Che hai fatto in tutti questi anni
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Sergio Leone e l'avventura di «C'era una volta in America»

  1. 256 pagine
  2. Italian
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Sergio Leone e l'avventura di «C'era una volta in America»

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C'è un'avventura dentro l'avventura, una storia dentro la storia in C'era una volta in America: dal momento in cui è stato pensato per la prima volta a quello in cui è stato presentato a Cannes, evento speciale al Festival, passano diciotto anni. Diciotto anni durante i quali avviene di tutto. Ma dopo mezz'ora di film, la magia è svelata: altro che gangster movie, C'era una volta in America è un'opera-mondo, un'epica moderna, o postmoderna, l'unica possibile. «Nasco con il neorealismo, - diceva Sergio Leone, - ma ho sempre pensato che il cinema è avventura, mito, e che l'avventura e il mito possono raccontare i piccoli fantasmi che ognuno di noi ha dentro». Sono i fantasmi dell'amore non corrisposto che diventa volontà di potenza, della violenza, dell'amicizia, del tradimento, della vendetta, del desiderio e del suo lato oscuro, la delusione o - peggio ancora - la sua completa soddisfazione. I fantasmi di chi ha sognato il Sogno americano. Di piccoli fantasmi in C'era una volta in America ce ne sono tanti, e lo sa bene Piero Negri Scaglione che quando lo vide per la prima volta, nel 1984, non aveva nemmeno vent'anni e gli sembrò che quel film ambientato in un tempo e uno spazio lontani raccontasse meglio di mille altri una generazione, un'epoca, forse un'ossessione. Ossessione-passione che divenne la sua: per anni Negri Scaglione ha indagato le vicende che portarono alla realizzazione del film, è andato a cercare e intervistare i protagonisti di quella storia o anche chi l'ha soltanto sfiorata in un piccolo ruolo, i produttori, gli sceneggiatori, gli attori. Ne viene fuori il ritratto epico di un personaggio larger than li fe, e di un film che, dettaglio dopo dettaglio, aneddoto dopo aneddoto, diventa spaccato di un'epoca e di un Paese, il nostro.«Dico a tutti che si tratta del mio film migliore, probabilmente è cosí e di sicuro lo penso davvero, ma quel che voglio precisamente dire è che C'era una volta in America sono io».
Sergio Leone

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858437261

SESTO TEMPO

1981-1983

Volevo vedere cosa vedeva mio padre

La storia di Steve Della Casa
Steve pensa che sia nato tutto da un equivoco. «Un po’ prima del Natale 1983, sarà stato a novembre, chiamo Sergio Leone per invitarlo a tenere un seminario al Movie Club, a Torino. “Vieni domani a cena in via Birmania”, mi dice. Penso: “Che strano”. Mi accoglie in caftano, mangiamo bene. Parliamo a lungo e al momento di andare via: “Salutami tanto tuo padre”. “Lo conosci?” chiedo. “Benissimo, da molto tempo, pensa che l’ho visto stamattina”. Credeva fossi figlio di Gianluigi Della Casa, allora dirigente della Titanus. “No, mio padre fa tutt’altro”, gli dico, “è un glottologo. Si chiama Carlo Della Casa”».
Lui si chiama Stefano, ma tutti da sempre lo chiamano Steve.
Si rivedono a gennaio, a Cinecittà, e vanno a pranzo nel ristorante lí di fronte, La Cascina. «C’era anche Nino Baragli, il montatore. Stavano finendo C’era una volta in America, avevano problemi con gli americani: non capivano il montaggio, volevano rimettere la storia in ordine cronologico. Baragli era preoccupato, Leone piú sereno: “Aggiusto anche questa, farò come ho sempre fatto, gli americani mi rompono le scatole dai tempi del Colosso di Rodi. Credevano che il Colosso fosse il protagonista, non una statua”. Il senso era: li ho sempre intortati, ce la farò anche questa volta. Era gennaio del 1984, ci accordiamo per fare il seminario a marzo, tre giorni a Torino. Al Movie Club avevamo già avuto Jacques Demy, Nanni Moretti, Enno Patalas direttore della filmoteca di Monaco. È tutto autofinanziato, lo ospitiamo al Sitea, un hotel del centro, per noi è uno sforzo notevole ma anche un bel colpo».
