La morte, e ciò che avviene dopo, mi ha sempre appassionato.
A partire da Rex, suppongo.
Rex era il mio primo ricordo. Una creatura splendida, un cane da pastore bianco e nero. Il miglior animale che ci sia. Accettava che gli tirassi le orecchie e tentassi di sedermi su di lui e tutti gli abusi di cui è capace un bambino, e nonostante questo scodinzolava sempre quando mi vedeva arrivare, accogliendomi con amore. Era una lezione sul perdono, che si è ripetuta piú volte.
Mi ha insegnato molto di piú del perdono. Mi ha dato una lezione sulla morte.
Quando avevo quasi dodici anni, Rex stava invecchiando e faceva sempre piú fatica a mantenersi al passo con le pecore. Mia madre ha proposto di mandarlo in pensione e di sostituirlo con un cane piú giovane.
Sapevo che a mio padre Rex non piaceva: a volte sospettavo che lo odiasse. O era mia madre che odiava? Lei voleva bene a Rex, piú di quanto gliene volessi io. Amava il suo affetto incondizionato e il fatto che non parlasse. Le faceva sempre compagnia, lavorava con lei tutto il giorno e lei cucinava per lui e si occupava di lui con una devozione che non aveva mai avuto per suo marito, come le rinfacciò mio padre durante una lite.
Ricordo cosa le disse quando mia madre gli propose di prendere un altro cane. Eravamo in cucina. Ero sul pavimento e stavo accarezzando Rex. Mia madre stava cucinando al fornello. Mio padre si stava versando un whisky. Non era il primo.
«Non pagherò per due cani, – disse. – Prima, semmai, ammazzo questo».
Ci misi qualche secondo a capire esattamente cosa intendesse. Mia madre scosse la testa.
«No, – disse. Per la prima volta la sentii ribellarsi seriamente. – Se tocchi quel cane, io…»
«Cosa? – ha detto mio padre. – Mi stai minacciando?»
Sapevo cosa sarebbe successo. Bisogna avere coraggio per beccarsi una pallottola al posto di un altro, ma è quello che fece mia madre quel giorno.
Mio padre, ovviamente, perse la testa. Udii uno schianto di vetri in frantumi e capii, in ritardo, che mi sarei dovuto nascondere come aveva fatto Rex, che nel frattempo si era liberato dalla mia presa ed era già quasi fuori dalla porta. Non mi restava altra scelta che restarmene seduto sul pavimento, in trappola, mentre mio padre ribaltava il tavolo, mancandomi di pochi centimetri. Mia mamma reagí lanciandogli dei piatti.
Lui le si lanciò contro in mezzo ai piatti rotti, con i pugni alzati. Lei aveva le spalle contro il bancone. Era in trappola. Finché...
Lei non alzò un coltello. Un grosso coltello di quelli che si usano per sventrare gli agnelli. L’alzò, puntandolo al cuore di mio padre.
«Ti ammazzo, dannazione, – disse mia madre. – Dico sul serio».
Ci fu un attimo di silenzio.
Mi resi conto che era una cosa plausibile, che forse lo avrebbe davvero accoltellato. Ma con mia grande delusione, non lo fece.
Mio padre non aggiunse altro. Semplicemente, si voltò e uscí, sbattendosi alle spalle la porta della cucina.
Per un attimo, mia madre non si mosse. Dopodiché scoppiò a piangere. È terribile vedere la propria madre piangere. Ti fa sentire impotente e incapace.
«Lo ammazzerò per te», le dissi.
Ma a quel punto pianse ancora di piú.
Poi… udimmo uno sparo.
E un altro.
Non ricordo di essere uscito di casa o di aver barcollato nel cortile. Ricordo solo il corpo inerte e sanguinante di Rex sul terreno e mio padre che si allontanava stringendo tra le mani il fucile.
Ho visto la vita dissolversi dal corpo di Rex. I suoi occhi diventare vitrei e spenti. La sua lingua farsi azzurra. Le sue membra irrigidirsi lentamente. Non riuscivo a smettere di fissarlo. Persino allora, a quella giovane età, ho percepito che la vista di quell’animale morto mi aveva guastato la vita per sempre.
Il pelo soffice, bagnato. Il corpo spezzato. Il sangue. Ho chiuso gli occhi, ma continuavo a vederlo.
Il sangue.
Piú tardi, quando io e mia madre abbiamo gettato Rex dentro una fossa, a marcire insieme alle altre carcasse indesiderate, ho capito che una parte di me era scesa laggiú con lui. La mia parte buona.
Volevo piangere, ma non ci sono riuscito. Quel povero animale non mi aveva mai fatto del male. Mi aveva mostrato solo amore, solo bontà.
Eppure, non riuscivo a piangere per lui.
Anzi, stavo imparando a odiare.
Sentivo un nocciolo freddo e duro d’odio nel cuore, come un diamante in un blocco scuro di carbone.
Ho giurato che non avrei mai perdonato mio padre. E che un giorno mi sarei preso la mia vendetta. Ma fino ad allora, finché non fossi cresciuto, sarei stato intrappolato.
