1. Prima dello sport moderno.
Tra Antichità ed epoca moderna si è soliti stabilire talvolta una certa continuità, altre volte una cesura netta. Allen Guttmann, nel suo noto testo1, rileva come gli sport moderni appaiano in netto contrasto rispetto agli sport primitivi, antichi e medievali. Stabilisce sette famose caratteristiche di differenziazione, sulle quali torneremo; qui è importante sottolineare come le culture primitive – o profane, come le chiama, per non incorrere in accuse di etnocentrismo – non «dispongono di una parola che significhi lo sport cosí come noi lo intendiamo»2.
Anche se sull’aleatorietà del termine ci siamo già intesi: «Sport è tutto ciò che gli esseri umani hanno chiamato sport»3.
Soffermarsi sulla genesi e sulle trasformazioni dello sport come lo intendiamo noi non è tuttavia mero esercizio storico. Fa luce, questo sforzo di conoscenza, su alcuni aspetti assai rilevanti circa la costruzione dell’immaginario collettivo, la formazione dell’identità nazionale e locale, i linguaggi, le mode e persino i vizi delle società cui si fa riferimento.
Se, come già detto, lo sport è cultura, è possibile anche attraverso questa narrazione apparentemente parziale, sbilanciata e autoreferenziale, cogliere le tappe di una trasformazione epocale, che ha portato discipline quali il calcio, il basket, il football americano, il baseball o il tennis a diventare il parametro, il termometro, il paradigma di grandi cambiamenti sociali.
Vanno fatte alcune considerazioni preliminari, o meglio andrebbero formulate alcune domande che non si prestano a una facile risposta. Possiamo davvero considerare una linea di continuità tra lo sport dell’antica Grecia – sacro, rigidamente strutturato nell’ambito di cerimoniali religiosi – e quello moderno, una religione sí, ma laicissima, secolarizzata e «disincantata» nell’accezione weberiana del termine? E ancora, è giusto affermare che lo sport è fine a se stesso, ovvero, nella sua essenza, «inutile per la società», visto che milioni di persone in tutto il mondo si vantano «di farne a meno»?
Possiamo provare a rispondere subito almeno a questa domanda chiamando in causa la ginnastica nella sua versione prussiana e militarista della seconda metà dell’Ottocento: no, in tanti casi non è stato possibile prescindere dallo sport. Infine, nonostante tutto il male che si dice dello sport professionistico moderno, è chiaro a tutti che il dilettantismo, cosí tanto agognato e rimpianto è, di fatto, storicamente elitario, antidemocratico, classista.
2. Dalla Grecia a Torino.
Nella florida Magna Grecia, e precisamente a Crotone, già nel VI secolo a.C. esisteva un ginnasio in cui si mettevano in atto gli insegnamenti pitagorici: una filosofia di vita che stabiliva l’unione degli esercizi fisici e l’educazione intellettuale e morale. Si mirava cioè «all’unità mente-corpo nella prospettiva del benessere personale e comunitario. Il suo obiettivo era formare persone felici»4. Il benessere, in altri termini, era da ricercarsi nell’equilibrio tra le esigenze dell’anima e quelle del corpo, da realizzarsi attraverso una corretta paideia5 e una altrettanto efficace diaita6.
Nella diaita, educazione, alimentazione e movimento erano insomma profondamente correlati, assegnando al corpo il centro di questa concezione, di questo stile di vita. Poi vennero certi movimenti ascetici cristiano-medievali a propugnare al contrario la mortificazione del corpo; ma tra Umanesimo e Rinascimento vi fu una riscoperta dell’esercizio fisico, a opera fondamentalmente del medico e pedagogo Girolamo Mercuriale (1530-1606).
Emanuele Isidori7 assegna a Locke il merito di aver preparato, alla fine del XVII secolo, la scuola occidentale alla diffusione dell’educazione fisica riproponendo il corpo al centro dell’attenzione; mentre spetterà a Rousseau il compito di completare l’opera, assumendosi «la paternità di quell’educazione integrale dell’uomo per la cui realizzazione la cosiddetta pedagogia dello sport è di fatto nata»8.
Ma facciamo un passo indietro.
Se l’Antropologia si è concentrata su pratiche che raccontassero un contesto piú vasto, come fossero oggetti «buoni da pensare» di quelle società, ovvero come riflesso delle modalità relazionali di date culture, altre discipline, a partire dall’Archeologia, si sono occupate di sviscerare attività assimilabili alla pratica sportiva, partendo da una prospettiva diversa, puntando l’attenzione su immagini, forme, stili iconografici.
Risalgono a un’epoca ben anteriore alle Olimpiadi antiche – che si svolsero dal 776 a.C. al 393 d.C., anno in cui vennero abolite dall’imperatore cristiano Teodosio insieme ad altre feste pagane – diverse testimonianze archeologiche che attestano la presenza di competizioni fisiche in qualche maniera riconducibili agli sport moderni. Certo, si tratta di associazioni, se non arbitrarie e fantasiose, certamente discutibili.