Nell’hotel in cui alloggia Leone, in quegli stessi giorni c’è la troupe di Aeroporto internazionale, una serie della Rai che si gira a Torino, con Dalila Di Lazzaro e Gianni Garko. «Li vediamo diverse volte, a pranzo e cena. È un po’ come avere Cinecittà a casa nostra. Garko avrebbe dovuto fare Per un pugno di dollari e ha detto di no: almeno cosí sostiene Leone, Garko dice invece che è lui, Leone, che l’ha scartato. Dice anche di essere comunista e che per questo non gli è facile lavorare. Leone se la ride: “Che cazzo dici!” Si comporta come un patriarca, siede sempre a capotavola, a volte c’è anche Gianni Rondolino, il professore di quasi tutti noi». Rondolino in quei giorni sulla «Stampa» definisce «di valore a volte modesto» i film di Leone. «Sí, però poi a Cannes si alzerà all’alba per andare a vedere C’era una volta in America. Comunque, al Movie Club, al mattino e nel primo pomeriggio Leone incontra studenti o giovani appassionati. Con Baragli proietta sequenze dei suoi film e le commenta: scene classiche, il triello, il carillon del Dollaro in piú, l’inizio di C’era una volta il West. La sera dice due parole, poi parte il film e si va a cena. Il primo giorno, appena arriva, andiamo con Leone al ristorante Vittoria, in via Carlo Alberto. Lui mangia tanto e di gusto, si fa una patacca sulla camicia con le tagliatelle ai funghi, alla fine del pasto tira fuori dalla tasca dei pantaloni un foglietto tutto stropicciato e dice: “Prima di fare qualsiasi cosa, voglio andare qui”. Sul foglietto ci sono cinque o sei indirizzi sparsi per tutta Torino».
Steve non ha la macchina e chiede aiuto a Mimmo Calopresti, uno di quei giovani appassionati che avrebbero frequentato il seminario di Leone, futuro regista. «Mimmo arriva subito, ma quando siamo in macchina mi dice sottovoce: “Ho poca benzina e non ho soldi”. Preoccupatissimi, scegliamo di fingere che sia tutto ok. Ma da un momento all’altro ci aspettiamo che la macchina si fermi e ci faccia fare una figuraccia epocale. Andiamo in una parallela di via Nizza dove oggi c’è un autotrasportatore, poi ai gasometri di corso Regina, in via Luisa del Carretto, a Lucento, vicino alla chiesa, sulla strada che va allo stadio della Juventus, forse in via Pianezza. In tutti i posti Leone ci fa fermare l’auto, dà un’occhiata e poi ci fa ripartire. E noi sempre piú terrorizzati per la benzina che sta per finire. A un certo punto, quando il giro è quasi alla fine, ritrovo la lucidità per chiedergli che cosa sta cercando, che senso ha il giro che stiamo facendo. Mi risponde che questi sono i posti in cui aveva lavorato suo padre. L’Itala Film, lo stabilimento in cui girarono Cabiria, l’Aquila Film. “L’avessi saputo, te l’avrei detto che a Torino non c’è praticamente piú traccia del cinema di quell’epoca”. “Non importa”, mi risponde lui, “volevo vedere cosa vedeva mio padre”».
Nel dicembre 2019, quando Danny Aiello morí a 86 anni, Robert De Niro diffuse un saluto, sobrio e conciso come sempre: «La notizia della morte di Danny mi rende molto triste. Lo conoscevo da quasi cinquant’anni. Sono triste. Ci vediamo in paradiso, Danny».
