Creazione senza Dio
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Creazione senza Dio

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Creazione senza Dio

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La teoria darwiniana dell'evoluzione è il quadro teorico ineludibile entro il quale si inscrivono tutti gli studi della biologia contemporanea. La biologia molecolare, la paleontologia, l'ecologia, la medicina, l'antropologia: nulla di tutto ciò avrebbe alcun senso al di fuori della cornice concettuale evoluzionistica. Fin dai primi appunti - scritti negli anni trenta dell'Ottocento - a Charles Darwin fu chiaro che la sua era qualcosa di piú che una teoria scientifica: era un "lungo ragionamento" che minava alla base la concezione provvidenzialistica del mondo, includendo definitivamente l'uomo entro le leggi di natura. Nei quasi due secoli che ci separano da allora, la teoria dell'evoluzione si è arricchita di innumerevoli fatti nuovi e di una incredibile quantità e varietà di prove sperimentali ed empiriche. Darwin, invariabilmente, funziona.
Ma da sempre c'è chi si oppone, tentando di screditare il darwinismo, accusandolo di debolezze che non ha o attribuendogli esiti nefasti che gli sono estranei. Con una chiarezza ammirevole e una buona dose di ironia, Pievani ci aiuta a capire il retroterra culturale dei nuovi creazionisti, propugnatori anche in Italia di un «Disegno Intelligente» in salsa teo-con.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858437032

I. Darwin, prima che fosse Darwin

Un giovane studente di Cambridge sta preparando l’esame di primo anno, controvoglia e piuttosto preoccupato. È una matricola di buona famiglia, non molto portato per gli studi classici, già medico mancato, appassionato collezionista di coleotteri. Il padre è nervoso, lo attende al varco avendo fresca nella memoria la trascorsa esperienza di studio fallita in un’altra università. Una seconda sconfitta sarebbe uno smacco per il buon nome della casata. Il ragazzo deve cimentarsi su testi latini e greci obbligatori, che trova terribilmente indigesti: li dovrà tradurre e analizzare davanti alla commissione. Dovrà poi commentare brani dei Vangeli e degli Atti degli Apostoli. Infine, sosterrà un’interrogazione analitica sul libro di testo del college dal titolo Evidences of Christianity, scritto tempo addietro dall’arcidiacono e «Doctor of Divinity» di Cambridge, William Paley.
Qui sa di andare sul sicuro. Si è talmente innamorato della prosa del reverendo che l’ha praticamente imparata a memoria. «Non penso di aver mai ammirato un libro piú di questo», scriverà qualche anno dopo. Il volume ha una logica persuasiva e descrive per cinquecento pagine i mezzi attraverso i quali il divino si rivela ai credenti, non soltanto attraverso i miracoli ma anche attraverso le magnifiche opere della natura e le sue stupefacenti creature viventi. Queste ultime colpiscono particolarmente la mente del giovanotto, per le descrizioni cosí poetiche e trascinanti dei loro ingegnosi dettagli architettonici e meccanici, per gli adattamenti sofisticati che permettono ad ogni specie di essere in sintonia con il proprio ambiente. Un’armonia naturale tanto sapiente non può che essere prova inoppugnabile dell’azione di un sommo progettista, di una mente superiore che ha fissato una volta per tutte la gerarchia della natura e l’orizzonte dei suoi fini. Il creato è il grande «disegno» di Dio, da cui discende un fondamento sicuro per l’ordine politico e sociale: la minaccia della punizione eterna garantisce l’esercizio divino dell’autorità, mentre la speranza di dolci premi oltre la morte lenisce le sofferenze di chi è vittima, per sua stessa natura, di un destino degradato e inesorabile in questa vita. Una simile verità, scrive Paley, «mette l’ordine in luogo della confusione, e fa il mondo morale tutt’uno col naturale».
Un ordine precostituito regna dunque sovrano e benigno, unendo la musica delle sfere celesti, le forme ben congegnate della vita e le leggi inossidabili di una buona e sana società cristiana. Il ragazzo ne è a tal punto convinto da volerne fare il punto di forza della sua imminente prova, che affronta con fatalistica rassegnazione e un filo in piú di speranza, ma non senza un recondito senso di colpa per le ore passate a caccia anziché a studiare. È consapevole che gli ordini sacri sono l’unica strada che ha per intraprendere una carriera naturalistica, la sua unica vera passione. Con qualche sporadica riluttanza immagina se stesso come un tranquillo parroco di campagna, ragionevolmente devoto al Signore, certo, ma per il tramite della storia naturale. Le argomentazioni di Paley sono esattamente ciò di cui ha bisogno per placare la famiglia, per dare un senso ai suoi studi e per tornare presto a raccogliere animali e piante nelle campagne inglesi.
Quello studente pieno di dubbi ma infervorato dalla «teologia naturale» di William Paley passò l’esame di medio termine abbastanza bene e cosí quello dell’anno successivo. Risultati non eccellenti, conquistati a fatica, ma decorosi. Si chiamava Charles Robert Darwin e non diventerà un parroco di campagna. Il suo ruolo, rispetto all’implacabile e rassicurante regime naturale e morale esaltato da Paley, sarà piuttosto diverso da come se lo immaginava a Cambridge in quel lontano 24 marzo del 1830.

