Momenti sospesi
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Momenti sospesi

Due meditazioni

  1. 20 pagine
  2. Italian
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Momenti sospesi

Due meditazioni

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I «momenti sospesi» sono quegli istanti in cui le conseguenze non sono ancora scritte, e si trattiene il fiato in attesa di un cambiamento. Sono attimi che possono durare mesi, come quelli che abbiamo vissuto durante l'emergenza per la pandemia, o una vita intera, come per chi si ritrova ad abitare una terra da ospite, confinato sulla soglia. Hisham Matar evoca questi peculiari momenti di passaggio attraverso le mani di due bambine tese verso una farfalla, in un dipinto mai guardato con la giusta concentrazione, nell'incontro in sogno con un antico maestro. E ci mostra come in un tempo congelato possano convivere i dubbi più neri e gli auspici più luminosi.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858436783

Gli ospiti

Non saprei dire perché alcuni sogni svaniscono dalla memoria mentre altri restano, e restano non solo nitidamente ma sono poi riportati alla mente da certi indefinibili avvenimenti nelle ore di veglia. Dieci anni fa feci uno di questi sogni. Edward Said era seduto per terra, sul tappeto azzurro che ricordo cosí bene, nella nostra vecchia sala da pranzo. Era notte. Appoggiava la schiena alla credenza che conteneva i piatti, i bicchieri e le tazze da caffè, ma che invece nel sogno era piena di libri. Said aveva circa trentacinque anni, piú o meno la mia età all’epoca del sogno. La pila di libri sul pavimento accanto a lui gli arrivava al petto. Aveva un volume aperto in grembo. Non avevo idea di cosa fosse. Non riconoscevo nessuno dei libri nella pila, ma nel sogno non sembravano essere suoi. Sembravano invece decisamente miei. E non sembrava sua nemmeno l’espressione del viso, grata per quei libri, per il loro peso e il piacere che gli procuravano, e al tempo stesso scoraggiata.
La sala da pranzo era quella del nostro appartamento al Cairo, dove la mia famiglia aveva cercato rifugio dalla dittatura nel nostro paese, la Libia. La nostra situazione non era certo insolita: il Cairo, come Londra, era una città dove molti arabi andavano in esilio. Trent’anni prima, anche la famiglia di Edward Said si era stabilita nella capitale egiziana. Nel 1948 lui e i suoi familiari erano stati espulsi da Gerusalemme, la città dove Said era nato e aveva trascorso la prima giovinezza, ed erano diventati dei rifugiati. Per la mia famiglia quel temporaneo esilio si sarebbe prolungato fino a coprire l’arco di una vita, ma in quei giorni al Cairo, e per molto tempo ancora, continuammo a nutrire la realistica speranza di tornare in Libia nel giro di un anno o due e riprendere la nostra vita a Tripoli. Suppongo però che la situazione fosse diversa per la famiglia di Said. La loro era una tragedia piú grande, frutto di un’occupazione straniera che, oltre all’appropriazione delle terre e al furto delle risorse, pratiche coloniali comuni, includeva un terzo elemento, la rivendicazione teologica su quella terra. Un’occupazione che non lasciava quindi intravedere nessuna fine, e che dovette sembrare, anche al giovane Said di quegli anni, un progetto a lungo termine. Mi immagino Edward bambino che riflette, nelle ore immobili della sua solitudine, nella sua vecchia camera da letto a Gerusalemme, ora occupata da estranei, immagino le camere dei suoi genitori e delle sue sorelle, e quelle delle case vicine di parenti e amici tra i quali era cresciuto: una mappa di case rubate. Lo immagino mentre avverte, in quel modo calmo e non sollecitato in cui percepiamo alcuni atti di spoliazione, che il suo paese, e quindi anche lui, sta subendo una particolare forma di violenza, un attacco che mira alla cancellazione.
Durante i primi anni della nostra nuova vita in Egitto, la mattina presto aspettavo in strada l’autobus della scuola americana. Ogni volta che appariva, grande, giallo e sproporzionato, sembrava del tutto implausibile. La scuola si trovava nel sobborgo residenziale di Maadi. Con i suoi viali larghi, gli alti eucalipti e le ville avvolte nei giardini, era la zona dove statunitensi e britannici preferivano abitare. I miei compagni di scuola erano quasi tutti figlie e figli di diplomatici, agenti e militari statunitensi. Mostravano un singolare disinteresse per il Cairo, l’Egitto e tutto ciò che era arabo. Era come se stessero trattenendo il fiato in attesa del momento in cui sarebbero potuti tornare negli Stati Uniti. Perfino il pane dei panini che mangiavamo ogni giorno arrivava dagli Stati Uniti. Mentre la mia scuola voleva trasformarmi in uno statunitense, quella di Edward Said voleva fare di lui un gentiluomo britannico. Il Victoria College, anche questo nel quartiere di Maadi, poco distante dalla mia scuola, era stato, per dirla con Said, «creato per istruire gli arabi e i levantini che avrebbero formato la classe dirigente dopo il ritiro dei britannici». Fin dall’inizio, la vita e l’istruzione di Said lo collocarono sulla linea di faglia tra la realtà del dominio occidentale sulle terre arabe e il sogno arabo d’indipendenza e sovranità.
Dopo la scuola americana al Cairo mi trasferii nel Regno Unito per finire gli studi e iscrivermi all’università a Londra. È qui che, anni dopo, nel 2009, a distanza di qualche mese dal mio sogno su Said, ricevetti un invito a tenere una conferenza alla Columbia University, proprio il luogo in cui Edward Said, dopo aver conseguito il dottorato con una tesi su Joseph Conrad, aveva ottenuto un posto nel Dipartimento di letteratura inglese e comparata, e dove avrebbe trascorso tutta la sua carriera accademica, dal 1963 alla prematura scomparsa nel 2003. Tenni la conferenza e un anno dopo accettai un posto al Barnard College, il college femminile di arti liberali della Columbia University, dove ancora oggi insegno, trascorrendo ogni autunno a Manhattan. E cosí per me quel sogno è sia parte di una conversazione interiore, che all’epoca portavo avanti sul mio rapporto col lavoro, sia una portentosa premonizione della vita semestrale che mi aspettava nell’università di Said: una vita di letture, studio e insegnamento.
Forse non fu un caso se la mia immaginazione o il mio subconscio o qualunque cosa determini i nostri sogni scelse Edward Said come protagonista di quel sogno. In quel momento della mia vita ero in cerca di libertà. Anelavo a un senso di espansione. E per me Said rappresentava, allora come oggi, un pensatore dal repertorio insolitamente ampio. Essendo cresciuto in un’epoca di controversie, in cui la cultura da cui provenivo e quella in cui vivevo erano spesso presentate in termini di opposizione o di scontro – sentimenti che trovo privi di verità, interesse o utilità –, l’opera di Said offriva un’analisi di quel disagio oltre che un invito ad allargare il quadro. Mostrava come preoccupazioni e curiosità potessero essere dettate non da orientamenti culturali prestabiliti, ma dalle passioni e dalla compassione di un umanista. La sua intelligenza e le sue passioni mi diedero molta fiducia in me stesso. Insieme ad altri pensatori, poeti e artisti, contribuí a convincermi che l’intera storia dell’arte e delle idee mi apparteneva, re...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Quanti Einaudi
  4. Momenti sospesi
  5. Momenti sospesi
  6. Gli ospiti
  7. Gli altri Quanti. Speranze
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Dello stesso autore
  11. Copyright