Scienza, quindi democrazia
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Scienza, quindi democrazia

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Scienza, quindi democrazia

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Questo libro avanza una tesi eretica: l'idea che l'invenzione della scienza moderna abbia fornito gli strumenti cognitivi e morali necessari per far funzionare l'economia di mercato e consentire la nascita della democrazia. Grazie a tali strumenti, la scienza stimola la capacità di pensare in modo controintuitivo, permettendo di spiegare ciò che accade. Essa, inoltre, consente di prendere decisioni morali, economiche e politiche che non sono «naturali» - date le predisposizioni comportamentali di cui ci ha dotato l'evoluzione - ma che, tuttavia, migliorano la società sotto tutti i punti di vista. La scienza ci fa godere i vantaggi materiali del vivere in condizioni che, dalla rivoluzione neolitica in poi, sono diventate via via piú innaturali.
Le tesi di questo libro sono quasi censurate in Italia, dove una cultura umanistica pervasiva, tradizionalista e antiscientifica è all'origine dell'incapacità del paese di elevarsi moralmente e stare al passo con le economie della conoscenza.

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Informazioni

Capitolo quarto

L’evoluzione di una conoscenza contro natura

1. Perché la scienza non è senso comune.

La struttura della scienza di Ernst Nagel è stato largamente utilizzato negli anni Sessanta e Settanta come manuale di epistemologia delle scienze empiriche, in quanto esemplare per chiarezza ed espressione del punto di vista prevalente, cioè quello neopositivista o neoempirista. Non casualmente l’introduzione è dedicata alle differenze tra scienza e senso comune.
Nel precedente capitolo sono state illustrate, tra altri argomenti, le innovazioni metodologiche attraverso cui, nel prender forma all’alba dell’età moderna, e quindi nel corso della sua evoluzione, la scienza si è progressivamente allontanata dal senso comune. Ma non tutti gli epistemologi e filosofi ritengono giustificato contrapporre la scienza e il senso comune. Per esempio, il biologo Thomas Huxley e il matematico-filosofo Alfred N. Whitehead hanno insistito che la scienza non è che un affinamento del pensiero di senso comune. L’argomento piú citato da chi vede una continuità tra scienza e senso comune è la geometria, che venne alla luce attraverso l’esperienza di calcolare per fini pratici le misure dei campi messi a coltivazione. Anche per la tradizione del pragmatismo americano, la scienza sarebbe una continuazione del senso comune. Ovvero differirebbe dal senso comune solo perché lo scienziato è piú attento e sistematico nel considerare le prove. È questa la tesi sostenuta sia da John Dewey sia da Willard Van Orman Quine. Ma è davvero cosí?
Nagel fa notare, in primo luogo, che molto raramente l’informazione acquisita nel corso dell’esperienza ordinaria implica una spiegazione del perché le cose si presentano in un dato modo. Non solo. Quando si prova a fornire una qualche spiegazione dei fenomeni osservati a partire dal senso comune, questa è quasi sempre sbagliata. L’origine della scienza ha certamente a che fare con il desiderio o bisogno o motivazione, comune a tutti gli uomini e quindi del tutto naturale, di avere un controllo sull’ambiente e quanto vi accade, in funzione delle proprie aspettative, il che implica trovare cause di ciò che ricade sotto l’esperienza dei sensi. Ma le spiegazioni che vengono proposte e accettate possono essere empiricamente controllate solo se vengono strutturate coerentemente in un sistema di concetti e principî esplicativi anch’essi controllabili e coerentemente strutturati: vale a dire che solo a certe condizioni la conoscenza prodotta è di carattere scientifico. La disponibilità o l’impegno a mettere alla prova le spiegazioni, e ad abbandonare le credenze che non superano i controlli sono qualcosa che non fa parte del senso comune. Ovvero, che non ci viene naturale.