Nella stanza di Paley

Sembra che i destini di Darwin e di Paley dovessero incontrarsi per una qualche arcana necessità. Ironia della sorte volle infatti che al diciannovenne, giunto nel 1828 in una Cambridge oppressa dal conformismo anglicano e percorsa da incombenti sedizioni, fosse assegnata la stanza al primo piano del Christ’s College che un tempo era stata occupata proprio da William Paley, vetusto anche se ora un po’ decaduto protagonista della cultura anglicana di fine Settecento, autore dei libri di testo adottati dall’università, come The Principles of Moral and Political Philosophy del 1785. Il nipote dell’illuminista Erasmus Darwin avrebbe potuto soggiornare nella stanza di un altro prestigioso ex allievo di quel college, il poeta della tolleranza e delle libertà civili John Milton, e invece gli capitò il reverendo Paley, un campione dell’ordine anglicano tradizionale (anche se forse non altrettanto ortodosso in quanto a dottrina politica).
La Natural Theology, pubblicata da Paley nel 1802 tre anni prima della morte, era una lettura apologetica pressoché obbligata a Cambridge. La sua ottima prosa perseguiva l’ambizioso obiettivo di mostrare le «evidenze dell’esistenza e degli attributi della divinità raccolti dalle manifestazioni della natura». Paley presentava differenti versioni del cosiddetto argument from design, la deduzione dell’esistenza di Dio a partire dall’evidenza di un progetto insito nel mondo naturale. Si trattava, nella sostanza, di un’argomentazione per analogia. Se camminando per una brughiera, spiegava Paley, noi incappiamo in un artefatto, per esempio un orologio di pregiata fattura, siamo portati automaticamente a ritenere, in virtú della sua forma e delle relazioni complesse fra le sue componenti, che sia esistito un orologiaio che lo ha progettato e costruito. Sappiamo cioè che si tratta del prodotto di un’attività intenzionale. Se invece inciampiamo in una pietra, siamo autorizzati a pensare che essa si trovasse lí da sempre e senza alcuna ragione particolare.
Allo stesso modo, quando volgiamo lo sguardo all’universo, ci accorgiamo della sua straordinaria armonia e articolazione, ben superiore a quella di un orologio. Non possiamo che dedurne, a maggior ragione, l’esistenza di una mente suprema che ha progettato l’universo, proprio come l’orologiaio ha progettato il suo congegno. Lo stesso ragionamento possiamo adesso avanzare osservando le ingegnose opere della natura sul nostro pianeta, gli adattamenti perfetti delle specie, le splendide forme degli animali: non possono essere i prodotti di un meccanismo naturale casuale come il rotolare di una pietra. È in azione un «disegno intelligente», la cui natura, fatte le debite proporzioni con l’orologio di foggia umana, non potrà che essere divina.
