrittrice statunitense, si tratta di istantanee che non riescono a emozionarci. Non ci toccano, né ci fanno soffrire o pensare. E ancora: non ci cambiano né generano in noi sdegno. Infine, non ci portano a riflettere sulla nostra possibilità di assimilare ciò che esse mostrano; e non si danno a noi come invito «ad apprendere […] le ragioni con cui le autorità costituite giustificano le sofferenze di massa»13.
Pur mossi da un’iniziale fascinazione voyeuristica, ci sentiamo distanti da quegli scatti commoventi. Abituati a una «dieta di orrori»14, avvertiamo piú il peso dell’impotenza che quello de...