Il senso comune non è necessariamente sbagliato e costituisce un punto di partenza per qualunque indagine empirica. Solo che il senso comune non è funzionalmente strutturato per spiegare i fatti o per estendere il campo di applicazione delle credenze pertinenti a un particolare ambito dell’esperienza. Mira al risultato immediato. E gli apparati cognitivi che lo supportano sono stati pesati, ovvero selezionati sulla base della fitness differenziale degli individui all’interno di una popolazione. Cioè per aiutare nella sopravvivenza e non per produrre conoscenza scientifica. Inoltre, il senso comune si caratterizza per l’incapacità di cogliere l’incompatibilità logica tra diversi punti di vista: le flagranti contraddizioni che caratterizzano le credenze che maturano direttamente dal senso comune, che peraltro sono del tutto compatibili con una normale, e in qualche caso persino superiore capacità individuale di relazionarsi strumentalmente al mondo circostante, sono quasi assenti nella scienza. La quale richiede una coerenza logica nell’organizzazione formale delle argomentazioni.
La scienza si distacca dal senso comune a cominciare dal linguaggio. I termini utilizzati dal linguaggio naturale sono largamente indeterminati. Sono cioè vaghi e non specifici. Nagel sottolineava che la scienza, nella ricerca di spiegazioni sistematiche, mira a ridurre l’indeterminatezza semantica del linguaggio ordinario, vincolando l’uso dei concetti a definizioni operative che ne restringono il grado di vaghezza, consentendo in tal modo di organizzare i termini del linguaggio scientifico in «sistemi di spiegazione logicamente integrati». Basti pensare al significato comune del termine «acqua» e al suo uso, nei contesti della comunicazione di carattere scientifico, come sinonimo di H2O. Si può aggiungere che la scienza spiega ciò che è esperienza comune in termini di entità e processi che non sono accessibili direttamente all’esperienza, cioè sviluppando concetti e modelli che assumono realtà e dinamiche al di fuori dell’esperienza ordinaria, ma di cui si può dimostrare l’esistenza attraverso l’efficacia predittiva o «retrodittiva» dei modelli teorici.
Gli esempi che dimostrano il carattere innaturale o controintuitivo delle spiegazioni scientifiche sono innumerevoli. Oltre alla fisica galileiana del moto e alla teoria darwiniana della selezione naturale, a cui si è fatto cenno nel precedente capitolo, si possono richiamare la teoria mendeliana dell’ereditarietà biologica e la teoria cinetica del calore.
A differenza della conoscenza di senso comune, che si preoccupa dell’impatto che certi eventi naturali o causati dall’attività umana hanno in relazione all’andamento delle vicende individuali o sociali, la scienza prescinde dall’influenza che le spiegazioni dei fenomeni possono avere rispetto ai valori e alle cose che contano per le singole persone o per la società. Questo tratto della scienza è stato spesso oggetto di critica da parte di quei filosofi che privilegiano le cosiddette dimensioni soggettive o particolari dell’esperienza, nonché di chi inquadra finalisticamente o astoricamente il problema della conoscenza, e quindi non coglie il valore aggiunto dell’indifferenza della scienza rispetto alle aspettative o agli ideali personali o sociali. In questo modo la scienza ottiene spiegazioni che hanno una portata generale, e da cui si possono ricavare, con maggiori garanzie di affidabilità e controllo, applicazioni utili per risolvere problemi concreti. Naturalmente si dovrebbe aver ben presente che non tutti i processi naturali sono governati dai medesimi meccanismi, e che per esempio i fenomeni biologici, nelle loro diverse manifestazioni che possono anche riguardare la salute individuale o condizioni di rischio sanitario generale, richiedono per essere spiegati l’uso di concetti, teorie e metodi diversi, rispetto a quelli che consentono di inquadrare scientificamente la natura inanimata.