Si tratta di un ragionamento intuitivo, immediato, che non richiede di considerare i tempi lunghi di un processo di trasformazione, ma solo la meraviglia riconoscente di fronte allo spettacolo della natura, e che risponde all’istinto con cui la mente umana associa la complessità di un sistema all’esistenza di un progetto, di un’intelligenza sottostante e di un fine. Scriveva Paley con accenti provvidenzialistici che ricordano il dottor Pangloss di Voltaire, ma soprattutto rievocano la grande metafora della natura come macchina: «Vi è precisamente la stessa dimostrazione che l’occhio sia stato costruito per vedere e che il telescopio sia stato costruito per aiutare l’occhio».
Il trattato di Paley – che era stato preceduto dalle opere del contemporaneo di Newton John Ray, di William Derham e di altri teologi naturali non solo inglesi – conservava un’enorme influenza e aveva dato la stura a un genere letterario di grande successo in Inghilterra e in Francia. Opere che esaltavano la saggezza e la lungimiranza di madre natura non si contavano all’epoca e davano vita a una trattatistica devota, come quella dei «Bridgewater Treatises», che nei diversi settori delle scienze naturali cercava di moltiplicare l’argomentazione del disegno di Paley, dimostrando «il potere, la saggezza e la bontà di Dio per come si manifesta nelle opere della Creazione».
Nei suoi «Dialoghi sulla religione naturale» usciti postumi nel 1779, il filosofo scozzese David Hume aveva già demolito brillantemente le inferenze della teologia naturale e dell’argument from design. L’eco di Hume e del suo affondo empirista era ancora forte quando Darwin giovanissimo aveva soggiornato a Edimburgo per studiare medicina. Hume del resto aveva esercitato una certa influenza sul ramo illuministico paterno della famiglia Darwin, in particolare sul nonno Erasmus, autore di un’opera, la Zoonomia del 1796, ricca di spunti sulla trasformazione delle specie. Le cause alternative evocate da Hume, tuttavia, non andavano oltre un riferimento generico a proprietà interne di organizzazione della materia organica, mutuate dalla «mano invisibile» di Adam Smith.
La fascinazione iniziale di Darwin per la teologia naturale non dovrebbe stupire, se solo consideriamo la pregnanza, nelle scienze naturali inglesi di primo Ottocento, delle idee religiose difese dal blocco sociale e accademico anglicano. Non esisteva ancora una classe di scienziati professionisti e stipendiati. La storia naturale era un lusso concesso a benestanti e uomini di chiesa. Del resto, le somiglianze morfologiche e la complessità adattativa degli organismi avevano convinto dell’esistenza di un disegno persino Isaac Newton. Quando il giovane naturalista, tornato dal suo viaggio di cinque anni intorno al mondo, concepirà una spiegazione alternativa del succedersi delle specie sulla Terra, il peso angoscioso della sua scoperta sarà cosí opprimente da indurlo a parlarne con pochissime persone e in modo molto prudente. Nel 1844, in una lettera all’amico Joseph Hooker, scriverà che rendere nota la sua idea sarebbe stato «come confessare un delitto».