Aiello fu segnalato a Leone da De Niro per la parte del poliziotto italoamericano ostile ai sindacati, poi neutralizzato dalla gang di Noodles con il rimescolamento dei neonati nella nursery. Il nome del personaggio, Chief Aiello, fu un’idea sua. Leone lo invitò alla prima, a Cannes, e lui ne fu sorpreso: «Era una piccola parte, ma valse la pena solo per lavorare con Sergio», diceva. A Cannes Leone gli disse che nel suo prossimo film ci sarebbe stata una parte anche per lui. «È in quell’occasione che Bobby [De Niro] mi disse per la prima volta: nessuno dice fuck come lo dici tu. Quando esce dalle tue labbra, quella parola sembra una canzone», scriverà Aiello nella sua autobiografia.
«Sí, sono stato coinvolto nel casting, ma non troppo, – mi ha detto De Niro. – Avevo le mie idee, naturalmente, e se mi chiedevano cosa ne pensavo, lo dicevo. Danny, Joe, Jimmy Woods, il ragazzo con i capelli rossi… Un po’ tutti. Mi chiedevano un’opinione, e io dicevo: ok». E John Belushi? Si dice che l’avrebbe voluto come Fat Moe. La sua risposta è davvero strana: «Non l’ho mai sentito dire, ma avrebbe potuto essere. Non ricordo di averlo sentito, no. Però avrebbe potuto…» Si dice anche che non condividesse la scelta di Elizabeth McGovern, come Deborah. «È vero, di lei non ero convinto al cento per cento, ma alla fine si è rivelata bravissima, aveva ragione Sergio. Le mie ragioni erano quello che erano e nel grande schema delle cose, era giusto cosí. Avevo delle riserve, ma non importa, era il film di Sergio, doveva fare ciò che lo faceva sentire bene, a posto, le mie riserve non erano cosí forti. Se proprio non mi fosse piaciuta, avrei fatto piú casino, e poi è stata brava, Elizabeth».
Il casting è gigantesco, proporzionato alle ambizioni di Leone: a New York, anche nella casa sulla 48a, e un po’ anche a Los Angeles vede centinaia di attori. Ci lavorano Cis Corman, che era stata responsabile del casting di Toro scatenato e Re per una notte, Mary Goldberg e Joy Todd, veterane del mestiere. Il 21 luglio 1981 Goldberg manda una nota a Leone e a De Niro sulla quale segnala alcuni attori e attrici con un pallino rosso. Sono Kristian Alfonso, Janice Dailey, Laura Harrington, Craig Wasson, David Morse, Val Kilmer, Anne Kerry, John Dossett, Caris Corfman, Tony Spinelli, Frank Dzurenko. Il giorno dopo tocca a Mandy Patinkin, Tom Berenger, Caitlin Clarke, James Russo, Rachel Ticotin, Cheryl Paris, Brad Davis.
Il 31 luglio un altro biglietto, Suggestions to Sergio, con i nomi di Amy Wright, Alan Rosenberg, Timothy Hutton, Roy Brocksmith, Burt Young, Robert Mitchum, Robert Duvall, Walter Matthau, James Coco, Joseph Bottoms, Deborah Raffin, Ray Sharkey, Jane Seymour, Anne Archer, Blanche Baker, Kathleen Quinlan, Ned Beatty, Barry Greenberg, Donna Pescow, Debra Winger, Mickey Rourke, Peter Riegert, Steve DeFrance, Daryl Hannah, James Caan, Tim Matheson, Martin Hewitt, Cathy Moriarty, Peter Weller, Treat Williams. Resiste ancora l’idea che Noodles, Max e Carol anziani possano essere interpretati da attori diversi da quelli della giovinezza. E si pensa naturalmente ai grandi, a gente tipo Mitchum e Matthau.