La mancanza di un’adeguata istruzione sul modo di funzionare della scienza, sulle diverse strategie epistemologiche della ricerca e sui rapporti tra scienza di base e applicata è probabilmente all’origine dell’incapacità di comprendere la funzione essenziale della scienza di base o della ricerca fondamentale per stimolare l’innovazione. Nonché potrebbe essere all’origine delle difficoltà di capire che dietro alla scienza c’è un sistema istituzionalizzato che cerca di evitare proprio che le istanze di senso comune, le aspettative pratiche, i desideri o le ambizioni individuali e le richieste sociali, o semplicemente intuizioni non scientifiche, interferiscano con l’efficacia delle procedure scientifiche.
Voglio però ripetermi per non rischiare di essere frainteso. Dire che la scienza è controintuitiva, e che il senso comune è antiscientifico, non significa sminuire il senso comune. Anzi. Il senso comune non è qualcosa di semplice. La scienza è senz’altro molto piú semplice! Il senso comune è un complesso di regole pratiche, cablate nella fisiologia nervosa dei nostri sensi e dei collegamenti che si instaurano, senza un’appropriata e consapevole istruzione, tra le mappe sensoriali del cervello e le aree associative che organizzano funzionalmente l’esperienza attraverso una selezione, basata sul confronto dei risultati, di aspettative prodotte spontaneamente sotto forma di schemi variabili di attività nervosa. Queste regole sono utili e del tutto sufficienti per affrontare la vita di ogni giorno, e la maggior parte delle intuizioni che consentono di condurre la nostra vita personale e i rapporti sociali affondano le radici nella storia evolutiva della nostra specie.
Per capire l’importanza di non sottovalutare il senso comune, cioè i procedimenti decisionali intuitivi, ci si può richiamare al confronto tra Gerd Gigerenzer e la scuola degli psicologi cognitivisti di Daniel Kahneman e Amos Tversky. Gigerenzer ha dimostrato che il concetto di «razionalità limitata» non deve essere inteso come un difetto dei nostri apparati cognitivi, rispetto a uno standard di razionalità dato. Lo standard di razionalità ideale, si tratti delle leggi della logica o dei principî della probabilità, non è qualcosa di dato naturalmente, e quindi è improprio per un uso di carattere normativo. È piuttosto il contesto ecologico che definisce le condizioni che selezionano le strategie sulla base di un principio di migliore o adeguata funzionalità a basso costo. La scoperta, merito indiscusso di Kahneman e Tversky, dei bias psicologici e cognitivi che caratterizzano il nostro ragionamento e che ci farebbero sbagliare sistematicamente, dovrebbe essere interpretata come un’ulteriore dimostrazione che i criteri e i metodi che fanno funzionare la scienza sono del tutto artificiali.
Il senso comune non è scientifico perché i nostri cervelli, e quindi i nostri comportamenti, si sono selezionati evolutivamente per affrontare il mondo immediatamente intorno a noi. Cioè per rispondere agli stimoli che vengono da quella che Richard Dawkins chiama la «terra di mezzo», tra i micro- e macro-fenomeni, entrambi inaccessibili ai nostri sensi. Se qualcosa rientra nelle conoscenze di senso comune, quasi certamente non è scienza. Anche se si tratta, per dirlo con le parole degli epistemologi evoluzionisti, di una conoscenza appresa induttivamente dalla nostra specie attraverso l’azione della selezione naturale, e immagazzinata come informazione genetica ed epigenetica nel nostro Dna. I nostri antenati non sarebbero verosimilmente sopravvissuti se avessero utilizzato approcci scientifici per valutare i rischi di esser predati o decidere le strategie di caccia o migrazione. Va da sé che noi discendiamo da coloro che sopravvissero. Pensare in modo scientifico richiede l’apprendimento di procedure cognitive particolari che non si manifestano spontaneamente negli individui. Non solo, ma per gran parte dell’evoluzione culturale umana la scienza non è stata necessaria, dato che la tecnologia svolgeva piú che egregiamente la funzione di motore del cambiamento in un contesto di aspettative limitate.