Come mangiarsi le prove di una teoria

Per fortuna, abbiamo i suoi taccuini segreti redatti con maniacale precisione dal 1837, pagine intense ed emozionanti, scritte sull’onda dell’entusiasmo per il montare inarrestabile di una costruzione teorica illuminante e per lui sempre piú evidente. Ricostruire da questi appunti, recuperati dalla nipote Nora Barlow nel 1963 e poi pubblicati in edizione critica integrale nel 1987, la filigrana di pensiero che lo ha portato a concepire la teoria dell’evoluzione per selezione naturale è appassionante. Tutto si compie nel giro dei sei anni successivi al ritorno del Beagle in patria nel 1836, un’odissea di creatività e di crescita personale non meno interessante della sua circumnavigazione del globo.
Mentre è in viaggio le sue convinzioni creazioniste «normali» cominciano a convivere con l’osservazione della realtà dell’evoluzione delle specie. Le vaghe intuizioni sulla trasmutazione delle specie e sulle modificazioni della crosta terrestre maturate negli anni di studio prima del 1831 – insinuate nella sua mente soprattutto dalle frequentazioni geologiche con il reverendo Adam Sedgwick e dalle discussioni con l’affascinante mentore di Edimburgo, il lamarckiano, e radicale contestatore, Robert E. Grant – incontrarono ben presto gli schemi osservati in natura e ne nacque una curiosa alchimia di idee. È pur vero che lo stesso Paley non rifiutava per principio l’evoluzione, ma ne subordinava i cambiamenti all’azione di un’intelligenza, contrapponendo la sua idea a ipotesi alternative basate sulla trasformazione delle specie che già circolavano all’epoca e che sicuramente misero piú di una pulce nell’orecchio ricettivo di Darwin.
Per mare lo colpirono, in particolare, le evidenze geologiche dei processi di trasformazione della crosta terrestre, le modalità di successione e di sovrapposizione nello spazio geografico di due o piú specie simili, soprattutto sugli arcipelaghi, e i processi di transizione nel tempo da una specie estinta (per esempio, i grandi mammiferi fossili che lui scava in Sud America) a una o piú specie affini attuali. Il naturalista eclettico e dilettante di una volta diventa un enciclopedico vorace, in grado di spaziare fra dati geologici, biogeografici e paleontologici per saggiare le sue convinzioni emergenti, anche se ancora confuse: «qui originano tutte le mie concezioni», scriverà.
Darwin negli anni goliardici dell’università era socio di un bizzarro club di ghiottoni, la cui prerogativa era quella di assaggiare in compagnia le carni piú strane e talvolta ripugnanti. Un’esperienza al limite del commestibile che gli tornerà utile. Nell’Autobiografia ricorda di aver unito tre insiemi di dati per arrivare alla sua scoperta. Primo, i fossili di animali estinti con caratteristiche simili a specie viventi, come la corazza dell’armadillo attuale che richiama quella del gliptodonte: in effetti, in viaggio mangiavano armadilli. Secondo, il modo in cui animali affini si sostituiscono l’un l’altro procedendo verso sud nel continente sudamericano: in particolare, si accorse che aveva di fronte un esemplare di una specie nuova di nandú, piú piccola – poi chiamata Rhea darwinii in suo onore – mentre la stava mangiando sul Beagle insieme all’equipaggio e i primi resti ossei della nuova specie sono in realtà gli scarti di un pranzo. Terzo, la distribuzione delle specie alle Galápagos, di origine continentale ma con caratteristiche particolari in ogni isola anche se di formazione recente: il vicegovernatore gli descrisse le variazioni isola per isola nei carapaci delle testuggini, di cui pure ci si cibava regolarmente. In pratica Darwin si è mangiato le tre classi di prove piú importanti dell’evoluzione: una sorta di «via gastronomica» alla scoperta scientifica.
Le diversità nei becchi dei fringuelli verranno dopo, perché non si mangiano ma soprattutto perché non si annota le isole di provenienza. Osserva invece la variazione geografica degli uccelli mimi e insinua: «la zoologia degli arcipelaghi sembra compromettere la stabilità delle specie; ci sono variazioni geografiche continue». Associa la successione nel tempo (il lama estinto) alla sostituzione nello spazio. Nel frattempo, mentre ancora solca gli oceani, l’ipotesi rivale, il creazionismo, gli appare sempre piú inutile e poco elegante. Nelle Ornithological Notes, scritte a bordo fra il 1835 e il 1836, lo tormenta una domanda: perché Dio avrebbe dovuto creare apposta tanta varietà da isola a isola? Non può esistere una spiegazione naturale piú semplice? Sta contemplando l’idea di evoluzione intuitivamente, ma non è ancora un’ipotesi coerente da mettere alla prova. Si prefigge allora di consultare la letteratura al ritorno e di creare una casistica: vuole controllare che i suoi schemi incipienti abbiano validità generale.
In questa fase «descrittiva» del 1837, contenuta nel Red Notebook e nel Taccuino B, Darwin si appunta alcune osservazioni straordinarie: paragona la vita delle specie a quella del singolo organismo, con la nascita (la speciazione), il ciclo di vita e la morte (o estinzione), come se fossero entità discrete, tendenzialmente stabili eppure connesse l’una all’altra. Capisce che le specie non si succedono una ad una, ma che da un’origine comune possono discendere piú specie, intese come percorsi evolutivi «cugini». Prodromi di un’idea che farà strada.