Varie forme di lotta rituale, cruente piú che simboliche, appaiono un po’ ovunque agli albori dell’umanità. E insieme a queste vediamo, dalle evidenze archeologiche, apparire un uomo che si dedicava ad attività quali l’allenamento alla caccia, a rituali e parate, a momenti aggregativi inter-comunitari, a intrattenimento per le élite dominanti nonché all’allenamento al conflitto inter-personale.
Del resto anche l’Iliade, che racconta eventi del XII secolo a.C., sebbene raccolti poi nell’VIII, racconta ad esempio i giochi funebri in onore della morte di Patroclo, con tanto di corse con i carri, pugilato, lancio del disco, di giavellotto, di saette9.
In un certo senso si può ricondurre quest’atmosfera solenne in cui ha luogo la sfida, la celebrazione dell’onore, lo sfoggio del proprio valore, persino la millanteria, al rituale potlatch dei Kwakiutl, popolazione della costa nord-occidentale del Nordamerica, presso la quale i nobili erano impegnati in una gara di munificenza nel donare una grande quantità di oggetti alla popolazione10. È universale, evidentemente, l’aspirazione a ricevere lodi e onori per il proprio valore.
Erano giochi sacri e seri, talvolta cruenti e fatali, nei quali la virtú, l’onore, la nobiltà d’animo entravano in competizione, ovvero erano «in gioco». È certo il legame con il rituale, il sacro, le attività belliche pure nelle testimonianze archeologiche che risalgono anch’esse al II millennio a.C. e che si riferiscono a prove di forza, allenamenti alla caccia, parate e momenti aggregativi inter-comunitari. E se fino al VII millennio a.C. era stata la caccia l’attività produttiva preminente – e quindi l’allenamento a questa attività quella che «allenava» i giovani virgulti – dal Neolitico in poi è la guerra l’impegno primario. Dobbiamo pensare, tanto nel Medio Oriente quanto in Europa, a centri con poche migliaia di abitanti, dislocati a poche miglia di distanza, con un sistema basato sull’agricoltura e l’allevamento ma anche sull’economia predatoria e nel quale il bottino, di merci e di schiavi, costituiva una voce importante per la sopravvivenza. La guerra era quindi necessaria.
I protagonisti di queste attività e di queste testimonianze sono in genere guerrieri – per lo piú specializzati – appartenenti a un’élite, che in tempo di pace devono mantenersi in allenamento, affinare le tecniche, continuare a guerreggiare metaforicamente o meno per dimostrare di essere all’altezza del ruolo. Oppure anche sono uomini dediti ad attività di caccia e pesca – funzionali all’economia di determinate civiltà – ma che, come nel caso delle incisioni rinvenute ad Alta, in Norvegia, e databili tra il 4200 e il 500 a.C., possono farci pensare a un rituale. In questo caso: possiamo parlare di culto o anche di una pratica sportiva? Sappiamo, e lo vedremo meglio in seguito, come tale confine tra sacro e profano possa considerarsi talvolta piuttosto labile.
Secondo la preziosa ricostruzione dell’archeologo bolognese Claudio Cavazzuti11, possiamo ricavare numerose tracce di questi legami in numerosi siti europei e medio-orientali.
Un caso a parte è quello di Gilf Kebir, nell’Egitto sud-occidentale, in quell’area desertica nota per le ricerche condotta dall’équipe di Leo Frobenius, dove entra in gioco un’altra disciplina sportiva: il nuoto. Nel 1933 venne alla luce infatti la cosiddetta «grotta dei nuotatori», con pitture rupestri in ocra di difficile datazione12, ma comunque collocabile tra il IX e il IV secolo a.C., in un’epoca nella quale evidentemente la zona era ricca di pozze d’acqua.
Sempre in Egitto, piú a nord, nell’area nilotica di Beni Hasan, una tomba databile tra il XXI e il XVII secolo a.C. reca la testimonianza di scene di lotta dipinte in ocra, mentre risale approssimativamente al XV secolo a.C. il rhyton, il vaso cerimoniale di steatite rinvenuto nel sarcofago di un palazzo minoico ad Aghia Triada, a Creta. Qui si vedono scene di lottatori che non paiono piuttosto familiari al nostro immaginario e che ci offrono – siamo in totale assenza di fonti scritte – informazioni interessanti. Intanto i combattenti si sfidano uno contro uno, presumibilmente attenendosi a determinate regole «cavalleresche» visto che non appare mai la figura di un giudice o un arbitro; indossano sandali e collari, che indicano una condizione sociale senz’altro superiore a quella degli schiavi; indossano elmetti di cuoio – mentre i pugili combattono senza elmo – e celebrano il trionfo con il braccio sinistro alzato, in una posa che ci appare modernissima e persino arrogante. Difficile non riscontrare, in queste immagini, un’affinità con quel che noi chiamiamo sport. C’è poi un particolare, apparentemente irrilevante, ma che riconduce a un altro elemento moderno: le acconciature degli atleti, a treccine, piuttosto bizzarre e che si ritrovano in altre aree vicini e lontane, nelle epoche seguenti. Ciò potrebbe significare che certe mode, simili a quelle attuali, permeassero il bacino del Mediterraneo, che questi atleti facessero, per usare un’espressione attuale, «tendenza». Ecco, infatti, che ritrov...