Cosí mi sono rifugiato nella mia immaginazione. In fantasie in cui mio padre soffriva atrocemente.
E soffrivo anch’io.
Nel bagno, con la porta chiusa, o nel fienile, o nel retro della rimessa, dove nessuno mi osservava, fuggivo… da questo corpo, e da questa mente.
Rappresentavo scene di morte crudeli, orribilmente violente: avvelenamenti strazianti, accoltellamenti brutali… scempi e smembramenti. Venivo sventrato e squartato, torturato a morte. Sanguinavo.
Salivo in piedi sul mio letto e mi preparavo a essere sacrificato da sacerdoti pagani. Mi afferravano e mi gettavano giú da una scogliera, nel mare, negli abissi, dove i mostri marini giravano in tondo in attesa di divorarmi.
Chiudevo gli occhi e saltavo giú dal letto.
E venivo fatto a brandelli.
Mariana lasciò gli alloggi del professor Fosca barcollando.
Per quanto avesse bevuto piú del dovuto, quell’offuscamento non era causato dal vino o dallo champagne. Dipendeva dallo shock per quello che aveva appena visto: la citazione greca sottolineata nel libro del professore. Era strano, pensò, che in momenti di estrema lucidità ci si potesse sentire come quando si è ubriachi.
Doveva parlarne con qualcuno. Ma con chi?
Si fermò nel cortile a riflettere. Non aveva senso andare a cercare Zoe, non dopo la loro ultima conversazione: Zoe non l’avrebbe presa sul serio. Aveva bisogno di qualcuno disposto ad ascoltarla. Pensò a Clarissa, ma non era certa che avrebbe voluto crederle.
Restava una sola persona.
Prese il telefono e chiamò Fred. Lui sembrò entusiasta di sentirla e le propose di incontrarsi al Gardies dopo dieci minuti.
Il Gardenia, noto da generazioni di studenti come Gardies, era una tavola calda greca nel cuore di Cambridge aperta fino a tarda notte. Mariana ci arrivò a piedi, dal vicolo curvo pedonale, cogliendone l’odore prima ancora di vederlo, accolta dal profumo delle patatine che sfrigolavano nell’olio bollente e del pesce fritto.
Era un locale minuscolo – poteva accogliere una manciata di avventori – e la gente si raccoglieva all’esterno e mangiava nel vicolo. Fred la attendeva davanti all’ingresso, sotto il tendone verde e l’insegna con la scritta: «Una pausa alla greca».
Sorrise a Mariana quando la vide avvicinarsi.
– Vuoi un po’ di patatine? Offro io.
L’odore di fritto le aveva fatto tornare la fame. Il cibo al sangue a casa di Fosca non lo aveva praticamente toccato. Annuí.
– Mi andrebbero proprio.
– Arrivano subito, signorina.
Fred entrò di scatto, inciampando nel gradino e andando a sbattere contro un altro cliente, che gli imprecò contro. Mariana non riuscí a non sorridere: era davvero una delle persone piú maldestre che lei avesse mai incontrato. Lui uscí quasi subito con due sacchetti di carta bianca gonfi di patatine fumanti.
– Eccoti servita, – disse. – Ketchup? Maionese?
Mariana scosse la testa. – Nulla, grazie –. Soffiò un po’ sulle patatine per raffreddarle. Poi ne assaggiò una. Era salata e aspra, leggermente troppo aspra, per via dell’aceto. Tossí e Fred la guardò preoccupato.
– Troppo aceto? Scusa. Mi è scappata la mano.
– No, no –. Mariana sorrise e scosse la testa. – Sono fantastiche.
– Bene.
Restarono lí per qualche istante, a mangiare le patatine in silenzio. Mariana lo fissava. La tenue luce artificiale faceva sembrare ancora piú giovani i suoi lineamenti. È solo un ragazzino, pensò. Un boy-scout appassionato. In quell’istante provò un affetto genuino per lui.
Fred la sorprese intenta a guardarlo. Le rivolse un sorriso timido. Parlò tra un boccone e l’altro. – Sono sicuro che mi pentirò di averlo detto. Ma sono felicissimo che tu mi abbia chiamato. Devo esserti mancato, anche solo un pochino… – Fred notò la sua espressione e il sorriso svaní. – Ah, vedo che mi sono sbagliato. Non è per questo che mi hai chiamato.
– Ti ho chiamato perché è successa una cosa… e vorrei parlarne con te.
Fred parve leggermente piú speranzoso. – Perciò volevi davvero parlare con me?
– Oh, Fred –. Mariana alzò gli occhi gli occhi al cielo. – Ascoltami e basta.
– Va’ avanti.
Fred mangiò le patatine e Mariana gli raccontò cos’era accaduto: le cartoline che aveva trovato e la scoperta della frase sottolineata nel libro di Fosca.
Dopo che lei ebbe terminato, lui restò in silenzio. Alla fine, disse: – Cosa intendi fare?
Mariana scosse la testa. – Non lo so.
Fred si pulí le briciole dalla bocca, accartocciò il sacchetto di car...