Sei o sette mesi dopo, intorno alla metà di febbraio, Joy Todd fissa gli appuntamenti per Leone a Los Angeles. Il 16 il regista vede Helen Hunt e Peter Coyote. Il giorno dopo Michael Paré, Patrick Swayze, Colette Bertrand («French accent», annota Todd) e Rachel Ward. Il 18 Sean Penn e Steve Guttenberg. Ancora qualche settimana e i giochi sono fatti. Cis Corman manda una busta con le informazioni sul cast a Robert De Niro e un libretto che tiene insieme le foto di tutti gli attori prescelti. Sono quelli che vedremo sullo schermo, con poche eccezioni. Una di queste riguarda Al Waxman, che dovrebbe interpretare il poliziotto Whitey, ma ha problemi di date, le riprese rischiano di sovrapporsi con quelle della serie tv Cagney & Lacey, in Italia New York, New York, di cui è protagonista maschile. Verrà sostituito da Richard Foronjy, attore fino a quel momento molto attivo in televisione. Soprattutto, non si è ancora deciso chi sarà Eve e chi Carol.
Per Eve, la donna di Noodles, sono in lizza l’ex modella Darlanne Fluegel; Theresa Russell, anche lei ex modella; Susi Gilder e Sean Young, che ha appena girato il film che le darà un posto nella storia del cinema, ovvero Blade Runner (ma lei nega di essere mai stata in corsa per il film di Leone, e quando la contatto io, nel 2020, non ha ricordi a riguardo). In Italia, per quella parte si era pensato anche a Romina Power, la bella figlia di Tyrone Power e Linda Christian. Il provino era stato buono, ma poi lei si era presentata al successivo incontro accompagnata dal marito, il cantante pop Al Bano, e si era bruciata ogni chance. Per il ruolo di Carol, si sceglierà tra Theresa Russell e Tuesday Weld, l’ex divetta degli anni Sessanta che ha recitato con Hitchcock, ha avuto una storia con Elvis Presley e una nomination all’Oscar come non protagonista per In cerca di Mr Goodbar.
Darlanne Fluegel va all’audizione vestita in stile anni Trenta, con i seni finti come la Eve di Mano armata, e convince tutti. È bella, bionda, determinata e ha letto il libro di Harry Grey. Ha deciso da poco di lasciare moda e servizi fotografici e ha preso lezioni da Stella Adler perché, dice, «a 25 anni una modella è finita». Farà diversi film importanti, lavorerà in tv, poi insegnerà recitazione alla University of Central Florida, dove la contatterò io, ottenendo una risposta piena di entusiasmo: «Sono felice di parlare con te di Once Upon a Time in America. Scrivimi quando sei pronto». Poi sparisce e solo molti anni dopo capirò perché: nel 2009, a 56 anni, le viene diagnosticata una forma precoce di morbo di Alzheimer. Morirà nel 2017.
Per la torbida e seducente Carol (che in tarda età diventerà quasi saggia, o almeno indicherà a Noodles la retta via) viene scelta Theresa Russell, già al fianco di De Niro negli Ultimi fuochi, l’ultimo film di Elia Kazan, tratto da Fitzgerald. Chi ha visto il suo provino ne ricorda la bellezza travolgente. Lei e Darlanne partecipano alla preproduzione, ma poi Russell se ne va perché non ottiene il «top billing», il nome in cima ai manifesti e nei titoli di testa. Al posto suo viene dunque chiamata Tuesday Weld, che a Leone è stata presentata da De Niro, di cui è grande amica. Il suo arrivo viene annunciato insieme a quello di Louise Fletcher quando le riprese a Roma sono già iniziate.
Fletcher sarà la misteriosa donna del cimitero, quella che fa uscire Noodles dalla tomba di lusso dei suoi tre amici, un’altra donna che spinge Noodles sulla strada giusta. Ha vinto un Oscar con Qualcuno volò sul nido del cuculo, ma non le dispiacciono le parti piccole: «Questa, piú che una parte, è un cameo, – dice nelle interviste. – Ma a me non importa, se mi piace il progetto. E poi ci tengo troppo a lavorare con De Niro».