2. Le origini evolutive della cognizione scientifica.

Il pensiero scientifico è tuttavia possibile. Perché e come è stato inventato? Quali sono gli elementi delle capacità cognitive di senso comune che hanno consentito lo sviluppo di strategie euristiche affrancate dai condizionamenti ecologicamente vincolati? Quali sono le origini evolutive di queste facoltà?
L’evoluzione non ha prodotto il cervello umano per metterlo in grado di produrre la scienza. Nondimeno, i processi della selezione naturale sono riusciti ad assemblare un sofisticato sistema nervoso centrale che serve a organizzare e interpretare i dati sensoriali. Si tratta di un complesso sistema in grado di elaborare gli stimoli e costruire attivamente rappresentazioni funzionali dell’ambiente. Una volta che certe parti del cervello si sono evolute, in particolar modo la corteccia, i lobi frontali e le aree del linguaggio, la nostra specie ha iniziato un percorso verso la costruzione di procedure arcaiche e implicite di organizzazione dell’esperienza sensoriale. A un certo punto le procedure hanno cominciato a diventare piú sistematiche, quantitative, esplicite e metacognitive. Come la religione, l’arte e la musica, anche la scienza ha sfruttato predisposizioni fisiologiche evolutesi per scopi di sopravvivenza piú immediati. Diversamente dalla religione, e come l’arte e la musica, la scienza ha richiesto ed esige, però, condizioni particolari perché i talenti individuali possano manifestare le loro originali potenzialità. Lascio qui da parte la questione se si tratti di un esempio di quella che Steven Jay Gould ha chiamato exaptation, ovvero un sottoprodotto fortunato di capacità cognitive che servivano ad altro, o che in origine erano addirittura del tutto inutili. Il termine exaptation rimane abbastanza carico di ambiguità e viene usato piuttosto disinvoltamente per depotenziare il ruolo causale dei processi selettivi. Si può però essere d’accordo con Darwin, quando nell’Origine dell’uomo scriveva che «i poteri intellettuali superiori dell’uomo, come il raziocinio, l’astrazione, l’autocoscienza, ecc. probabilmente seguono dal miglioramento continuato e dall’esercizio di altre facoltà mentali» (corsivo mio). Ma quali?
Per fare scienza servono diverse capacità e predisposizioni. Non solo perizia nell’osservare i fenomeni e riconoscere strutture. Ma anche la motivazione a elaborare ipotesi e a controllarle imparzialmente. Serve un linguaggio appropriato che consenta di manipolare semanticamente i riferimenti empirici, la matematica, delle unità precise di misura, per cui anche tecnologie per misurare queste unità. Non ultima, serve una conoscenza esplicita di quanto è già stato scoperto in precedenza.
La ricerca psicologica, supportata da dati comparativi, neurobiologici, antropologici, genetici e archeologici tende a identificare, all’interno dell’architettura delle funzioni mentali, una serie di domini cognitivi, che emergono come conseguenza dell’organizzazione dinamica delle attività naturali e che utilizzano specifiche procedure euristiche. Per «dominio», nell’ambito delle scienze psicologiche, si intende un dato insieme di principî, di regole per la loro applicazione e di corrispondenze funzionali. Dal punto di vista della psicologia evoluzionistica i domini sono moduli, cioè unità di calcolo piú o meno anatomicamente localizzate ed ereditariamente programmate per elaborare input specifici (es. percezioni). Essi consentono di produrre categorizzazioni fisiche, psicologiche, matematiche, biologiche, artistiche, musicali, cinestetiche, economiche, ecc. dell’esperienza. I domini giudicati fondamentali per la conoscenza scientifica sono quelli della psicologia, della fisica, della matematica e della biologia.
La capacità di riconoscere e inferire il proprio stato mentale ed emotivo, cosí come quello degli altri, inquadra il dominio delle categorizzazioni psicologiche, e consente di apprezzare quando e quanto le credenze ed emozioni altrui differiscono dalle nostre. Diversi primati manifestano alcune di queste capacità e le sanno manipolare. Per esempio possono ingannare intenzionalmente. Ma non è stato dimostrato che, come l’uomo, possano anche credere qualcosa di non vero, e attribuire questa capacità a dei conspecifici. Vale a dire che finora nessun animale ha superato il cosiddetto test della falsa credenza. Orbene, tutte le culture umane hanno la stessa psicologia implicita, almeno sul piano emozionale, e questo fatto è ben dimostrato dagli studi sul riconoscimento facciale. Inoltre, la capacità di attribuire false credenze emerge alla stessa età in tutte le culture. Si è altresí osservato che nelle diverse culture sono presenti gli stessi talenti e le stesse dotazioni sul piano delle capacità psicologiche. Distribuite però, ma questo è ovvio, in modo individualmente variabile.