Sboccia l’albero della vita

Darwin in quei mesi comincia a ricevere i risultati delle ricerche fatte dagli esperti sui suoi reperti di viaggio. L’ornitologo John Gould gli spiega che i fringuelli delle Galápagos appartengono a dodici specie distinte, che i piccoli struzzi della pampa sono divisi in due specie, che gli uccelli mimi delle Galápagos non sono miscugli di caratteri in tante varietà di una stessa specie, ma anch’essi specie distinte. Cosí riflette sulla relazione fra stabilità apparente delle specie e loro variazioni interne. Soprattutto, coglie il ruolo dell’isolamento geografico nel creare specie diverse e lo associa a questioni di infertilità fra le popolazioni di organismi.
A pagina 20 del Taccuino B arriva l’illuminazione: inventa la metafora dell’«albero della vita» e la disegna, per la prima volta. È l’unico diagramma evoluzionistico dei taccuini, perché tutti gli altri sono schizzi geologici. Sceglie come caso i mammiferi sudamericani estinti da lui scoperti durante il viaggio. Nei commenti a margine annota questi concetti: «rami che si estinguono», «antenati comuni», «moltiplicazione delle specie», «numero costante di specie?». Nella sostanza c’è tutta la teoria dell’evoluzione, tranne la selezione naturale: «alcuni rami sono piú ramificati a loro volta di altri, donde i generi di specie». Sta già pensando che «i cambiamenti non derivano da volontà degli animali ma da legge di adattamento».
È la sua prima grande predizione rischiosa: se l’ipotesi dell’evoluzione fosse corretta, con antenati e discendenti, quale aspetto avrebbe la storia naturale? Quella di un albero ramificato. Poco oltre rettifica: piú che un albero dovremmo chiamarlo «il corallo della vita» ed è curioso pensare a come sarebbe andata la storia se avesse prevalso questa bellissima versione marina della metafora. L’idea di «discendenza comune» circolava già fra alcuni studiosi, ma mai nessuno aveva immaginato un «sistema filogenetico» simile. Concependo la «discendenza comune con modificazioni» e ramificazioni di specie, propone in pratica che l’intero sistema di classificazione gerarchica di Linneo sia interpretato non piú come un piano provvidenziale, ma come un ordine di parentela e di comparsa nella storia naturale. In un mondo che chiaramente è piú vecchio di quanto ritengano i geologi dell’epoca, vi è stato il tempo sufficiente affinché la gerarchia dei viventi di Linneo si formasse per cause storiche del tutto naturali.
Ha per le mani la sua prima legge generale, da mettere alla prova. Inaugurando un’abitudine che si porterà dietro per tutta la vita, immagina subito le obiezioni degli avversari per prevenirle. Pensando a catastrofisti come il paleontologo francese George Cuvier, si chiede: come mai allora non troviamo forme intermedie? (Per inciso, è una di quelle obiezioni anacronistiche poste ancora oggi da alcuni creazionisti). Per aggirare l’ostacolo rinuncia all’idea che le specie transitino l’una nell’altra per saltum. Il suo schema generale implica che si debbano trovare serie graduate di passaggi, «gradazioni perfette», «gradi insensibili di cambiamento», ed esorta se stesso: «citare qualche buon esempio». Decide che ha bisogno di provare il gradualismo con l’osservazione per confutare Cuvier, oppure di trovare buone ragioni per cui non lo riesce a verificare nella documentazione.
Ha visto che i suoi schemi parlavano di «sostituzione geografica e geologica basata su transizioni tra forme discrete», ma ora avverte questo fatto come un cedimento rispetto al discontinuismo catastrofista di ispirazione creazionista. Nel Taccuino B escogita allora per la prima volta l’argomentazione dell’imperfezione della documentazione paleontologica. Due cause distinte rendono difficile trovare gradazioni perfette fra specie: la lacunosità della documentazione fossile (nel tempo passato) e l’incrocio fra varietà (oggi) che tende a nascondere gli schemi di variazione nello spazio rimescolando tutto. Ma affinché questa argomentazione non suoni come un’ipotesi ad hoc deve ora concentrarsi sulle cause del cambiamento, quelle che possano giustificare la continuità del processo evolutivo.

Predizioni rischiose

Nei taccuini si nota come questa svolta sia accompagnata da una attenta riflessione sul metodo scientifico. Nell’Autobiografia, scritta in vecchiaia nel 1876, Darwin si definirà un induttivista baconiano impegnato nel «raccogliere dati liberandosi da preconcetti», ma nei primi appunti che svelano la sua segreta logica della scoperta scientifica si intravede una figura di ricercatore assai piú complessa, capace di mescolare c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Creazione senza Dio
  4. Premessa
  5. I. Darwin, prima che fosse Darwin
  6. II. Neocreazionisti all’arrembaggio
  7. III. Una irriducibile oscurità
  8. IV. Gli ultimi campioni del postmodernismo
  9. V. La scienza dell’imperfezione
  10. Epilogo
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Dello stesso autore
  14. Copyright