Quando arriva la chiamata di Leone, Claudio Mancini non ci pensa due volte. Dice subito sí e parte per l’avventura di C’era una volta in America. «L’ho detto alla persona che frequentavo in quel periodo: per un anno e mezzo non ci vedremo, devo lasciare tutto e andare a fare l’ultimo grande film italiano». Mancini lavora sul campo e sui set come organizzatore o produttore esecutivo da piú di trent’anni, nel cinema italiano è una specie di leggenda, è rispettato e anche un po’ temuto. Ha contribuito al successo di molte imprese difficili, alcune disperate, altre folli, due con Leone: dice che nel cuore ha soprattutto C’era una volta il West e Giú la testa, «film che sentivo, con quelle storie entravamo non solo nei sogni di Leone, ma anche nei miei, di ragazzo. Noi abbiamo sognato il West, mica i banditi, i mafiosi ebrei. I gangster ebrei chi li conosceva, nessuno li ha mai raccontati. Eravamo abituati a vedere gli italiani con il pancione e i capelli impomatati e gli irlandesi con il collo grosso e la testa rasata».
Ci rimane un po’ male, perché questa volta evidentemente Leone non ha pensato subito a lui, l’ha chiamato quasi all’ultimo momento. Però parte, senza esitazioni: «Quando ho accettato, ho detto che nove settimane dopo avremmo dovuto stare sul set a girare. Semplicemente perché avremmo dovuto sfruttare l’indian summer a New York e poi andarcene via. Infatti il giorno dopo che siamo partiti da là ha nevicato. Non m’ero sbagliato. Abbiamo corso tanto, continuamente, ma ero tranquillo perché sapevo che Leone si sentiva tranquillo con me».
Ad aprile 1981 Mancini vola a New York e in aereo legge il copione. Dall’aeroporto va direttamente nella casa sulla 48a. «La prima cosa che ho fatto è dire a Sergio che doveva tagliare tutta la sequenza dell’aereo, Noodles, Max e gli altri che volano da New York a Chicago e fanno baldoria con le hostess. Non era credibile, i mafiosi non si comportano in quel modo, e poi cosí abbiamo risparmiato diverse centinaia di migliaia di dollari. Poi gli ho spiegato che la scena al passaggio a livello non si poteva fare, con le auto degli anni Trenta trasportate dal treno che diventano poco alla volta degli anni Sessanta, mentre cresce la città sullo sfondo. Non avevamo mica i computer, allora. Infine, ho dovuto fare da paciere tra Leone e De Niro, che non era soddisfatto del casting, Sergio aveva scelto di testa sua senza ascoltare troppo i consigli di Bobby. Forse a James Woods preferiva William Hurt, che era stato in corsa fino all’ultimo. O non voleva Elizabeth McGovern, chissà. Gli ho detto: il regista è il regista, decide lui. E lui: va bene, ma allora io non vado al segno e non mi doppio. Sul segno aveva ragione, in America la macchina da presa segue l’attore, non viceversa, sul doppiaggio ha cambiato idea. “One with music” diceva poi, perché recitare sulla musica di Ennio Morricone piaceva pure a lui».
Claudio Mancini segna la svolta. Mette in moto la macchina. «Ero a New York con Raffaella, la figlia di Sergio che era la mia assistente, – mi ha raccontato nel 2011 la costumista Gabriella Pescucci, al primo film con Leone, – c’erano gli sceneggiatori, si pensava al lavoro, ma in un’atmosfera sospesa, quasi di vacanza. Poi arriva Mancini. Lo vedo e dico a Raffaella: si parte. Infatti lui fa firmare i contratti a tutti e noi iniziamo a lavorare come dei matti». Mancini è produttore esecutivo per Leone, line-producer per Milchan, gli garantisce che tempi e soprattutto budget non verranno sforati. Un doppio ruolo insolito, ancora di piú perché affidato a un italiano e non a un americano: «Ma lui è un italiano speciale», dirà poi Leone quando gliene chiederanno conto. A Roma circola una battuta sul rapporto fra i due: Leone fa un film su Garibaldi e per girare lo sbarco dei Mille chiede a Mancini duemila comparse. Mancini gliene dà cinquecento, ma grasse, che sembrano di piú.