La categorizzazione fisico-spaziale degli oggetti è la capacità di risolvere problemi legati all’uso di strumenti, alla manipolazione fisica e mentale di oggetti inanimati e a una comprensione implicita della fisica (cioè dei fenomeni che hanno a che fare con la dinamica del moto). La fisica implicita è quella utilizzata per costruire gli strumenti di pietra, la cui evoluzione testimonia lo sviluppo del pensiero causale e della rappresentazione degli oggetti in un spazio tridimensionale. I primi manufatti davvero innovativi comparvero con Homo habilis (2-2,5 milioni di anni fa) e caratterizzarono la cosiddetta industria olduvaiana. Si trattava di ciottoli scheggiati da un lato, o da entrambi. Dovette trascorrere un milione di anni perché Homo erectus si scoprisse dotato della capacità di costruire bifacciali e punte di freccia, e fosse in grado di creare l’industria litica acheuleana. Dato che la ricerca psicologica consente di riconoscere le predisposizioni come prevalenza di domini funzionali rispetto ad altri, si è visto che gli scienziati che manifestano doti spiccate nel dominio della fisica sono frequentemente piú interessati agli oggetti inanimati che alle persone.
Per quanto riguarda la categorizzazione biologica, questa è la capacità innata di distinguere tra cose animate e inanimate, ovvero di risolvere problemi relativi a capire come usare le risorse ambientali, o come conoscere gli animali e il loro comportamento. I primati sono in grado di categorizzare ciò che è commestibile in rapporto a ciò che non lo è, e anche gli organismi pericolosi o le potenziali prede, da quelli indifferenti. Probabilmente questa è l’origine della funzionalità adattativa della classificazione, dalle prime tassonomie intuitive e funzionali alla sopravvivenza, alla classificazione semiscientifica di Aristotele, fino alla moderna storia naturale che basa la classificazione sull’ipotesi di un ordine naturale e di relazioni genealogico-evolutive. Non casualmente, il talento che prelude a una carriera come biologo include un interesse per la classificazione in generale, come per esempio una precoce passione per il collezionismo.
La categorizzazione matematica si basa sulla capacità implicita di distinguere numeri di cose, e di ordinare o comparare oggetti in serie. Anche questa capacità è universale. È, invece, culturalmente condizionato l’uso esplicito di operazioni numeriche e la rappresentazione verbale di numeri. Il neurobiologo francese Stanislas Dehaene ha dimostrato in modo del tutto convincente che il «senso del numero» è parte integrante del bagaglio cognitivo di Homo sapiens, che si manifesta sin dalla prima infanzia e dipende da un substrato cerebrale ben caratterizzato a livello della circuiteria parietale bilaterale.
Gli studi di neuroanatomia e neuropsicologia comparate, l’indagine archeologica e antropologica hanno consentito di elaborare alcune ipotesi sull’evoluzione delle capacità cognitive o mentali umane. Verosimilmente, l’acquisizione delle capacità cognitive dell’uomo moderno è passata attraverso tre fasi: a una fase caratterizzata da un pensiero pre-rappresentazionale, seguirono la fase rappresentazionale e quella metarappresentazionale.
Tra 5 e 1,6 milioni di anni fa circa, la conoscenza comportamentale era in gran parte conoscenza implicita o pre-rappresentazionale, del tipo di quella tipica di un’animale che non ha consapevolezza di quello che fa, benché agisca come se sapesse cosa sta facendo. Si tratta di uno stadio che precede anche l’intuizione, in cui si rispecchia un principio già piú avanzato, del tipo «so cosa sto facendo, ma non so come lo so». Questi stadi conoscitivi evidenziano lo stretto rapporto fra gli schemi comportamentali appresi e il mondo immediatamente percepibile e direttamente «sentito».
La fase del pensiero rappresentazionale caratterizzò il livello cognitivo raggiunto dagli ominidi che precedettero la nostra specie. Tra 1,8 milioni di anni fa e 50-30 000 anni fa circa, il sistema nervoso si è ampliato e ristrutturato e sono emersi domini cognitivi che hanno reso possibile costruire rappresentazioni mentali. In questo periodo la tecnologia litica diventava sempre piú complessa. Le lavorazioni musteriane e levalloisiane richiedevano una sofisticatissima conoscenza sulla meccanica dello scheggiamento delle pietre. Oggi pochissimi uomini al mondo sanno riprodurre quegli utensili. In particolare, i bifacciali e le punte di freccia. In questo periodo si sviluppò la capacità di rappresentarsi visualmente, prima che verbalmente, l’idea di un oggetto senza che questo fosse direttamente accessibile ai sensi. Espressioni gestuali e non verbali furono inizialmente usate per comunicare questi pensieri di prim’ordine. Espliciti e consapevoli, benché ancora collegati a idee concrete.
La...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. Ringraziamenti
  5. Scienza, quindi democrazia
  6. I. Un incubo italiano
  7. II. Epistemologia scientifica e democrazia
  8. III. La scienza e i valori civici moderni
  9. IV. L’evoluzione di una conoscenza contro natura
  10. V. Scienza, libertà e benessere
  11. Nota bibliografica
  12. Il libro
  13. L’autore
  14. Copyright