Mancini capisce subito che la sceneggiatura è troppo lunga per stare dentro a tempi e costi. Le settimane di riprese previste sono ventisette, lui propone a Milchan di aggiungerne alcune (saranno trentatre) e di tenere sotto controllo le spese lavorando il piú possibile in Italia. Ma sarà necessario tagliare ancora il copione, se ci si vorrà avvicinare alle due ore e mezzo di durata promesse da Leone ai distributori americani della Ladd Company.
E allora si taglia. Scompare la scena della sauna, anzi, le scene, quella nel 1968 in cui Noodles riceve ulteriori indizi per la sua ricerca e il flashback della giovinezza, quando nello stesso bagno turco Max gli aveva salvato la vita. Scompare anche la famiglia di Noodles, padre, madre e fratello non si vedranno mai. Quando torna a casa, il futuro gangster va nel bagno comune, dove tiene nascosta una copia di Martin Eden (prima era Il Conte di Montecristo, l’accento non è piú sulla vendetta ma sui sogni di grandezza di un ragazzo povero). Si taglia anche la scena della retata con cui la polizia arresta la banda di Bugsy, che Noodles, Max e gli altri si godono da un tetto vicino. La parte riguardante il sindacato, lo sciopero e l’ascesa del sindacalista O’Donnell viene ridotta notevolmente, e cosí pure quella che riguarda lo scambio dei bambini in culla, che è il modo con cui si ricatta il poliziotto Aiello. Si accorcia un film che anche i piú ottimisti considerano fuori misura e si risparmia notevolmente su scene e riprese: niente piú aereo da noleggiare, niente piú poveri appartamenti di Max e Noodles giovani da costruire a Brooklyn sopraelevando di un piano un edificio esistente, niente piú bagno turco, niente piú ricostruzione della Chinatown anni Trenta nella Chinatown contemporanea. Di questa ambientazione rimarranno solo i disegni bellissimi ai quali Carlo Simi ha lavorato sul tecnigrafo del suo studio.
Soprattutto, si smonta la parte iniziale del film, quella che riprendeva il finale del libro. Non vedremo piú Noodles alle prese con i tre sicari della Combinazione, immobilizzato e cosparso di benzina, minacciato da un fiammifero nelle mani di un mafioso italoamericano. Non vedremo il trucco con cui si salva, per farsi accompagnare da Fat Moe e consegnare il milione di dollari che gli ha fatto credere di avere lí. Non vedremo Fat Moe servire ai tre il whisky drogato che li indebolisce e permette a Noodles di ucciderli. Li vedremo direttamente nel locale, ammazzati da Noodles in un agguato, e soprattutto vedremo morire Eve, la donna di Noodles, per mano dei tre killer.
È questo il cambiamento piú significativo, il piú importante anche perché avviene all’ultimo momento e addirittura oltre, quando De Niro ha già ricevuto un...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Che hai fatto in tutti questi anni
  4. PRIMO TEMPO. 1966-1971
  5. SECONDO TEMPO. 1971-1975
  6. TERZO TEMPO. 1975-1976
  7. QUARTO TEMPO. 1975-1977
  8. QUINTO TEMPO. 1979-1982
  9. SESTO TEMPO. 1981-1983
  10. SETTIMO TEMPO. 1983-2012
  11. EPILOGO
  12. La Gioconda nella fumeria d’oppio. (da dove viene questo libro)
  13. Un attimo prima dell’azione. (da dove vengono le fotografie di questo libro)
  14. Il libro
  15. L’autore
  16. Dello stesso autore
  17. Copyright